Noi amanti della NFL siamo gente strana!
Siamo persone con cui è molto difficile avere a che fare il lunedì mattina: siamo stanchi, abbiamo sonno e, se abbiamo fatto le 5 di mattina per vedere la nostra squadra del cuore perdere, siamo anche abbastanza nervosi.
Siamo persone con cui è molto difficile organizzarsi, i nostri familiari o amici lo sanno bene: la sera del 25 dicembre non possiamo giocare a carte, la domenica non possiamo permetterci scampagnate o gite fuori porta, il giorno del thanksgiving siamo impegnati e i weekend di gennaio dovete lasciarci liberi, abbiamo degli impegni inderogabili che non dipendono da noi. Molto spesso però, ho la sensazione che il mio amore per il football sia uno di quelli non corrisposti: le mie nottate, infatti, trascorrono in compagnia di uno schermo, mentre l’evento che guardo è distante fisicamente un oceano da me e culturalmente forse anche qualcosa in più.
Le franchigie, gli stadi, i giocatori, le tradizioni e le imprese sportive sembrano una realtà lontanissima dalla nostra e spesso lo schermo non ci basta come unica prova tangibile dell’esistenza di tutto ciò. È solo dopo questa lunga premessa che si capisce perché, nel momento in cui il sabato mattina il monitor dell’aeroporto si illumina con la scritta London Stansted, le gambe iniziano leggermente a tremare dall’emozione e io realizzo: sto andando a Londra a vedere la NFL!
Utilizzo il sabato londinese per un rapido giro in centro città, mettendo alla prova la mia memoria e sperando di ricordare più cose possibili di una città visitata ormai 7 anni fa; passo velocemente per l’outernet (centro di arte digitale adibito ad esperienze immersive e, in questo caso, dedicato ai Minnesota Vikings), ma ciò che mi colpisce maggiormente della mia passeggiata è quanto sia congestionato di persone il centro della capitale inglese, vi assicuro che, semplicemente girando per le vie principali, si percepisce che non è un weekend come gli altri. È il weekend, infatti, di un international game della NFL: New York Jets contro Minnesota Vikings, partita valevole per la week 5 della regular season e ospitata dal meraviglioso impianto di proprietà della squadra di calcio del Tottenham, ovvero il Tottenham Hotspur Stadium.
Dal centro città lo stadio è facilmente raggiungibile tramite metro e, il percorso finale a piedi di circa 30 minuti, particolarmente piacevole. Una volta giunto alla stazione di Seven Sister, infatti, mi dirigo camminando allo stadio e divento parte di una meravigliosa fiumana di persone all’interno della quale ognuno indossa la maglia della propria squadra del cuore, riempendo le strade del quartiere di Tottenham con il colore, l’entusiasmo, la passione e anche il folclore tipico dello sport a stelle e strisce. Emergono chiaramente le maglie verdi o viola delle due squadre in campo nel pomeriggio, ma ognuno ha piena cittadinanza all’interno di quella massa grazie alla capacità di emozionarsi snap dopo snap; la partita, difatti, non è solo la giornata dei tifosi delle due squadre, ma è soprattutto la festa di chiunque ami questo gioco.
Forte di queste meravigliose sensazioni mi avvicino sempre più allo stadio, fino a quando non mi trovo davanti a questa moderna, meravigliosa e imponente struttura. Riesco prima a mangiare velocemente qualcosa all’esterno dello stadio, poi all’interno della media room e, quando manca circa un’ora alla partita, prendo possesso del mio posto in tribuna stampa da cui la vista è pressoché perfetta: sono abbastanza in alto per avere un’ottima prospettiva sul campo, abbastanza centrale da riuscire a vedere bene entrambe le end zones ma soprattutto abbastanza vicino al campo per sentirmi vicino ai miei idoli come mai prima d’ora. I minuti che mi separano dal kick off scorrono velocemente, tra il riscaldamento dei giocatori e la piacevole conoscenza dei miei vicini di posto, ovvero dei ragazzi inglesi che gestiscono un podcast e pubblicano contenuti sui social riguardanti il football. La nostra chiacchierata è di altissimo spessore culturale, spazia tra diversi temi come il massimo di fantasy football a cui si possa partecipare o quanto poco sia efficace la playaction su Madden, poi però ci tacciamo; è tempo, infatti, prima degli inni nazionali, poi del tipico canto dei tifosi dei Vikings, composto da un battimano cadenzato, accompagnato da un tamburo che acquista sempre maggior ritmo a cui segue l’urlo della parola “Skol”, simbolo della fan base della squadra del Minnesota.
È tempo, soprattutto, del fischio d’inizio.
I Vikings partono decisamente meglio, la difesa di Flores è impressionante vista dal vivo.
La continua presenza di blitz, di difensori schierati sulla linea di scrimage che poi arretrano a coprire e di altri che fanno il movimento opposto crea non poca confusione nell’attacco dei Jets, che infatti fatica a trovare il ritmo e soprattutto a correre. La squadra di Minneapolis passa in vantaggio con un field goal, poi si porta a 10 punti grazie ad una pick six di Van Ginkel e raggiunge un parziale di 17 a 0 grazie ad un TD di Ham. La partita a questo punto pare aver preso una direzione univoca, non sembra esserci alcuna risposta al monologo viola condotto da Darnold e compagni, ma tutto cambia grazie al touchdown di Lazard che sigilla il primo tempo sul 17-7 e ci lascia allo spuntino di metà partita con la speranza che il secondo tempo sarà più equilibrato e tirato rispetto alla prima metà.
Nel terzo quarto la fanno da padrone le difese, regna l’equilibrio e si entra nel 4°quarto con uno scarto di soli 7 punti tra le due squadre, grazie ad un FG di New York che tocca così i 10 punti. Dopo un FG di Minnesota, un TD dei Jets e un altro FG dei Vikings, la squadra in maglia bianca e verde guidata sulla sideline da coach Saleh (ormai ex Head Coach) e in campo dal quarterback Rodgers ha un ultimo possesso, 6 punti da recuperare e 3 minuti per farlo: un finale al cardiopalma! I Jets guadagnano campo, si avvicinano alla red zone avversaria ma, sul più bello, il cornerback veterano Gilmour intercetta un lancio di Rodgers a meno di un minuto dalla fine, chiudendo definitivamente la gara e decretando la vittoria della squadra di coach O’Connell.
Il risultato finale è 23-17 Vikings, che costerà, come già detto, la panchina di New York a coach Saleh.
Minnesota attualmente è ancora imbattuta, ha un attacco solido, Darnold sta disputando una grandissima stagione ma il valore aggiunto è la coppia di ricevitori Jefferson-Addison, capaci di mettere in difficoltà anche la stellare secondaria della difesa dei Jets (statisticamente tra le migliori della lega sui lanci avversari e immune alle big play avversarie). Se questa squadra però ha un record di 5-0, il merito è sicuramente della difesa. Ripropongo, ma solo perché non c’è maniera più calzante per descrivere tale reparto, la sintesi di Greenland “caos organizzato”, utilizzata successivamente durante la conferenza stampa. La sensazione è che non vi sia un giocatore più determinante di altri, non si tratta di uno di quei sistemi in cui un singolo pass rusher annienta da solo la protezione avversaria o catalizza su di sé l’attenzione liberando spazio per i suoi compagni.
L’insieme dei movimenti pre-snap che avvicina uomini alla linea di scrimmage, e quello dopo lo snap che li allontana per avvicinarne altri crea una confusione generale che, per risultare efficace, prevede che ogni giocatore chiamato in causa esegua perfettamente il suo movimento affinché il suo compagno ne possa beneficiare (l’emblema di questo caos organizzato è la pick six di Van Ginkel). Non è la prima volta che ho la possibilità di assistere ad una gara della NFL dal vivo; durante l’esperienza precedente, però, trovandomi in uno stadio più vecchio e avendo un posto con una vista decisamente peggiore, ho sicuramente provato una grandissima emozione e vissuto una serata memorabile che resterà per sempre indelebile nella mia memoria, ma non ho potuto beneficiare dei vantaggi che la partita dal vivo offre ovvero godere della bellezza del gesto tecnico dal vivo.
Questa volta si!
Trovandomi in un posto dello stadio con una vista perfetta, all’interno di una struttura nuova e perfettamente adeguata a qualsiasi esigenza visiva dello spettatore, ho realmente apprezzato la meraviglia del gioco, ho percepito la durezza del colpo, la bellezza di un catch, la maestria nell’aprire spazi tramite i blocchi, il cambio di direzione dei ricevitori e le corse dei running back. Sono da sempre un frequentatore di stadi, ma osservare un quarterback dal vivo all’opera è sicuramente la cosa più bella che mi sia mai capitata di vedere all’interno di un qualsiasi tempio dello sport: dal suo riscaldamento, all’atteggiamento nella sideline, fino ovviamente alla capacità di sfuggire ai placcaggi, di riuscire a mettere la palla perfettamente nelle mani dei propri receiver, lanciando nell’unica finestra possibile e cioè nell’unico momento in cui la palla ha fisicamente lo spazio per passare dalle mani del QB a quelle del suo bersaglio.
Dopo la partita partecipo alla conferenza stampa, altra esperienza meravigliosa. Scelgo di presenziare a quelli dei Vikings per poter percepire il clima di festa all’interno della squadra, avendo la possibilità di ascoltare coach O’Connell, Justin Jefferson, Sam Darnold, Andrew Wan Ginkel, Jonathan Greenard e Camryn Bynum.
Detto ciò, non datemi del pazzo se definisco il momento delle interviste a tratti anche deludente. È il momento della mia vita in cui in assoluto sono più vicino a un giocatore NFL, Justin Jefferson mi dista solo una fila di sedie, lui è una star indiscussa, protagonista anche di una serie Netflix, ma noto che è un umano esattamente come me, con due braccia, due gambe, due occhi e due orecchie. È incredibile trovarsi davanti ai propri eroi e notare che in fondo non sono poi così diversi da noi, non c’è più un tramite tra me e loro, non ci sono schermi, ci troviamo nella stessa stanza e faccio parte della platea che li osserva, che interagisce con loro e che riceve con gentilezza e disponibilità risposte alle domande poste.
È ovvio che parliamo comunque di atleti sovraumani, inarrivabili dal punto di vista fisico e tecnico, ma aver assistito così da vicino alla loro euforia, alla soddisfazione, magari anche alla stanchezza e soprattutto alla spontaneità con cui interagiscono è un momento cruciale di un intero processo durato l’intera conferenza stampa che mi ha portato a umanizzarli sempre di più, rendendo, allora, ai miei occhi ancora più grandioso, eccezionale e straordinario quello che fanno in campo. Le tematiche principali sono, ovviamente, la meravigliosa partenza, il fatto di essere ancora imbattuti, il lavoro difensivo, l’apporto di Flores, la stagione di Darnold e la gioia di essere a Londra. Le parole di O’Connell sono le più interessanti di tutte a mio avviso, in particolare per l’essersi soffermato sull’importanza di una vittoria non brillante ma sofferta, su come, per costruire record vincenti in questo gioco, non basta ottenere successi quando offensivamente le cose sembrano semplici, scontate ed efficaci: la chiave del trionfo sta nel portare a casa il risultato anche nei momenti di difficoltà, di stanchezza, insomma in quelli più complicati come domenica, dove i Jets sono andati molto vicini alla rimonta.
Certo poi, Jefferson non passa mai inosservato, in primis per l’outfit, poi per l’aura da stella che lo segue ovunque vada e per la propensione naturale che sembra avere ad essere sotto i riflettori (dove è giusto che sia un giocatore del suo calibro). Darnold, invece, è chiaramente un professionista che è stato in grado di riscrivere la parabola della sua carriera, sfruttando al meglio l’occasione concessa; non mi sembra, però, sotto pressione, anzi trasmette grande tranquillità e calza perfettamente all’interno dello stereotipo del QB dal sangue freddo.
La partita è finita, la conferenza pure, ma non la domenica. C’è tempo ancora per un rapido giro nello shop immenso della NFL allestito per l’occasione, ricolmo al suo interno di maglie da gara di eroi del presente e del passato (purtroppo, avendo 21 anni, molti grandi giocatori di questo gioco per me rientrano nella seconda categoria).
A questo punto non resta che rimettersi in marcia verso la metro, nei pub lungo la strada riecheggiano ancora le note di Neil Diamond, mentre la pioggia accompagna me e gli altri tifosi prima verso la stazione, poi verso un pasto caldo e infine verso un po’ di meritato riposo. Di per sé mi ritengo una persona fortunata, piena di amici e persone a cui voglio bene, la vita da tifoso e appassionato della NFL, però, da questo punto di vista è più difficile.
Non è sempre facile sentirsi parte della comunità di chi si emoziona snap dopo snap, visto che il folclore, la passione, la gioia, i colori, ma anche la rabbia, la frustrazione e l’indignazione sono sensazioni che quasi sempre sperimentiamo in maniera indiretta, a differenza di chi ha la possibilità di popolare i gradoni degli stadi americani domenica dopo domenica.
Noi la nostra squadra del cuore la seguiamo restando svegli davanti uno schermo la domenica notte. Quello che mi ha dato in più questa esperienza e il motivo per cui la consiglio è il senso di appartenenza. La bellezza non è solo assistere alla partita in sé, ma essere stato parte di un flusso che, accomunato solo dall’amore verso un gioco, ha invaso le strade, gli aeroporti, i treni, i pub, i ristoranti e gli hotel di una città. È meraviglioso avere una passione che ti riempie, ma è ancora più bello condividerla. È incredibile avere la certezza che è tutto esattamente come sembra sullo schermo che illumina il buio della tua camera la domenica notte, uguale a come lo hai sempre immaginato durante il giorno e sognato la notte, anzi, forse dal vivo è ancora più bello.
Studente universitario, appassionato di football americano e, più in generale, degli sport a stelle e strisce.
Tifoso delle franchigie di Chicago dopo aver vissuto qualche mese nella Windy City, qualora ve lo stiate domandando, tra Cubs e White Sox tifo per i Southsiders.
Da qualche anno ho lasciato la Boxe con la speranza di diventare il nuovo Michael Jordan o, nel peggiore dei casi, il nuovo Walter Payton.
Wow, gran bel racconto, Bruno. 💪
Complimenti per l’esperienza e per la qualità letteraria dell’articolo!