Negli ultimi anni, gli Eagles hanno costituito l’esempio più lampante di conduzione dirigenziale di una squadra di football americano. L’eccellenza nei risultati, che ha vissuto il suo apice con la storica prima affermazione nel Super Bowl LII, in una delle finali più intense e divertenti di sempre contro i Patriots di Brady e Belichick, ha goduto di una straordinaria continuità nonostante gli avvicendamenti vissuti in due ruoli essenziali, head coach e quarterback. La transizione da Doug Pederson a Nick Sirianni, nonché quella da Carson Wentz/Nick Foles a Jalen Hurts, non ha condotto a cali drastici, chiuso finestre temporali da contender, messo in crisi l’organizzazione: negli ultimi otto anni, Philadelphia ha giocato i playoff in sette occasioni, inequivocabile segno della classe gestionale offerta da una figura chiave come Howie Roseman, general manager che da queste parti bazzica da un quarto di secolo, apportando un contributo non sostituibile all’attuale ciclo vincente.
Di Super Bowl ce n’è stato un secondo, stavolta perso d’un soffio, un boccone amaro ancor oggi difficile da digerire, a seguito di un 2022 dove la squadra aveva prodotto un risultato molto più alto delle aspettative. L’anno seguente, invece, Phila sembrava pronta per la vendetta, o perlomeno così sembrava a giudicare dal 10-1 con cui si era cominciato il cammino nella scorsa stagione, con l’eccezione di quel collo verticale patito nella fase di football più importante, quando le temperature calano e il livello di gioco va innalzato all’ennesima potenza. La chiusura di regular season a 1-5, la clamorosa sconfitta in casa nella Wild Card contro la Tampa Bay di un rinato Baker Mayfield, la delusione apocalittica per quello che pareva un già scritto e fulmineo ritorno alla finalissima, aveva persino posto in discussione la posizione di Sirianni, creato squilibri nello spogliatoio, confermato teorie non scritte della Nfl, secondo le quali tornare al Grande Ballo è ancora più difficoltoso che vincerlo.
Nel 2024 Philadelphia si è invece ripresentata ai nastri di partenza con velleità molto più che chiare, giocando un campionato roccioso, a volte passato in secondo piano a causa dei Detroit Lions, semi-imbattibili e pronosticati dai più per la vittoria finale, e dalla sorpresa-Vikings, che avevano fatto strabuzzare gli occhi a ogni singolo addetto ai lavori arrivando a giocarsi il seed numero uno della Nfc all’ultima giornata di campionato. Solo così si può spiegare un 14-3 passato tutto sommato sotto il radar, costruito sulle ceneri di un autentico disastro, ma con un’efficienza profondamente rinnovata. Il risultato lo si conosce molto bene: l’imminente serata domenicale equivale alla terza qualificazione al Super Bowl nelle ultime otto stagioni, statistica che detta ritmi molto simili alle recenti grandi dinastie del football: New England Patriots e Kansas City Chiefs.
Già, quei Chiefs. Campioni in carica, detentori di due Lombardi’s consecutivi, in missione per il three-peat, nonché responsabili della sconfitta a carico di quegli Eagles capaci di battersi con loro ad armi pari. Non solo, dunque, Philadelphia ha scacciato demoni e statistiche avverse tornando in vetta così presto, avrà pure l’occasione di pareggiare i conti con gli stessi avversari in un uguale palcoscenico, il più grande, in un rematch con il passato che persevera nel far incrociare storie e percorsi, se non altro per la pesante ombra di Andy Reid, che da allenatore amico – è tutt’oggi l’head coach più vincente nella storia di Philadelphia – è passato a essere nemesi certificata.
Se Roseman è l’architetto, Sirianni è l’esecutore, il motivatore, reduce da una stagione spettacolare, vissuta con tutta la pressione locale addosso. I due hanno collaborato per ristrutturare lo staff, firmando nuovi coordinatori di reparto, Kellen Moore e Vic Fangio: il primo ha adattato la sua filosofia alle caratteristiche del roster offensivo, erigendo ogni concetto attorno al grande arrivo della scorsa offseason, Saquon Barkley; il secondo, reduce dall’esperienza negativa a capo dei Broncos ma rinomata mente difensiva, ha ritrovato panni maggiormente confacenti alle sue vocazioni tornando a concentrarsi solamente su un reparto, con risultati eccellenti. Il gioco offensivo è stato a volte magari poco effervescente, ma assolutamente consistente: tutto ciò che gli Eagles eseguono da questo lato del campo dipende dal running back, e da questo consegue anche l’adattamento delle difese. L’antidoto non l’ha trovato nessuno, perché Barkley ha ridefinito da solo un ruolo che negli ultimi anni ha perso costantemente importanza – anche a livello di rinnovi contrattuali – confezionando una stagione memorabile, avvalorata dalle 2005 yard percorse e i 13 touchdown segnati, 15 se si sommano anche quelli su ricezione. Il running back, lasciato andare troppo frettolosamente dai New York Giants, è l’uomo su cui ogni reparto difensivo ha edificato il suo piano di gioco, l’elemento incontenibile dall’alto delle sue 125 yard di media a partita, l’arma letale contro il quale è inutile riempire il box, come qualsiasi strategia difensiva imporrebbe, pena il pagamento di un caro prezzo. Chi ha solo osato provarci, anche nei playoff, ha avuto in cambio situazioni di uno-contro- uno lasciando un defensive back come ultima spiaggia difensiva: ne sono derivate soltanto cavalcate entusiasmanti, e 6 punti al passivo.
Nel contempo, il ruolo di Jalen Hurts è cambiato, e non poco. Le sue statistiche – con la sola esclusione dell’anno da matricola – non sono mai state così basse, e contemporaneamente efficienti. L’ex-Alabama ha lanciato per 2.903 yard, una miseria se rapportata alle bocche da fuoco reperibili in giro per la Nfl: l’effetto-Barkley gli ha permesso di distribuire opportunamente il pallone e abbassare il numero di turnover, passando dai 15 intercetti dell’anno scorso, ai 5 del presente campionato. E’ un Hurts diverso, più abbottonato, a servizio dei compagni grazie all’accettazione delle modifiche nel suo stile di gioco, prendendo un sack anziché rischiare di gettare l’ovale nelle mani sbagliate, attento a non forzare troppo, cedendo il ruolo di attore primario per aprire la strada che conduce possibilmente al titolo. Quando c’è bisogno di nutrire un ricevitore affamato come A.J. Brown o trovare DeVonta Smith in profondità il problema non sussiste, serve solo una maggior pazienza rispetto al solito: prima, si pare la difesa con le corse, poi il resto arriva da sé. Alcune statistiche saranno anche peggiori di prima, altre parlano fin troppo chiaro, e dipingono un quadro più che vincente: nelle gare che Hurts ha cominciato da titolare e portato interamente a termine, gli Eagles non hanno più perso dalla quarta settimana di campionato in poi.
Tutto questo non sarebbe possibile senza una linea offensiva granitica, che ha navigato tra le difficoltà del ritiro di Jason Kelce solo per modo di dire. Merito del ricambio adeguatamente programmato da Roseman, che aveva scelto Cam Jurgens nel draft 2022 affidandolo alle cure di Jeff Stoutland, uno dei migliori sviluppatori di talento del suo settore, la stessa persona che ha trasformato una vera scommessa come Jordan Mailata, settimo round proveniente dal rugby australiano, in un tackle sinistro di spicco. Landon Dickerson, arcigna guardia, ha eroicamente sostituito Jurgens nella finale della Nfc contro Washington, dimostrando la duttilità del fronte a cinque per tutto il primo tempo, serrando i denti contro il dolore provocato dall’infortunio al ginocchio, offrendo una prova del tutto eroica. Mekhi Becton, una sorta di progetto di risanamento mentale dopo aver trascorso la carriera a giustificare lo status di scelta di primo round fallita, ha mosso mari e monti per aprire varchi alle corse. E Lane Johnson, beh, è Lane Johnson, 34 anni, non sentirli, ed essere ancora uno dei migliori tackle di tutta la lega.
La vera metamorfosi di Philadelphia è tuttavia giunta dalla difesa. Ventinovesima per efficienza globale un anno fa, Fangio l’ha trasformata nel top della gamma nel giro di qualche settimana grazie ai suoi poco prevedibili tatticismi, che partono da uno schema fisso con i classici due safety profondi, linebacker leggeri ma agili, per poi provocare movimenti pre-snap che mandano in letterale confusione il quarterback. La disposizione basilare è sempre la stessa, gli scivolamenti dei giocatori cambiano a ogni snap: l’intento è di creare uno svantaggio all’attacco contrastando le corse nei primi due down, per poi giocare con più tranquillità il terzo e lungo, pressando solo con la linea e confidando sull’abilità in marcatura. Un fronte completamente ringiovanito dal temibile Jalen Carter, un vero e proprio incubo da contenere, nonché dai produttivi Nolan Smith Jr e Jordan Davis, si occupa di mangiare spazio e tenere occupata la linea offensiva, liberando le letture dei due linebacker a supporto, idea da cui sono nate le grandi stagioni giocate da Zach Baun – che a New Orleans era un semplice special teamer – e Nakobe Dean, purtroppo infortunatosi nei playoff, cui è subentrato un altrettanto efficiente Oren Burks, anch’egli ambivalente tra difesa delle corse e capacità in marcatura. Il resto lo ha fatto ancora una volta Roseman, investendo primo e secondo giro del più recente draft su Quinyon Mitchell e Cooper DeJean, rinforzando secondarie che già potevano contare sull’aggressivo C.J. Gardner-Johnson e il playmaker Blake Blakenship.
Gli Eagles approdano al Super Bowl di New Orleans con una nuova consapevolezza di loro stessi. Dopo una notevole stagione regolare, hanno dominato la postseason correndo per 228 yard di media, registrato un sonoro +50 nel differenziale tra punti segnati e subiti, saputo vincere in modi differenti, sia soffrendo che dimostrando tutta la loro superiorità. Sono una squadra profondamente diversa da quella che i Chiefs sconfissero due anni fa, molto più pericolosa, affiatata, conscia di non essere lì per aver infilato una striscia positiva al momento giusto, ma perché quel posto appartiene loro per ciò che hanno dimostrato di essere per tutto l’anno: una delle realtà più forti in circolazione. Il profilo vincente di Patrick Mahomes si staglia ormai all’orizzonte, ma questi Eagles sono assolutamente pronti a vincere la battaglia, e abbattere un gigante che, in fin dei conti, non sembra poi essere così tanto più grosso rispetto a loro.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.