A Washington non si sa mai come comportarsi, se sia il caso di lasciarsi andare e sperare in qualcosa di buono, o lasciar direttamente perdere tutto senza sprecare energie, dato che i risultati restano quelli che sono. Oltre vent’anni di pessima attività gestionale e organizzativa di una delle franchigie un tempo maggiormente riverite, hanno inevitabilmente lasciato il segno, e gradualmente tolto quel briciolo di prospettiva rimasta al più ottimista dei tifosi. Dan Snyder ha provocato danni incalcolabili per l’immagine di una squadra divelta, perdente, passata dalla gloria della sua tradizione a rivestire il ruolo di barzelletta, senza apparente possibilità di uscire dal baratro. I numeri sono sin troppo significativi, dolorosi da ricordare, ma emblematici di quanto gli affezionati al team della capitale americana abbiano dovuto sportivamente sopportare: già spogliati di un nickname che ha fatto e farà per sempre discutere, mossa figlia di tempi evidentemente pervasi dal concetto di cancel culture ed eccesso di politicamente corretto, i Commanders – gestiti in maniera grossolana anche in fase di rebranding, giusto per liquidare in tutta fretta quella scomoda questione Redskins – non vivono una stagione positiva dal 2016, le loro partecipazioni ai playoff si contano sulle dita di una mano, di vittorie in postseason meglio non parlarne perché il numero si riduce ulteriormente.
Washington ha provocato cronaca per le ragioni sbagliate, con una costanza da manuale. Inizialmente per le sessioni di free agency senza senso condotte nei primi anni d’insediamento del regime-Snyder, cacciando fuori ingenti quantità di grana per nomi che avevano già trascorso i loro giorni migliori in Nfl, tentando di assemblare improbabili superteam che in questa sede mai funzioneranno, anzitutto perché nel football non si vince con la sommatoria di talento, ma con un congruo sviluppo del medesimo. Pensare alla quantità di allenatori, giocatori, strateghi del salary cap che hanno invano tentato di risollevare la dignità dell’organizzazione, è un voltarsi indietro persino troppo sofferto: dalla chiara incapacità di Vinnie Cerrato, il quale ha rovinato anni di spazio salariale firmando contratti astronomici che mai hanno fatto la differenza, se non in negativo, a Steve Spurrier e il circense tentativo di traslare la sua Fun’N’Gun al piano superiore avvalendosi di quarterback discutibili, passando per la ridicola odissea di Jim Zorn, la grande speranza mai concretizzata dell’era Shanahan-RGIII e giungendo dritti all’ennesimo progetto fallimentare, targato Ron Rivera, rimane solamente da scegliere quale versione di questa squadra provochi le maggiori risate.
Per anni si è pregato che il cielo mandasse una soluzione al disastro. Un anno fa è arrivato Josh Harris con la speranza di una visione chiara, un gruppo di persone al seguito accomunate dall’intento di eseguire una totale pulizia in un ambiente tossico, scandalistico, vergognoso. Harris ha vissuto la classica stagione di attesa, sapendo che avrebbe dovuto pagare lo scotto per trasportare la franchigia in un’epoca del tutto nuova, mettendo in preventivo che il repulisti non sarebbe potuto partire subito. Quel momento è invece arrivato subito dopo il Super Bowl, attraverso l’assunzione più importante, quella di un Adam Peters dal quale si ramificano tutte le decisioni che renderanno o meno l’operazione-futuro un successo. Un coaching staff tutto nuovo, condotto da una persona di carattere come Dan Quinn, che avrà pure nel suo passato quel Super Bowl perso con Atlanta, ma non per questo va sottovalutato, per ciò che è stato capace di realizzare assieme a Pete Carroll in quel di Seattle, erigendo una difesa formidabile, vincendo l’anello da coordinatore difensivo. Un allenatore ricco di attestati di stima da parte dei suoi ex-giocatori – lontano dall’atteggiamento passivo assunto da Rivera – libero di agire senza interferenze in un ambiente finalmente pulito, sano, finalmente scevro dall’ipocrisia di un proprietario affetto da megalomania che ha influenzato fin troppo il lavoro manageriale, pensando che con il dio denaro si potesse davvero acquistare tutto.
E’ bastato qualche giorno per respirare un’aria del tutto nuova. Peters ha chiaramente fatto intendere, fin dalle prime mosse, che l’opera prima riguardava la ristrutturazione del roster del 2023, completamente inadeguato per fare ingresso in questo regime. Attuando una politica sana riguardo la valutazione del talento e nel contenimento dei costi, la strada per tornare a vincere può anche essere accorciata: in fondo, i Texans dello scorso campionato, ne sono l’esempio più eclatante. Cambiano le filosofie e viene meno la necessità di tenere i vecchi giocatori, in particolare se entrambi i reparti hanno fatto acqua, e la stagione è stata letteralmente abbandonata infilando un filotto di sconfitte deprimente, a conferma del fatto che la tanto millantata virata culturale che Rivera aveva annunciato al suo approdo in loco, era stata di nuovo una fantasia.
Con inequivocabili dati alla mano, Peters ha spolverato i ranghi firmando una quindicina abbondante di free agent, confermando solamente tre giocatori tra quelli in scadenza – appartenenti più che altro agli special team – confermando l’assenza di stima nel materiale reperito al suo arrivo. Una free agency ragionata, calcolata, formata da contratti non troppo lunghi e non eccessivamente gravanti su uno dei salary cap più generosi dell’intera Nfl, lasciando il giusto spazio alla firma della futura classe di rookie – la quale sarà un altro pezzo fondamentale per stabilire la bontà di questo lavoro – e prolungare gli accordi delle stelle quando richiesto, infarcendo la formazione di personale adatto alle idee praticate da Quinn e dal fido coordinatore difensivo Joe Whitt Jr., nonché idonee alla Air Raid Offense che il nuovo offensive coordinator – Kliff Kingsbury – andrà a installare.
La difesa ha vissuto i cambiamenti più radicali, anche a causa dalla sostanziale resa della trade deadline scorsa, quand’era giunta la rinuncia sia a Chase Young che a Montez Sweat, privandosi di una pass rush di qualità, decostruendo il punto più forte della difesa. Si riparte da una linea comprensiva delle star Jonathan Allen e Daron Payne, una delle coppie di tackle di maggior livello, la quale vedrà una rotazione di defensive end atta a colmare il vuoto lasciato dai già citati predecessori, in cambio di nuove selezioni al draft. Dorace Armstrong, in arrivo dagli stessi Cowboys difensivamente coordinati proprio da Quinn, è stato un titolare part-time, nel senso che non ha mai giocato più di cinque gare stagionali da starter nonostante un’esperienza di cinque anni, classificandosi tuttavia secondo di squadra in termini di sack nell’ultimo biennio. Farà certamente parte di una rotazione comprendente Clelin Ferrell, ex-quarta selezione assoluta dei Raiders nel 2019, un difensore che ha altamente deluso nella prima parte della carriera nonostante l’esperienza riabilitativa ai 49ers, con i quali ha racimolato 3.5 sack prima che un infortunio al menisco ne precludesse la presenza ai playoff.
Il back seven è un altro territorio assoggettato a significative modifiche, visto il termine delle esperienze in città per Kendall Fuller e Kam Curl. In particolare, il reparto linebacker sarà per la maggior parte rinnovato, grazie alla presenza del rinomato veterano Bobby Wagner, il quale ha inchiostrato un annuale per ritornare a essere allenato da Quinn, accordo che potrebbe portare a un assetto del tutto nuovo per Jamin Davis, altra scelta alta che ha faticato nell’offrire un rendimento pari al suo presunto valore in sede di draft. La contemporanea addizione di Frankie Luvu apre scenari del tutto nuovi, ricchi di schieramenti versatili, i quali presumono di vedere l’ex Carolina impegnato in un ruolo alla Micah Parsons, quindi un impiego nel settore laterale con compiti di pass rush nei down di ovvio passaggio (nei quali ci si aspetta di vedere Allen spostato a end) nella formazione 4-2-5 con più defensive back, e assegnamenti contro le corse – tipologia di azione nella quale Luvu è nettamente più efficiente – nella 4-3 di base. Wagner andrebbe a ricoprire la posizione centrale essendo responsabile della ricezione via radio delle chiamate dalla linea laterale, possedendo l’esperienza e la capacità di aggiustare la disposizione pre-snap, creando maggiori disposizioni tradizionali per Davis, fattore che gioverebbe alla sua efficienza, dal momento che dovrebbe pressare in un minor numero di azioni e, di conseguenza, evitare di andare troppo spesso a cozzare contro le 300 libbre degli uomini di linea.
Sarà un banco di prova anche per Jeremy Chinn, altro giocatore ibrido, il quale ha siglato un accordo annuale che, qualora il safety dovesse ritornare a registrare statistiche ottimali come quelle dei primi due anni da professionista, potrebbe anche essere prolungato. Altro ex-Panthers, Chinn è versatile al punto da potersi posizionare al centro dell’ultima linea difensiva nella Cover 3 storicamente praticata da Quinn, assieme ad altri due defensive back a pattugliare le zone più esterne, oppure scendere più vicino al box, e fungere da linebacker aggiunto sostituendo chiunque dei compagni venga spedito in blitz. La rotazione di corner, altro vuoto da colmare con urgenza, è stata inoltre rimpolpata da Noah Igbinoghene, ex-primo giro dei Dolphins accasatosi in seguito a Dallas, giocatore che non ha rispecchiato le attese a causa della poca propensione mostrata verso l’intercetto, ma che, a 24 anni, ha ancora margini di crescita. Un veterano come Michael Davis, 65 partite da titolare negli ultimi 5 anni ai Chargers, offre ulteriori opzioni aggiungendosi ai già presenti Benjamin St-Juste e Emmanuel Forbes, con quest’ultimo chiamato al riscatto a seguito della durissima stagione da rookie, nella quale ha sofferto visibili difficoltà in copertura ritrovandosi anche retrocesso in panchina.
In attacco, la trade che ha portato Sam Howell a Seattle cementa ulteriormente la ormai scontata scelta di uno dei maggiori talenti in regia, dove l’ago della bilancia ballerà tra Drake Maye e Jayden Daniels. Fermo restando che Caleb Williams si ritrova già sostanzialmente il cappellino dei Bears tra le mani, non rimane che rompere gli indugi sulla direzione da prendere, intraprendendo una via che definirà il corso della franchigia nel prossimo quinquennio. Maye ha tratti fisici intriganti, al contrario di Howell (peraltro suo ex compagno di squadra a North Carolina), tosto ma limitato nella statura e troppo tendente a tenere il pallone a lungo: c’è chi sostiene possa essere un nuovo Justin Herbert, sufficientemente mobile per evadere dai giochi rotti e in possesso di un gran braccio, tuttavia da affinare nella tendenza a lanciare un filo off-target nell’intermedio, nonché da plasmare riguardo le difficoltà nell’interpretare correttamente i pacchetti di pressione difensivi, situazioni nelle quali ha riportato il maggior numero di turnover. Daniels è senz’altro il giocatore più eccitante, sfuggente, un Heisman Trophy fatto e finito dotato di grande precisione sul profondo, forza, capacità di corsa superiore, e qualche dubbio sulla possibile longevità fisica, dal momento che tende a voler dimostrare di poter assorbire ogni colpo, una considerazione determinante nell’ottica di non ripetere l’esperienza fatta con Robert Griffin III.
Si tratta del classico lancio della moneta, nessuna delle due opzioni è nettamente favorita rispetto all’altra. L’acquisizione di Marcus Mariota per fare da eventuale ponte, trova un senso nel momento stesso in cui si comprenda di dover evitare di gettare il quarterback del futuro nel fuoco troppo presto – le esperienze vissute dai vari Fields, Pickett, Jones, lo stesso Howell, servano da insegnamento – affidandosi a un quarterback non eccelso, ma senz’altro capace di fare da guida e all’occorrenza prestare caratteristiche atletiche superiori alla norma che ben si adattano al nuovo pensiero offensivo di Washington, a patto di rimpinzare il reparto ricevitori, che ha perso Curtis Samuel e deve ritrovare l’efficienza perduta da Jahan Dotson e Dyami Brown, due giocatori dal grande potenziale spesso dimenticati dall’inefficienza schematica di Eric Bienemy. Kingsbury spera inoltre di ravvivare le quotazioni di Austin Ekeler, che arriva in città quale running back utile a soddisfare specifiche situazioni di ricezione, ampliando una rotazione già comprendente Brian Robinson Jr. – titolare – e Chris Rodriguez.
L’ultimo scoglio, non meno importante, è la linea offensiva, pessima nel 2023. Tyler Biadasz, altro giocatore saccheggiato dai Cowboys, è un notevole upgrade nel ruolo di centro in sostituzione dell’insufficiente Nick Gates; Nick Allegretti si giocherà per la prima volta un posto da guardia titolare fissa dopo l’esperienza vincente accumulata a Kansas City, dove ha ottimamente sostituito Joe Thuney nel più recente Super Bowl, lasciando il rebus da risolvere nei settori più esterni, che andranno adeguatamente riforniti in sede di draft. La questione left tackle è gravemente lacunosa, ed è facile immaginare l’utilizzo del secondo round per addivenire allo scopo. Zach Ertz, avanti con l’età e reduce da infortuni importanti, migliora in ogni caso la batteria dei tight end, che negli anni più recenti non ha mai offerto una degna produzione di yard.
Le operazioni sinora condotte da Peters portano uno stampo inequivocabile, una voglia e una necessità di cambiamento di cui l’organizzazione aveva bisogno come acqua nel deserto. Dimenticato per sempre un proprietario a dir poco deleterio, a Washington ci si aspetta un nuovo ciclo, più volte annunciato nel corso degli ultimi trent’anni, ma mai veramente realizzato con la cura richiesta. La speranza è che la scuola costruttiva che l’attuale general manager porta con sé dagli anni trascorsi a San Francisco possa restituire prestigio a una franchigia ingiustamente bistrattata dalla sete di potere e avidità – nonché dalla comprovata incapacità gestionale – di Snyder. Possa la sua ombra scomparire definitivamente, dando luogo al ripristino della tradizione che per decenni ha distinto una realtà vincente, atta a ritrovare un’identità più affine a se stessa, confidando in un processo che conduca finalmente a una stabile presenza ai playoff, nonché all’abbinarvi un nickname decisamente più consono rispetto all’attuale pasticcio combinato in fretta e furia per compiacere la lega, ennesimo passo falso nei confronti di una fanbase che desidera solamente tornare a gioire.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.