Si sa, ogni regno per funzionare ha bisogno di diverse persone. Non basta un Re che dal suo comodo trono prenda decisioni, la maggior parte delle quali coadiuvate dai suoi consiglieri di fiducia.
Almeno non basta più, visto che le monarchie moderne sono diventate una specie di democrazia, in cui il regnante fa esclusivamente da garante tra popolo e legislazione, diventando un simbolo, un’icona, più che un politicante vero e proprio.
Ma fa strano pensare che nel mese e nell’anno in cui un monarca storico come Re Juan Carlos di Spagna abbia deciso di abdicare, siano stati i Los Angeles Kings a trionfare nella NHL. E fa ancora più strano che il gol decisivo sia arrivato da uno con evidenti origini ispaniche – a partire dal cognome – nonostante sia nato e cresciuto nel freddo nord americano, precisamente a Rochester Hills, nel Michigan.
Sto ovviamente parlando di Alec Martinez, autore non solo della marcatura che ha fatto saltare in aria lo Staples Center, in gara-5 contro i Rangers, ma anche di quella che ha letteralmente ammutolito lo United Center di Chicago, nella settima partita delle Conference Finals.
Due gol, quindi, importantissimi, arrivati da uno che teoricamente dovrebbe pensare principalmente a difendere, ma che si è spinto al di là delle sue mansioni per ben cinque volte in questi playoff, giocando tutte le partite e rendendosi protagonista della gloriosa cavalcata verso la Stanley Cup dei Kings.
Stanley Cup sollevata nuovamente da capitan Dustin Brown, esattamente come due anni fa, sempre davanti al proprio pubblico. Un capitano coraggioso (e sdentato), forse sempre un po’ troppo silenzioso, ma che quando decide di tirare fuori la voce lo fa in maniera rovente, come dimostra il gol di gara-2, il quale ha chiuso una partita che sembrava essere infinita, conclusasi sul 5-4 per LA, dopo due overtime.
Partita in cui si è reso protagonista anche Marian Gaborik, con la rete del pareggio, nel terzo periodo. Uno che si è trovato di fronte la squadra dove ha trascorso quattro anni, prima di approdare ai Columbus Blue Jackets e rimanervi un anno e mezzo.
I Kings lo hanno fortemente voluto proprio per aumentare la pericolosità offensiva ed aggiungere esperienza al roster. Lui ha ricambiato alla grande, con 14 gol nella post-season (record personale) e 8 assist, per un totale di 22 punti che sono anch’essi career high, raggiunto abbastanza facilmente dal giocatore slovacco, che i playoff li aveva visti solo cinque volte nel corso della sua carriera oltre oceano.
Forse lo avrebbe meritato lui il premio di MVP, se non fosse per il fatto di aver lasciato la scena finale ad un condottiero come Justin Williams, che aveva già contribuito al miracolo chiamato Carolina Hurricanes, nel 2006, prima di ripetere tali gesta nel 2012, con la maglia dei Kings, e quest’anno, in cui ha raggiunto il massimo in carriera di assist nei playoff, arrivando a quota 16, nonché di gol, 9.
Un successo iniziato con il gol decisivo in gara-1, per poi proseguire con la rete d’apertura, nella quinta partita. E quando non segnava, serviva assist, diventando fondamentale nella costruzione del gioco e per i compagni.
Fondamentale quanto Anze Kopitar, leader di punti di questa post-season, rimasto a secco di marcature durante le cinque partite conclusive, ma resosi immarcabile per quasi tutta la durata dei playoff, servendo i suoi assist al bacio, degni del miglior spettacolo hockeystico.
Spettacolo che lo ha offerto pure Jeff Carter, secondo marcatore della squadra, dietro a Gaborik, con cui condivide il passato a Columbus e l’arrivo a Los Angeles durante gli ultimi scampoli di mercato, aggregandosi a quella squadra che avrebbe vinto il titolo di lì a poco, nel 2012.
Senza dimenticare Drew Doughty che ha difeso splendidamente la porta, trovando anche 5 gol e 13 assist.
Porta occupata dall’invalicabile Jonathan Quick, il quale, a dire la verità, non aveva iniziato questi playoff nel migliore dei modi, per poi trovare la giusta quadratura nel momento più importante, abbassando la saracinesca e diventando fondamentale proprio come due stagioni orsono, quando vinse il premio di MVP della Stanley Cup Final.
Poi ci sono i ragazzi prodigio, iniziando dal russo Slava Voynov, per poi scendere fino a Tyler Toffoli e Tanner Pearson che rappresentano già il presente e il futuro di questa franchigia.
Futuro che appare brillare dalle parti di Figueroa Street che, oltre al già citato Doughty, prevede pure il suo ottimo compagno di reparto Jake Muzzin, il quasi venticinquenne Dwight King e il non ancora esploso Kyle Clifford, i quali contribuiscono ad abbassare l’età media della squadra.
Squadra in cui sono presenti anche gli esperti Mike Richards e Trevor Lewis, oltre ai veterani Jarret Stoll, Willie Mitchell, Matt Greene e Robyn Regehr.
Tutti giocatori che hanno avuto almeno una possibilità di dimostrare il loro valore in questa trionfale cavalcata, così come il secondo portiere Martin Jones, il center Jordan Nolan, o il difensore Jeff Schultz.
Direi di non averne dimenticato nessuno…ah sì, last but not least, il mitico coach Darryl Sutter, capace di dare la giusta carica a questi ragazzi, senza mai mollare, nemmeno nei momenti difficili, e credendoci sempre. La vera anima di questo straordinario team.
Un team che ha emozionato, qualunque sia stata la sua forma, arrivando fino ad un insperato successo finale che ha ridato gioia ad una città fin troppo abiuata alle vittorie, ma la quale non si sarebbe mai immaginata di ottenerne addirittura due in tre anni, specialmente in uno sport come l’hockey.
Uno sport che ha la capacità di sorprenderti sempre.
Personal trainer e grande appassionato di sport americani. Talmente tanto che ho deciso di scrivere a riguardo.
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