Nel caso non vi fosse una quantificazione sufficiente di dimostrazioni comprovate sul campo, i destini delle franchigie Nfl nascono e muoiono attraverso una raggiunta stabilità nel ruolo più importante del gioco. Classe, consistenza, leadership, fermezza mentale, intelligenza tattica, propensione allo studio, attenzione al dettaglio, tocco e potenza in fase di lancio, costituiscono un insieme di caratteristiche in grado di definire o meno la validità di un quarterback, delineando conseguentemente le velleità di un intero reparto offensivo. Da quasi una decade i Denver Broncos stanno disperatamente tentando di porre rimedio a una mancanza andata a provocare lancinanti dolori sportivi, privi di una soluzione di continuità in regia, come pure di una direzione precisa nella gestione organizzativa del roster, ottenendo in cambio una serie di bilanci asciugati da un qualsiasi fondamento, il risultato di una serie di tentativi gestiti a braccio, dove la lungimiranza ha ceduto il passo dalla fretta di riuscire a tornare in vetta.

La politica interna è comprensibile, se si pensa al come i Broncos siano riusciti a vincere nuovamente il Super Bowl nove anni fa. In quel ciclo, Denver era infatti un corpo più o meno completo cui mancava solamente la testa, essenziale per condurre tutto il resto, motivo principale per cui l’allora general manager John Elway aveva estratto dal suo stesso cilindro tutta la persuasione carismatica possibile per giungere all’agognata meta, portando Peyton Manning tra le montagne rocciose, pur tra le preoccupazioni di quel grave infortunio al collo. Era stata la mossa dell’all-in decisivo, quella che a una difesa dominante aveva finalmente abbinato il motore ideale per accendere una macchina offensiva spettacolare, creando i presupposti per un quadriennio concluso con due partecipazioni alla finalissima, l’ultima delle quali aveva rappresentato quella vetta che Elway aveva progettato quale ideale conclusione per la sua missione, ovvero rendere Denver vincente per la prima volta dai tempi in cui egli stesso aveva conquistato i primi due titoli nella storia della franchigia.

Partendo dunque dal presupposto di quel cinquantesimo Super Bowl, nel quale i Broncos sconfissero niente meno che i Panthers di un incontenibile Cam Newton, era stato tutto sommato logico attuare una modalità esecutiva del tutto simile per puntare al rialzo delle quotazioni di un’organizzazione che, a seguito di quel trionfo, aveva inforcato uno dei periodi storici di maggior avarizia di successi, lo stesso che sta perdurando ora, creando enorme frustrazione all’appassionata schiera di fan che nel gelo del Colorado è stata abituata a tutto, eccetto che a perdere. Nel post-Manning, infatti, la problematica essenziale si è rivelata essere una, e una soltanto: la mancanza di talento nella posizione in regia, la quale, eseguendo gli opportuni calcoli, si sarebbe potuta risolvere battendo lo stesso identico sentiero di prima, gettando tutte le fiches sul tavolo sperando di intascare in toto l’ammontare montepremi.

La trade architettata per trasferire Russell Wilson a Denver due anni or sono, sarà tuttavia ricordata per essere stata la peggiore di tutta la storia del football americano, tanto per il dispendio di risorse investite in proporzione ai risultati ottenuti, quanto per la limitatezza che l’operazione ha portato nella gestione futura del roster, costringendo oggi (e domani) la dirigenza a eseguire salti pirotecnici per attuare un processo di rifondazione assai arduo. Mentre a Seattle si godono le cinque scelte avute in cambio del quarterback, tra cui figurano due primi giri e due secondi, e il coaching staff è stato addirittura in grado di attuare un paio di stagioni più soddisfacenti delle previsioni grazie all’incredibile rinascita di Geno Smith, i Broncos sono nettamente penalizzati dagli 85 milioni di dollari bloccati nei più oscuri meandri del salary cap. Poco conta se tale cifra potrà essere spalmata nel biennio – Wilson verrà tagliato ufficialmente con la designazione di post-June 1 cut, fatto che permette di estendere il peso del suo signing bonus anche al 2025 – basti semplicemente pensare che mai, in precedenza, una franchigia era stata così limitata nel flusso di cassa da una sua stessa decisione, superando abbondantemente i gravami rispettivamente sopportati da Falcons e Packers per Matt Ryan e Aaron Rodgers, che prima di Wilson rappresentavano, con 40 milioni ciascuno, l’ammontare di dead cap più alto nella storia della Nfl.

Sostenere che la mossa effettuata ventiquattro mesi fa, con tanto di rinnovo contrattuale non appena Russ giunse in Colorado, sia stata un fallimento, appare un eufemismo. Nelle premesse, seguendo sempre la logica-Manning, il risultato minimo da raggiungere sarebbe dovuto essere un Super Bowl – o più di uno come Wilson stesso aveva dichiarato durante la canonica intervista di presentazione ai media locali – ma non è andata esattamente così. Neanche da vicino. Oltre al danno, i Broncos hanno vissuto la beffa di proseguire lo stesso ciclo perdente che qualche anno addietro avevano loro stessi definito come inaccettabile, fieri del fatto che le ultime stagioni consecutive chiuse con un bilancio negativo, risalissero alla prima parte degli anni settanta. Per quasi quattro decadi intere, la squadra era stata infatti sinonimo di eccellente continuità, tornando a vincere dopo al massimo un solo anno di transizione, costruendo un poco alla volta quella consistente fama perfezionata al culmine dell’era Shanahan-Elway, cancellando per sempre le cocenti delusioni nei playoff del passato, che avevano visto i Broncos trascorrere gli anni ottanta quali ideali predecessori dei Bills del decennio successivo. Forti, fortissimi, ma incapaci di vincere l’unica partita che conta davvero.

Da quando Manning ha alzato il Vince Lombardi Trophy per l’ultima volta, Denver non ha mai più disputato una gara di playoff. L’orgoglio della franchigia si è tramutato in una sola campagna vincente (9-7, nel 2016) nelle ultime otto, e ben sette campionati consecutivi chiusi in negativo, un filotto che da queste parti non si viveva dai lontani tempi della Afl, quando i neonati Broncos erano costantemente abbinati a una tradizione perdente. Wilson non è nemmeno il quarterback di maggior successo di questi ultimi otto anni, con le sue undici partite vinte in qualità di titolare, una statistica che fa maggiormente rabbrividire pensando alla portata della scommessa effettuata da George Paton, l’attuale general manager: il primatista è infatti Trevor Siemian con 13, e i paragoni tra il talento dell’uno e dell’altro è meglio non cominciarli nemmeno. Nel mezzo, si è provato letteralmente di tutto: Paxton Lynch al primo giro ottenendo in cambio solamente un bust di quelli colossali, poi Brock Osweiler, Joe Flacco, Case Keenum, Drew Lock, Teddy Bridgewater, per poi arrivare – quando le necessità infortunistiche costringevano a farlo – a Brett Rypien, Jeff Driskel, Brandon Allen. Il bilancio complessivo, dal 2016 all’attualità, è di 52-79, con ben cinque stagioni su otto contraddistinte da un numero di sconfitte in doppia cifra.

Per capire cos’è andato storto tra Wilson e i Broncos è necessario includere un congruo numero di fattori. Tra questi figura senz’altro il declino fisico di un quarterback un tempo eccelso nel creare opportunità per i compagni attraverso la mobilità in fase di rottura degli schemi, un evidente motivo di successo nella sua prestigiosa esperienza a Seattle. L’abilità nel correre evadendo alla pressione della difesa aveva permesso generosi guadagni personali, ai ricevitori di smarcarsi e vedersi recapitare missili in campo aperto una volta svincolati dalla marcatura, quindi, in genere, di muovere continuamente le catene, ovvero il problema più grave che Denver ha vissuto negli ultimi due anni, in particolare nelle ultime dieci yard, nelle quali sono invece giunti troppi calci da tre punti, e decisamente troppi turnover, senza dimenticare i 100 sack subiti dal quarterback in queste due stagioni. Né sotto il criticato Hackett, tantomeno nell’attuale conduzione di Sean Payton, la squadra ha schierato un gioco di corse rispettabile, una caratteristica di primaria e vitale importanza per il funzionamento della filosofia offensiva dei Seahawks, che potevano vantare un guadagno quasi sistematico di yard in ogni azione in cui decidevano di attivare la Beast Mode del grande Marshawn Lynch. Wilson ha inoltre sempre goduto del maggior successo in abbinamento a una difesa formidabile, come lo è stata la mitica Legion Of Boom, ma Denver, nonostante le buone statistiche del 2022, poi scese a rotta di collo nello scorso campionato, non ci è nemmeno andata vicino.

La rottura vissuta con Pete Carroll a Seattle aveva un basamento tattico, nel senso che il quarterback sentiva di aver offerto il suo corpo ai colpi degli avversari oltre le sue possibilità, cercando nel contempo una soluzione che gli permettesse di giocare senza i freni che ancora si sentiva addosso nonostante l’esperienza, nel pensiero di gioco praticato dai Seahawks. Forse, sotto la superficie, c’era il desiderio di dimostrare di poter essere un maestro degli aggiustamenti pre-snap, l’aspetto che probabilmente lo distanzia maggiormente da interpreti della posizione come lo stesso Manning, Tom Brady, Drew Brees, un intento che ha fatto nascere problematiche già evidenti nel primo mese di gioco con la nuova uniforme, quando Hackett si era accorto che in attacco non funzionava nulla tentando vanamente di porre rimedio in corsa, e che sta al principio dei malcelati attriti con Payton, sbarcato a Denver con la certezza di poter sistemare la situazione, solo per ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Se c’è un’indicazione da trarre su questa biennale permanenza montana, è che Wilson non sia, al pari dei colleghi citati poc’anzi, un giocatore adatto a tutte le situazioni.

Proprio in virtù di quanto appena asserito, aprendo una breve parentesi su un futuro quantomeno incerto, il quarterback sta affrontando il nodo della sua prossima destinazione Nfl, prossimo ai 36 anni, senza la sicurezza di potersi veder offrire un posto da titolare. Il draft propone parecchio talento e si sa, per ricostruire si parte solo ed esclusivamente dalla gioventù. Le squadre attualmente scoperte nel ruolo e prive di un’alta posizione di scelta stanno pensando ad altre strade: Atlanta è abbinata da mesi a Justin Fields, e Kirk Cousins – qualora non rinnovi con Minnesota – rappresenta un’opzione più concreta di Wilson; Pittsburgh, pur avendo parlato con Russ, appare intenzionata a iniziare il training camp confermando la fiducia a Pickett e Rudolph; Tampa Bay vede la conferma di Mayfield quale opzione primaria; rimangono possibili le opzioni Giants – che Wilson ha già incontrato – vista la situazione a dir poco nebulosa di Daniel Jones e dei suoi backup, e ancora i Vikings, qualora dovessero perdere il Capitano Kirk.

I Broncos, invece, ripartono da un’ammissione d’errore da 245 milioni di dollari, e potrebbero aver negativamente ipotecato il loro futuro. In un modo o nell’altro Paton è riuscito a scendere di 30 milioni sotto il cap, ristrutturando i contratti della guardia Mike McGlinchey e del wide receiver Tim Patrick – che ha già saltato due stagioni consecutive per infortuni gravi – quindi tagliando il safety Justin Simmons, colonna portante difensiva con i suoi 30 intercetti di carriera, e, notizia più fresca, impacchettando Jerry Jeudy e la sua scontentezza in direzione Cleveland, ricevendo in cambio un quinto e un sesto giro 2024, arricchendo quello stesso ventaglio di selezioni così azzoppato dall’operazione-Russ.

La fretta di sistemare tutto senza una più precisa programmazione, si è così ritorta contro i Denver Broncos. Doveva essere un secondo ciclo alla Peyton Manning. E’ stato solo un colossale disastro. Con un salary cap ingabbiato, conseguenti scarse disponibilità per firmare free agent importanti o prospettare di poter confermare i propri, una situazione precaria nel ruolo di quarterback – a meno che Payton non abbia intuito qualcosa di veramente speciale in Jarrett Stidham, ma non si è visto abbastanza per poterlo prevedere ora – e una difesa da rifare, la strada verso un possibile ritorno al top si fa molto lunga. E ancor più difficoltosa diviene, se si condivide la division con Patrick Mahomes. Ma di sicuro questo, i Denver Broncos, lo sanno già.

 

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