Cinema, il dilemma del finale: guardare i titoli di coda – sai mai ci sia una sorpresa- o alzarsi e andarsene. Iniziando la riflessione, ricordando ciò che di bello questo film è stato, criticando il brutto, l’ovvio e forse lo scontato riproposto, sempre troppo spesso, poiché garanzia di successo, O almeno così dicono, esperti e critici di sorta. Meglio non ascoltare.
Sappiate che ad ognuno di noi, inconfutabilmente, piacciono i film belli – quelli belli per davvero però- il che vuol dire tutto ma assolutamente niente, tanto è soggettivo il carattere bello. Che può valere per me, non per te e viceversa.
Quell’innegabile diseguaglianza che libera destandartizzando il genere umano, incapace – grazie a Dio– di ricadere in ambiti circoscritti, insiemi clusterizzati che renderebbero il respiro meno vivo, il cervello meno pensante, traslando il nome – carattere distintivo primario- in numero volgarmente inqualificabile e penosamente triste. Vorrebbero riuscirci, sarà impossibile.
Iil riferimento ad un loro sta sempre e comunque bene] Sappiate la mia, comunque, ai titoli di coda – non me ne vogliano i collaboratori di riprese talvolta fondamentali al pari degli attori protagonisti- sono già al parcheggio.
Nessuna mancanza di rispetto ma preferisco godere la fugacità del momento, evitando spazi silenziosi e morti in cui rivivere l’esperienza senza nemmeno essersi spostato dal luogo dell’accaduto. Tanto vale ripagare un ennesimo biglietto e far lavorare gli occhi piuttosto che il computer cerebrale. Pigrizia? No. Perché prima o poi, il tempo per ripensarci o parlarne lo trovi, l’occasione di condivisione è lì a portata di mano che aspetta la scintilla per incendiare il fuoco della discussione.
Hai visto quel film? Si, oppure no. Comunque argomentando, evitando di passare per maleducati, rivivendo la trama e analizzando, scientemente vivisezionando, episodi che a nostro dire sono stati chiave.
Fantasy Football Week 16 in preview ma da ipotizzare c’è poco, da predire restano briciole: una league seria a questo punto è già ben che conclusa, la corsa alla postseason è chiusa all’ottanta per cento – giusto per dare un’idea- sebbene si continui ad accettare miracoli.
Un kolossal, anche quest’anno, che riprende e giustifica nuovamente ciò che da sempre si dice della National Football League: la miglior sceneggiatura mai scritta.
Imperdibile drama dall’happy ending scontato, celebrato, mitizzato da confetti a piovere al momento dell’assegnazione del trofeo Lombardi che all’italiana potrebbe apparire cugino dell’estivo Moretti che di gloria effimera ne ha regalata tanta negli anni, ma che in madrelingua assume valore pari a quello del Sacro Graal. Senza voler passare per blasfemi, che non è questo il caso, soprattutto nella Terra che è Nazione unita, sotto un unico Dio, indivisibile e garante di libertà e giustizia per tutti.
Colpi di scena ed effetti speciali troppo umani per essere reali, inquadrature hollywoodiane ritagliate su azioni travolgenti cui seguono directors’cuts con dietro le quinte gradevoli, talvolta sensazionali corredati da abbandoni e ritorni che par di essere nel Vangelo per tanti figliol prodighi l’abitino.
Anche voi che guardate da lontano, sospettosi, non ancora toccati dal sacro fuoco, immaginate così questo sport. Provate a far indossare queste righe alla disciplina che più vi appassiona: la certezza è che cada abbondante.
E allora, avvicinatevi e godete del più grande spettacolo sulla Terra che non rimarrete delusi, anzi.
Alla fine solitamente si tirano le somme tanto vero quanto le somme si tirano alla fine, sostanziale è il cambio di percezione: dal dato di fatto si passa alla minaccia, quasi, e non è questa l’occasione.
Questo ultimo appuntamento, forse il più facile da scrivere, vuole essere una celebrazione della season 100 in attesa della suggestiva ventiventi che apre le porte ad una nuova decade chiudendo – ipotesi quanto mai plausibile- un’epoca che era diventata una sorta di confort zone per molti di noi: è già partito il tamtam circa il futuro di sua maestà Tom Brady e se il saluto di Philip Rivers ai Chargers pare scontato, può esplodere la bomba Drew Brees che a forza di record ha accostato il suo nome al termine leggenda: a schiarire le nubi saranno i prossimi mesi, indicativamente tra gennaio e febbraio, che il ragazzo pare averne ancora ma chiudere à la Peyton Manning certamente ingolosisce.
Ventiventi sarà annata tonda e se volete andare a toccare l’esoterismo sappiate che questo vi racconterà dell’agire irrazionale che per una stereotipa ragione si accosta all’azione giovane e fresca per quanto turbolenta delle nuove leve: consacreremo Mahomes, Watson e Jackson chiedendo un bis a Winston tanto per veder ripagata la fiducia avuta negli anni, attenderemo forse ancora Baker – che con un nome così il cognome pare superfluo- e Darnold in attesa di veder brillare Lock e Jones. Non c’è dimenticanza alcuna, Minshew sarà più facile ricordarlo come una comparsa mancata in quel The 70’s Show riproposto ora su Netflix piuttosto che il campione che tutti aspettavamo. La smentita sarà cosa molto gradita.
Aver citato solo i quarterbacks è comodità stilistica a metonimia linguistica nonché assioma di marketing: è di loro che vengono vendute più maglie tante volte indossate ignorandone l’origine.
Dicendo Josh Allen si prendono due piccioni con una fava: se il signalcallers dei Bills ha dato prova di grande concretezza, sana e abbondante dose di incoscienza e un braccio affidabile, l’omonimo linebacker dei Jags ha messo su una stagione mostruosa che l’ha portato ha segnare già 10 tackle. D’obbligo la considerazione per il defensive rookie of the year appaiato a quel Nick Bosa che pare migliore del fratello losangelino.
Molto più scuro che chiaro nella stagione di Quinnen Williams e Rashan Gary per i quali le aspettative erano molto più alte. Da rivedere.
E merita una rivisitazione anche Kyler Murray che fino ad ora non ha giustificato la pick one al Draft scorso. Non solo per colpe sue.
Muovendo la catena, spostando l’orizzonte i runningbacks della prossima decade avranno i nomi di Josh Jacobs e Devin Singletary: entrambe abbaglianti per lunghi scampoli di stagione, con maggiore concretezza arriverà la consacrazione.
Da ultimo, non ultimo, il reparto dei widereceivers che ha regalato gloria a AJ Brown e Darius Slayton: loro prima di DK Metcalf poiché il tasso di conversione del successo era molto meno conveniente preso atto dei quarterbacks di cui disponevano. Non è un caso che i capitani partiti titolari siano poi stati sostituiti da degne riserve.
Spazio per tutti, momento degli awards.
Ma prima di tutto due righe due di ringraziamento a questi di playitusa per lo spazio e la fiducia accordatami.
La collaborazione con la redazione è cosa non troppo recente, a spot ho avuto modo di scrivere più volte soprattutto sui miei Texans. La convocazione della scorsa estate per le preview mi ha colto di sorpresa e gratificato: c’è stato anche un utilissimo momento di confronto con il Righetti, al secolo Mattia, fin troppo esigente ma proprio per questo decisivo. D’altronde come dice uno che se ne intende il fuoco non puoi accenderlo senza una scintilla. Si, parlo di Bruce Springsteen.
Ad agosto, poi, siamo stati riconosciuti dall’NFL come media credibili e pertanto accreditati al sito della lega riservato alle comunicazioni con la stampa. Si, non ve l’avevamo detto ma ciò, a modesto avviso, spinge i confini un pochino più in là.
Tra i tanti grazie che uno dovrebbe dire, quelli particolari a Lavarra per la disponibilità nell’editing e a Max, il fondatore.
Il resto della redazione merita un plauso per l’ottimo lavoro portato avanti. E val la pena aprire una piccola parentesi, brevissima.
Di siti italiani sul football ce ne sono tanti. Di pagine Instagram sull’NFL ne stanno uscendo a bizzeffe. Spesse, troppe volte il più delle notizie sono un copia incolla di dispacci della Lega, altre materiale scandalistico alla Novella Duemila. Senza voler offendere il tabloid.
Qui no, qui la competenza la fa da padrone: analisi, attenzione ai dettagli, capacità di scrittura sono elementi distintivi di quanto viene svolto – e scritto- su queste pagine.
Il momento discorso, finisce qui. Riprendendo il segno, quindi, tempo di premi stagionali.
La scelta dei vincitori è puramente – secondo modalità scontate- discrezionale quindi se avete da ridire, scrivetelo pure nei commenti.
Partendo dal back office, il titolo di General Manager Of The Year va a Bill O’Brien. Si, capito bene anzi benissimo. La cacciata di Brian Gaine ha sorpreso tutti, c’era attesa per un nuovo innesto nella posizione ma ciò non è avvenuto: gli scenari supposti non erano dei migliori, l’accusa rivolse il dito verso coach BoB ipotizzato responsabile unico per l’accaduto. Storie, gossip: l’ex GM guadagnò sul campo la cacciata, change my mind. Il dopo è storia riassunta perfettamente in quella blockbuster trade che ha portato Tunsil e Stills a Houston in cambio di buone scelte guadagnate – e pareggiate- nell’affare Clowney. Lavoro superbo, come per gli alpini “Patriot una volta, Patriot per sempre“.
Premiato lungo la sideline, primo per distacco, John Harbaugh è Coach Of The Year. Da obiettare, poco. Decisione che potrebbe essere unanime di certo, per l’uomo che ha trasformato Jackson in Lamar. Attenti al gioco stilistico: da anonimo qualunque baciato da un cognome equiparabile ad un italico Rossi a chirurgico e letale signalcaller dotato di ruote a solcare storia e record della lega. Di Baltimore – tradizionalmente tradizionale– si rende credito maggiormente alla difesa che all’offesa. Erroneamente, nel caso in oggetto. Riuscire a strutturare un’attacco con i mezzi a disposizione è compito scontato di qualsiasi allenatore, renderlo letale è bravura di pochi. Erano molti i dubbi ad inizio anno in un reparto dove il più conosciuto era Mark Ingram di provenienza Saints e il quarterback era visto più come un intruso fuoriposto che altro. Un reparto ricevitori non da primapagina cui aggiungere un tightend al secondo anno, non lasciavano spazio ai sogni. Se non di pochi, fedelissimi discepoli della dottrina di coach H: non arrangiarsi con quel che si ha ma usarlo per eccellere.
Servisse ancora una riprova, eccola. Le difese talvolta sono i migliori attacchi: parliamo di Patriots, più specificatamente di un patriota in particolare, Stephon Gilmore che di professione fa il cornerback ma lo definissimo raccattapalle non si offenderebbe. Lui è il Defensive Player Of The Year, sgomberando il campo – per una volta- dai vari edge rusher: 36 solo tackles – ad oggi, mancano ancora due match- vari assist, 6 intercetti e almeno 18 passaggi deviati.
Il premio MVP è ben che assegnato e la difficoltà di non vederlo nelle mani di un non-quarterback è cosa nota. L’Offensive Player Of The Year è un riconoscimento alla costanza, all’impressionante capacità di ottenere una percentuale di completi mai inferiore al 71% e alla stupefacente abilità a scendere sotto le 100 yards ricevute appena cinque volte cinque in stagione: Michael Thomas di diritto, il miglior giocatore offensivo della Season 100.
Prima dell’incoronazione ufficiale, lo sguardo al futuro interstellare, antipasto della nouvelle vague largamente riconducibile al cinema, appunto, a pennello per questa lega da multisala.
Il titolo di Rookie Of The Year per ambedue le categorie – attacco e difesa- è stato – tuttora è– territorio di forte battaglia. Dovendo scegliere, quasi a lanciare una monetina, le nomine spettano a: Josh Allen – LB Jaguars- e AJ Brown WR di casa Titans.
E se il primo nome rischia di essere un calcio alla suggestione Bosa, preferire il talento di Tennessee a personaggi del calibro di Jacobs o Murray pare atto dovuto: 893 yards ricevute, un portata di 19.3 a ricezione e sette scores. Nel mezzo un cambio di signalcaller con la bocciatura di Marcus Mariota.
Rullino i tamburi e suonino le trombe, senza nessuna sorpresa l’MVP stagionale altri non può essere che Lamar Jackson. Tante e forse troppe parole si sono scritte e dette sul talentuoso 8 di casa Ravens. Molto, di certo, resta da scrivere ma, ad oggi, la percezione è che il ragazzo abbia aperto una nuova via. Calma, non sono facile all’abbindolamento: taluni l’avevano previsto anche con l’avvento di Kaepernick o durante la stagione di gloria di Cam Newton. Il discorso, però, cambia per una leggera quanto indispensabile sfumatura.
Siamo al cospetto di un leader per niente selfish – egoista – e disponilie all’apprendimento, capace di comprendere le dinamiche di gioco proposte adattandole – contemporaneamente- al proprio stile che così non diventa limite ma valore aggiunto.
Se volete una previsione fantasy sappiate che comunque no, il prossimo anno non sarà così produttivo.
Eccoci, prossimi alla conclusione. Vi aspettavate consigli? E invece no. Volevo semplicemente celebrare il momento, il gran finale.
Pardon My Take finisce qui, almeno per quanto riguarda l’appuntamento settimanale. Apparizioni random non sono escluse, periodiche, magari per qualche aggiornamento o top 10 in vista del futuro draft fantasy.
Ah si, io continuo a scrivere eh? Intanto c’è l’appuntamento con la postseason degli amati Texans, poi non so ma qualche storia da raccontare la trovo.
Le ultime righe le dedico a voi che vi siete presi – forse- la briga di leggere questi monologhi. E grazie anche se dopo aver seguito i consigli mi avete maledetto: non sono infallibile e questo passatempo non è una scienza certa.
Detto ciò, arrivederci!
Usi, costumi, storie, miti e leggende, sportivi e non, della terra di Dio, l’America. Che per me fa rima con Libertà. Così come Dio fa rima con Amore.
Mi definisco uno storyteller, amo più le emozioni che le azioni, gestisco un profilo Instagram dedicato al Fantasy Football, @afantasyfootballgenius
Si, lo so, pecco di umiltà.