Il ritorno di Jim Harbaugh nel circuito NFL, alla fine, si è rivelato essere una questione di mera attesa. Basti riflettere sulla quantità di offseason passate, in cui il suo nome è stato collegato a chiunque avesse appena licenziato il capo-allenatore, a quante realtà in cerca di riscatto è stato abbinato un personaggio di fama vincente, per pensare che prima o poi la nuova transizione professionistica sarebbe effettivamente avvenuta. Nemmeno lui l’ha più di tanto nascosto, poco dopo la firma dell’accordo per divenire head coach dei Los Angeles Chargers, tant’era l’entusiasmo visibile nell’immaginare in prospettiva le possibili evoluzioni di questa sua seconda sfida californiana, a una decade di distanza dall’avventura conclusa a San Francisco.

Il ricordo di quei 49ers è vivo e limpido nelle menti degli addetti ai lavori, d’altro canto mica tutti hanno dimostrato di poter traslare dal college ai pro confezionando un quadriennio di simile successo, per quanto la franchigia residente nella Bay Area non sia riuscita a conquistare l’agognato Super Bowl, ritrovandosi a sfiorarlo soltanto. Rimangono però tre stagioni su quattro con vittorie in doppia cifra e conseguente qualificazione ai playoff, l’apice della finalissima giocata contro i Ravens del fratello John, persa per 34-31, cementando l’idea che i 49ers fossero prepotentemente tornati nel circolo del football che conta, pronti ad aprire un nuovo ciclo. Non sarebbe andata esattamente così, complice qualche screzio tra l’irascibile Jim e la scala gerarchica di San Francisco, ponendo un brusco termine ai sogni di gloria, innescando l’inizio dell’ennesima dimostrazione di capacità di Harbaugh, stavolta a Michigan, una scalata giunta proprio lo scorso gennaio all’obiettivo preposto, la conquista del National Championship.

Questo ritardato ritorno in NFL, dunque, porta sicuramente l’effigie dei Wolverines. Anche ad Ann Arbor, l’head coach si è dovuto arrendere più volte ad un passo dal traguardo, nonostante il lungo elenco di passi intermedi che l’università aveva nel frattempo compiuto. Tornare a battere Ohio State? Fatto. Vincere la Big Ten? Pure. Giocare i playoff del College Football? Sissignori. Mancava solamente la tessera finale di un puzzle costruito in ascesa, giunta attraverso una muscolare prova di forza contro Washington, un mix tra la potenza offensiva riposta in trincea, che aveva regalato numerosi spazi ai cosiddetti skill players, e una difesa pressante, cangiante, costantemente pronta a offrire il bluff su un piatto d’argento al quarterback avversario, variando d’abito subito dopo lo snap. Poche ore dopo i confetti caduti su quel dominante 34-13 le ipotesi si erano già sprecate, ed era chiaro che la questione sarebbe semplicemente durata qualche giorno: da lì a guardare la conferenza introduttiva del nuovo allenatore dei Chargers, di acqua, sotto i ponti, ne sarebbe davvero passata pochina.

La franchigia oggi basata a Los Angeles ha scelto Harbaugh per un motivo ben preciso: costruire un’identità vincente che, allo stato odierno delle cose, non le appartiene. In fondo, non è altro che una realtà secondaria della sua città, una sorta di brutto anatroccolo da tenere nascosto dinanzi all’imponente meraviglia suscitata dal So-Fi Stadium, all’interno del quale i cugini Rams hanno già scritto pagine di storia trionfale. E prima, sfrattati da San Diego e costretti a giocare in uno stadio calcistico dove i tifosi avversari occupavano costantemente il maggior numero di posti sugli spalti, rappresentavano un’entità provvisoria, indefinita, non certo posta nelle condizioni di vincere, non senza un sostegno concreto, non senza sentirsi parte di una comunità con fissa dimora.

I Chargers non sono una compagine tradizionalmente vincente, piuttosto, sono stati vicini a esserlo in alcune epoche della loro esistenza, in via mai del tutto costante: l’unico titolo vinto risale ai tempi della defunta AFL, nel 1963, quando Sid Gillman e Lance Alworth producevano fiamme offensive e bilanci quasi sempre positivi; la rivoluzione filosofica apportata da Don Coryell e il suo pirotecnico assalto aereo guidato da Dan Fouts, avevano prodotto due partecipazioni alla finale della AFC in principio degli anni ottanta; una decade più tardi, l’era di Bobby Ross era stata testimone dell’unica partecipazione al Super Bowl, terminato in maniera terribile, con i 49ers a demolire ogni tipo di speranza sin dal kickoff; infine la longeva epopea di Philip Rivers, probabilmente il miglior quarterback nella storia della franchigia, con partecipazioni ai playoff concentrate solamente in specifici anni e mai del tutto soddisfacenti in termini di realizzazione del potenziale, in particolare data la compresenza di Tomlison e Gates tra i ranghi offensivi.

I Chargers del 2023 costituiscono tutt’altra faccenda, molto più articolata da risolvere: in quota di perfetto galleggiamento in principio di novembre, a quota 4-4, hanno vinto solamente una gara nel prosieguo del campionato (il tennistico 6-0 contro i Patriots) dimostrandosi una squadra non all’altezza della competizione, una discesa agli inferi culminata con il passo più vergognoso della stagione, quei 63 punti incassati dai Raiders andati a coprire l’immagine della franchigia di ridicolo, conseguendo nell’inevitabile licenziamento di coach Brandon Staley. La conduzione di quest’ultimo, noto specialista difensivo, sarebbe dovuta corrispondere a rosee prospettive, fornite dallo sviluppo di un quarterback di gran talento come Justin Herbert, da un ideale bilanciamento tra i reparti, grazie anche alla presenza di un ottimo allenatore degli special team come Ryan Ficken, che nel biennio precedente ha risollevato le sorti di quello specifico settore così problematico nel recente passato, ma alla fine la compagine si è dovuta arrendere dinanzi a situazioni schematiche difensive troppo complesse, che avevano condotto – nonostante l’alto livello della pass rush – a una serie di incomprensioni letali nell’elargire grossi guadagni su ricezione, oltre a un attacco falcidiato dagli infortuni, per quanto le prestazioni a dir poco eroiche – e solitarie – di Keenan Allen avessero aiutato a trascinare stancamente in avanti la croce, oltre a non disporre di un running back in grado di giocare con consistenza tutti i down.

Austin Ekeler è infatti uno dei nomi su cui gravitano le fondamentali decisioni di questa primavera, in vista della sua prossima free agency: fisicamente non costruito per essere un corridore da oltre 1.000 yard stagionali, il ventottenne è eccellente per capacità in ricezione e fiuto per la endzone, peculiarità nella quale, nelle due stagioni precedenti a questa si era rivelato essere uno dei migliori di lega; quest’anno, tra infortuni a inizio anno e produzione drasticamente calata, non è più stato un’arma quasi totale, e i Chargers, per ragioni di età e costi non sostenibili, lo lasceranno probabilmente libero di testare il mercato. La ricostruzione del roster parte anche da qui, nel senso che Harbaugh e il suo nuovo offensive coordinator, Greg Roman, pongono la fisicità al di sopra di ogni altro fattore nell’espressione della loro filosofia offensiva, ragione per la quale, in concomitanza della scadenza contrattuale contemporanea del backup Joshua Kelley, il ruolo dovrà essere adeguatamente rimpolpato da un free agent economico, certamente da una scelta al prossimo draft, o dalla prospettiva di crescita di Isaiah Spiller, giovane, e per questo poco costoso.

Se Harbaugh eredita una situazione lacunosa quando relazionata alla sua ideologia, il nuovo general manager Joe Hortiz ingloba invece un lavoro assai complicato nel cercare di far quadrare la contabilità, trovandosi ben 31.7 milioni di dollari sopra al tetto imposto dal salary cap. Los Angeles figura dunque tra le compagini che avrebbero necessità di spendere ma si ritrovano con i borsoni del denaro chiusi a doppia mandata, con accomodamenti economici resi necessari dal taglio o dallo scambio di alcune delle attuali star, o la ridiscussione dei contratti di alcune di esse, un ragionamento che si allaccia profondamente a quanto appena descritto nei riguardi di Ekeler. Tale situazione comprende gli accordi del già citato Allen, il quale potrebbe essere scambiato per ragioni di futuribilità – oltre che degli oltre 30 milioni di cap hit che si porta appresso – e Mike Williams, giocatore spettacolare ed essenziale per le ricezioni a lunga gittata, ma frequentemente soggetto a infortuni. La problematica grava anche sulla difesa, con gli oltre 60 milioni combinati per i quali incidono Khalil Mack e Joey Bosa, due componenti fondamentali del pacchetto di pressione, viste le scarse possibilità che la difesa possa permettersi di schierare nuovamente entrambi, a meno che Hortiz non s’inventi qualche semi-impossibile acrobazia per protrarre qualche signing bonus.

Un piccolo aiuto, ma non troppo significativo – potrebbe essere fornito dal ritiro del centro Corey Linsley, il cui stipendio è già stato ridotto al minimo recuperando una decina di milioni, dal momento che il veterano soffre di un problema cardiaco che con tutta probabilità ne chiuderà a breve la carriera, aprendo nel contempo il capitolo riguardante la sostituzione, anch’essa da affrontarsi con disponibilità assolutamente limitate. Il che introduce il capitolo draft, per quanto l’alternativa resti incognita per la possibile mancanza di esperienza di un rookie in un ruolo tattico così delicato, perché i migliori free agent disponibili, tra cui figurano Lloyd Cushenberry III, Coleman Shelton, Connor Williams, Tyler Biadasz e Mason Cole, potrebbero accettare accordi più vantaggiosi altrove o firmare nuovamente con le attuali squadre.

Un’altra questione delicata che intreccia trincea e draft, riguarda la ghiotta disponibilità di tackle, una delle posizioni che Harbaugh e Hortiz osserveranno certamente da vicino, con l’intento di aggiungere la cattiveria agonistica ricercata per adempiere al pensiero filosofico. Una decisione difficoltosa, dal momento che alla quinta posizione assoluta saranno disponibili prospetti come il tight end Brock Bowers, un talento che i Chargers non schierano proprio dai tempi di Gates, e Malik Nabers, il quale potrebbe fornire quella dose necessaria di gioventù e talento al reparto ricevitori, magari rendendo più agile il processo decisionale su Williams e/o Allen. Se Harbaugh terrà fede alla modalità edificatoria che lo contraddistingue, allora la scommessa potrebbe rivelarsi essere Joe Alt, che a Notre Dame giocava sul lato sinistro ma capace di transare dalla parte opposta, sfruttando la contemporanea presenza di Rashawn Slater per formare uno scudo difficilmente penetrabile nell’arrivare a Herbert, migliorando istantaneamente il rendimento di una linea dove Trey Pipkins non offre garanzie particolari.

Ammesso e non concesso che si possa guardare al ruolo anche più in basso, favorendo uno scambio per scendere di qualche posizione senza rinunciare alla dose di talento disponibile (potrebbero essere considerati pure JC Latham, Alabama, e Tailese Fuaga, di Oregon State, che sarebbe un tackle destro naturale), diverse altre saranno le esigenze di rimpinzare il roster da ambo i lati, non solo per i già menzionati ruoli di running back, tight end (Gerald Everett è free agent) e centro. Una discreta urgenza di schierare un cornerback di altissimo livello in fondo ci sarebbe, dal momento che l’esperimento J.C. Jackson è stato utile solamente a nutrire il cap di altri 20 milioni di dead money, oltre al fatto che Asante Samuel Jr. si profila essere più un numero due, viste le innate capacità distruttive nella traiettoria aerea e, di contro, la tendenza ad anticipare troppo i lanci in cui battuto.

Ora, la questione principale di tutta la offseason dei Chargers è molto semplice: riuscire a massimizzare il talento di Herbert apportando tutte le modifiche di assetto necessarie. La presenza di Greg Roman non deve confondere troppo le idee riguardo a una netta virata sul gioco di corse, Harbaugh sa di avere un quarterback forte come pochi altri (lo metterà sotto le cure di Joe Brady, che lavorava per Indianapolis nel 2018, quando Andrew Luck lanciò per oltre 4.600 yard e 39 mete), l’intenzione è semplicemente quella di imporsi a livello fisico e ottenere il rispetto delle difese riguardo la pericolosità dei running back, un aspetto che in NFL fa ancora parecchia differenza. Il trio di corridori intercambiabili che Roman ha promosso a Baltimore, in fondo, non ha mai impedito a Lamar Jackson di raccogliere statistiche di primo livello. La difesa di Jesse Minter, anch’egli giunto da Michigan, sarà invece più semplice, e atta a mascherare le coperture utilizzando la versatilità dei suoi giocatori, in particolare del fenomenale Derwin James, uno che quando gioca nei pressi dell’ovale fa sempre accadere cosucce interessanti. Perso nell’ingarbugliata rete esecutiva di Staley, James – nonché i compagni – si è trovato in frustranti difficoltà esecutive, rallentando la reattività: le sue peculiarità paiono invece ideali per attuare il pensiero del suo nuovo defensive coordinator, che è simile a quello di Mike Macdonald (anch’esso ex-coordinatore di Harbaugh a Michigan), puntato dunque sul travestire i difensori da ciò che non sono, indirizzando il quarterback a scagliare il lancio dove non dovrebbe.

Non resta che mettere in atto ogni strategia, con tutte le difficoltà che ne deriveranno. Una situazione economica limitante, necessità di iniettare giocatori di un altro livello, e una nuova dose di intensità, completamente differente da prima. Jim Harbaugh ha accettato anche questa nuova competizione, assecondando la sua natura, quella di chi vuol mettersi in condizione di vincere cogliendo ogni opportunità, con quel ghigno da canaglia, così uguale a quello di papà Jack, colui che ha trasmesso quel DNA vincente a entrambi i suoi figli. Non vediamo l’ora di assistere a questa nuova avventura, se non altro perché Jim ha trasformato la cultura di ogni squadra dove ha giocato (giocò anche a San Diego, con questa stessa uniforme) e allenato: una situazione ideale, perché i Chargers, di un netto cambiamento, ne hanno proprio tanto bisogno.

 

5 thoughts on “I nuovi Chargers di Jim Harbaugh

  1. Bell’articolo, però credo che il miglior QB di sempre per i Chargers sia stato il mitico Dan Fouts, non Rivers!!!!!

  2. Spero vivamente che i Chargers tornino ad essere una franchigia competente.
    Sono pur sempre la squadra grazie alla quale ho scoperto il football nell’estate del 1981, quando, bambino, vissi tre mesi a San Diego.
    La nostra casa era attaccata al campo di allenamento e l’ingresso era libero. Ma libero nel senso che nessuno ti chiedeva nulla. I cancelli spalancati, una rete da campetto di periferia e gli spalti metallici su cui sedersi. La gente entrava e usciva come voleva.
    In campo Dan Fouts e tutti gli altri. A fine allenamento scendevi e ti mescolavi ai giocatori per fare raccolta di autografi, foto e quattro chiacchiere. Il mio preferito era il RB John Cappelletti, sarà stato perché mi ricordava quei cappelletti che mio nonna preparava a natale… Ingenuamente ci andai a parlare in italiano, ma il ragazzo non lo capiva.
    Fu un periodo bellissimo, quella squadra mi è sempre rimasta nel cuore, e ho ancora in qualche cassetto tutti gli autografi.
    Peccato solo quel trasferimento a Los Angeles…

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.