Uno sceneggiatore dei popcorn movies non avrebbe saputo scrivere un copione migliore…
C’era una volta una squadra in una città che con l’hockey c’entrava poco; il cuore dei tifosi di Los Angeles ha sempre battuto per le canotte giallo-viola dei mitici Lakers di basket e per la maglie bianche dei gloriosi Dodgers di baseball. Nel 1988 però avviene una svolta epocale: da Edmonton, capitale dell’Alberta (Canada), una città che con l’hockey c’entra parecchio soprattutto in quel decennio, arriva in città The Great One Wayne Gretzky.
Da quel momento ci si accorge che lì esiste anche una squadra di hockey, i Los Angeles Kings: negli otto anni nella città degli angeli il buon Wayne colleziona 599 presenze e 1009 punti (numeri da far girar la testa), portando i Kings a giocarsi il titolo nella finale di Stanley Cup 1993, finendo però sconfitti dai più blasonati Montreal Canadiens. Tre anni dopo il grande numero 99 viene ceduto ai Saint Louis Blues, lasciando la bacheca di LA vuota (a parte un titolo di conference), ma lasciando la consapevolezza che anche la California puà dire la sua nella NHL. Negli anni seguenti la franchigia disputò alcune buone stagioni, ma senza mai riuscire a farsi notare per grandi imprese.
Fino all’anno di grazia 2011-2012: la squadra appariva come la classica compagine di giovani di belle speranze (capitan Brown, Kopitar, il portiere Quick etc…) coadiuvati dall’esperto Justin Williams (già campione nel 2006 con Carolina), ma che mai avrebbero impensierito le cosidette “grandi”. Invece, dopo una stagione stentata con dei playoff raggiunti all’82° partita, i giovani Kings fanno fuori nell’ordine Vancouver, St.Louis e Phoenix, perdendo solo 2 gare nella corsa alla finale. Finale che Los Angeles comincia vincendo le prime due partite in casa dei New Jersey Devils e la terza davanti al loro pubblico dello Staples Center. Gara 4 e 5 vengono generosamente consegnate agli avversari, prima di matarli (saluto tutta la comunità ispanica di LA) definitivamente in Gara 6 con un perentorio 6-1. Capitan Brown solleva così la sua prima Stanley Cup, mentre il portierone Quick solleva il Conn Smythe Trophy come miglior giocatore dei playoff (meritatissimo perchè ha letteralmente abbassato la saracinesca per tutta la postseason).
Nella stagione seguente, quella del lockout, Los Angeles conquistano i playoff col 5° seed della Western Conference (l’anno prima con l’8°) e dopo aver eliminato St.Louis e San Jose, si arrendono alla 5° partita della finale di Conference contro i futuri campioni dei Chicago Blackhawks: come vedremo la vendetta non tarderà ad arrivare.
E arriviamo alla stagione 2013-2014: i Kings, dopo una stagione senza infamia e senza gloria, si presentano alla postseason col 3° seed della Pacific Division, e devono affrontare i San Jose Sharks al primo turno. Molti critici (compresi i conduttori di una famosa radio friulana, Hockey Night in Cividale, tanto per non fare nomi) davano i Kings già per spacciati. Difatti, l’inizio è drammatico perchè i Kings sono sotto 3-0 nella serie e nulla sembra fermare la tremenda linea Pavelski-Marleau-Thornton. Niente, a parte il goalie Quick, che dopo aver subito 17 gol nelle prime tre partite, gira il bottoncino nella modalità playoff e non ne fa passare più una. Da lì in poi subisce solo 3 gol, e nel frattempo la linea Kopitar-Williams-Brown, coadiuvata dal nuovo acquisto Gaborik, comincia a infilare sempre più dischi in rete: il risultato? Rimonta clamorosa e vittoria 4-3 nella serie. Fuori una…
Nel secondo turno (o finale di Division, in base al nuovo re-alignment di inizio stagione) c’è il derby contro gli Anaheim Ducks, autentici dominatori ad Ovest nella regular season. L’inizio stavolta è favorevole ai Kings che espugnano per 2 volte l’Honda Center portandosi sul 2-0. Ma Anaheim è dura a morire e grazie alla gigantesca linea Getzlaf-Perry-Selanne riesce a ribaltare la serie portandosi sul 3-2. Ormai l’inerzia della serie è a favore dei Ducks, ma i Kings hanno mille risorse e le seconde linee (Martinez, Greene, Stoll e Toffoli, tanto per citarne qualcuno) decidono che è giunta l’ora di guadagnarsi la pagnotta e ribalatano la serie, demolendo i Ducks nel loro palazzetto per 6-2 (dopo essere stati avanti 5-0) nell’ennesima gara 7. Fuori due…
Come già anticipato, ogni buon copione ha sempre un nemico a cui far pagare vecchi torti. I nemici in questione son i Chicago Blackhawks, campioni in carica. Dopo una gara 1 persa immeritatamente, Los Angeles dà la svolta alla serie nel terzo periodo di gara 2, in cui segna 5 gol ad uno spaesato Crawford (portiere di Chicago) che fissa il punteggio sul 6-2. I Kings riescono a far proprie anche le successive due gare tra le mura amiche, scatenando le sue seconde linee (Muzzin, Toffoli su tutti) che trafiggono ripetutamente i Blackhawks, che sono tenuti in piedi dall’indomabile capitan Toews. Chicago però ha risorse infinite e i comprimari (Bickell, Saad e Roszival hanno disputato dei grandi playoff) riescono a compensare le mancanze della linea Toews-Hossa-Sharp, e se poi anche Kane si sveglia il pareggio della serie è quasi inevitabile: infatti gli Hawks vincono gara 5 e 6 e portano i Kings all’ennesima gara 7. L’inerzia della serie è virata verso Chicago, e Los Angeles sembra quasi spacciata. Infatti sembra perchè i Kings rispondono colpo su colpo (o gol su gol) alla carica di Chicago e riescono a vincere questa stupenda gara 7 (forse la più bella partita di questi playoff) all’overtime col gol del 5-4 di Martinez. Fuori tre…
Per la finale è il turno di affrontare i New York Rangers che non vedono la finale dal 1994 e la fame è tanta. Ma la fame dei nero-argento californiani è maggiore almeno a vedere le prime due partite allo Staples Center: in entrambe le occasioni i Rangers si portano sul 2-0, ma visto che i Kings sono squadra precisa e coerente, ribaltano il punteggio e chiudono le due gare all’overtime (di Williams e capitan Brown i due goldengoal). Per gara 3 si vola nella Grande Mela al Madison Square Garden e l’equilibrio fin qui visto si spezza: ma sempre a favore dei californiani. Davanti al pubblico avversario infila tre dischi nella porta di Lundqvist, in una partita che New York ha dominato nei tiri in porta e la frustrazione si impenna. Nella gara successiva la frustrazione di Lundqvist diventa orgoglio e restituisce il favore ai Kings, che dominano nei tiri in porta ma riescono a segnare un solo gol contro i due dei Rangers, che si portano sull’1-3 nella serie e ritornano speranzosi. La speranza continua nel secondo periodo di gara 5 con i gol di Kreider e Boyle che ribaltano quello di Williams nel primo periodo. Nel terzo periodo l’intensità dei Kings aumenta e viene premiata all’8° col pareggio del solito Gaborik. Si va, tanto per cambiare al supplementare e il dominio di Los Angeles continua, ma non basta e si va al secondo overtime. I Kings continuano con la pressione, che finalmente viene premiata con Martinez che infila in rete una respinta corta di Lundqvist su tiro di Toffoli. Pubblico e giocatori in delirio, che celebrano una straordinaria cavalcata, impensabile dopo le prime tre partite dei playoff, impensabile dopo le tre vittorie di Anaheim, impensabile dopo la vittoria in gara 6 di Chicago, pensabilissima dopo le prime tre partite di finale.
E’ stata una finale, che, forse, punisce New York troppo severamente, che al di là del punteggio finale di 4-1 ha reso la vita molto difficile a Los Angeles. Ma ogni partita fa storia a sè e i Kings è riuscita a gestire tutte le situazioni di vita o di morte (leggesi overtime), non solo in finale ma in tutti i playoff.
E quindi, partono i titoli di coda su questi playoff, tra i più emozionanti degli ultimi anni, con sette serie finite a Gara 7 (di cui tre vinte solo da Los Angeles). Arrivederci alla prossima stagione!!
#BecauseItsTheCup
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