Arrivare nella scorsa postseason al match point contro Boston, squadra più forte e completa dell’intera lega e quasi trionfante, ha da un lato fatto vedere le capacità dei Leafs di esprimersi come contender e dall’altro ha spinto Dubas e dirigenza a mantenere l’ossatura base con sforzi economici notevoli, sacrificando la profondità del roster per i limiti salariali, con gli importanti addii di Zaitsev, Ennis, Hainsey e Connor Brown, per arrivare dopo un infinito tira e molla estivo a firmare per 6 tornei con 11 milioni annuali Mitch Marner, restricted free agent che non aveva lasciato dormire sonni tranquilli all’intero entourage canadese: il trio delle meraviglie con Tavares e Matthews rimaneva così intatto!
Tutto ciò dava la certezza che, con innesti di esperienza per aumentare resistenza e tenuta psicologica (Barrie, Kerfoot, Ceci e Spezza per Marleau, Kadri e Gardiner), si sarebbe colmato il gap con gli stessi Bruins, Penguins, Capitals e Blues, superpotenze che difatti uniscono al talento delle numerose stelle una mentalità vincente fatta di ferocia e forza d’animo!
Analizzando il momento attuale, dopo un terzo del cammino già superato, non si può dire che le previsioni siano state azzeccate, a causa di un consistente numero di fattori negativi, che hanno provocato il licenziamento di Mike Babcock, una sconfitta immane per tutto l’ambiente, visto che con il coach nato nelle vicinanze si era iniziato un percorso di crescita che aveva riportato i blu a foglia d’acero nell’olimpo dell’hockey, posto che per storia e tradizione dovrebbe spettare loro ogni anno!
Niente da dire purtroppo su questa scelta, non tanto per il mediocre 9-10-4 in classifica, ma per il modo di interpretare la battaglia sul ghiaccio nelle ultime uscite, dove oltre alle rinomate “stecche” difensive, si sono unite insolite amnesie di Andersen, deus ex machina di un reparto ancora una volta privo di backup attendibili, poca cattiveria e una debolezza mentale da parte di tutti gli interpreti, frutto – probabilmente – di una connessione allenatore/giocatore oramai carente, in particolare con le new entry, che è stata fatale al cinquantaseienne di Manitouwadge.
A confermare tale tesi è il rendimento immediatamente successivo con Sheldon Keefe, giovanissimo prodigio da 199 W in AHL, con il quale la “tigna” ha di nuovo fatto capolino!
Tyson Barrie e Jason Spezza hanno giovato molto del cambio, almeno inizialmente, col difensore a segnare partendo dalla panchina in ognuna delle prime tre apparizioni e il centro da 17 campionati a mantenere lo spot di pivot in terza linea, anche a seguito dei ritorni dall’infermeria di Tavares e Keerfoot, spostando il former Avs ala, rimasto quest’ultimo però apatico nello score.
Rispetto a Babcock si è notato un maggior incoraggiamento al mantenimento del disco, sfruttando le abilità tecniche e il puck holding, per agevolare così linee più statiche e ricavare il massimo da profili avanti con gli anni come l’ex Stars.
Un altro vantaggio nell’affidare la guida a Keefe è stato l’utilizzo di prospetti a lui noti nell’epoca Marlies, con Justin Holl a performare un significativo numero di blue-line-shift in 5 contro 5 e ad inserire nelle checking line Pierre Engvall, ventitreenne da 16 pti in 15 gare AHL, utilissimo nel penalty kill e da closer nella protezione del risultato.
Migliorie o no la classifica fa riflettere e non lascia sereni; la conquista dei playoff non è per nulla scontata a dispetto dei tempi recenti, per molteplici motivi.
Il primo è l’eccellenza dell’Est, dove squadre attrezzate in estate a competere, come Rangers e Devils, fanno enorme fatica, lo stesso dicasi per i Lightning, una volta inarrestabili, e i Blue Jackets. In più Flyers, Sabres e Canadiens rimangono costanti, mentre Islanders, Panthers e Hurricanes sono ormai solide realtà. Chiudono poi la Conference le certezze di sempre che primeggiano e i Leafs a vivere in una terra di mezzo, impossibilitati di fronte ad un così alto tenore a effettuare strisce vincenti per ottenere una piazza d’elite.
Per farlo ci vorrebbe una diversa mentalità, che sembra non essere ancora di casa da queste parti, nemmeno nei giocatori simbolo, Matthews a parte, unico a conservare dignità ed orgoglio nel linguaggio del corpo, con le critiche del passato a tinte Isles sulle capacità da leader di Tavares che escono inesorabilmente fuori.
I Maple Leafs sono team bipolare se ce ne è uno, abile se in vantaggio e alle prime situazioni sfruttate a prendere a “pallate” chiunque, ma a sciogliersi in un attimo se frangenti clutch voltano loro le spalle: vedere come esempio il dominio a St. Louis o il patetico finale di Philadelphia! Sta qui la differenza fra un club da Stanley Cup e uno forte ma perdente: purtroppo queste sono le stesse considerazioni della scorsa campagna.
La squadra è tuttora uno spettacolo per gli occhi se ingrana le giuste marce e trabocca di scorer performanti in ogni ruolo, tipo il redento Nylander, Kapanen, Johnsson, il rientrante dall’operazione alla spalla Dermott o il debuttante Sandin, oltre ai già citati, al big three e al solito Morgan Rielly, ma le difficoltà nel forecheck, negli shots against e in strong pressure sono rimaste invariate, nonostante gli investimenti in esperienza, da Muzzin in poi.
La sfortuna ha fatto pure il suo, estromettendo per lunghi tratti Tavares e Marner, proprio nell’anno in cui Matthews sembra essere arrivato a patti col proprio corpo.
Cambiare le attitudini psicofisiche di 30 uomini non è facile, ma fondamentale!
Aver impegnato tutto il monte ingaggi e ridotto a zero lo spazio salariale per costruire un dream team, incapace però di reagire a livello mentale e perciò inadeguato ad essere competitor, comporterebbe delle conseguenze catastrofiche!
“Malato” di sport a stelle e strisce dagli anni 80! Folgorato dai Bills di Thurman Thomas e Jim Kelly, dal Run TMC e Kevin Johnson, dai lanci di Fernando Valenzuela e dal “fulmine finlandese”. Sfegatato Yankees, Packers, Ravens, Spurs e della tradizione canadese dell’hockey.