La percezione, alla fine dei conti, coincide con la realtà. In quanto esseri umani abbiamo assoluto bisogno di credere che ciò che percepiscono i nostri sensi altro non sia che la realtà, sennò potremmo cadere in un pericoloso nichilismo per il quale nulla ha più senso in quanto aprioristicamente corrotto dai nostri sensi.
Stando a quanto suggeritoci dalla nostra percezione, fra Aaron Rodgers e i Green Bay Packers le cose non sono mai andate meglio.

Reduce da tre stagioni da tredici vittorie consecutive, due MVP in dodici mesi e spiccioli e un rapporto apparentemente sano con il proprio allenatore, è lecito credere che Rodgers e i Packers convivano in armoniosa simbiosi come non succedeva da circa un decennio. Poco male se le loro stagioni si spengono inevitabilmente a gennaio, questa non è in alcun modo una novità.
I nostri sensi, in questo caso, ci stanno clamorosamente fuorviando.

Rodgers vuole di più.
Non sul campo, però. Sempre più vicino al quarantesimo compleanno e con una bacheca che oramai non ha più spazio per accogliere nuova argenteria – squisitamente individuale -, Rodgers pretende di essere tenuto al corrente, reso partecipe e avere sempre voce in capitolo nelle decisioni del front office. Brian Gutekunst, general manager da giusto un paio di stagioni, non è particolarmente incline ad assecondare il desiderio del proprio quarterback.

Negli uffici dei Packers dal lontanissimo 1998, Gutekunst ha pazientemente scalato le gerarchie per vent’anni prima di erigersi a general manager e, arrivato a questo punto, stabilire un pericoloso precedente potrebbe deragliargli la carriera.
Rodgers più o meno a breve si ritirerà, lui no, il suo percorso è appena iniziato ed è piuttosto semplice comprendere che genuflettersi al cospetto del proprio quarterback potrebbe lasciar passare il messaggio che basti qualche MVP per mettergli impunemente i piedi in testa.

In una lunga intervista rilasciata a The Athletic, Aaron Rodgers parla di “problemi di comunicazione” a cui solamente Russ Ball – director of football operations – sembra voler trovare rimedio.
È arrivato il momento di affrontare il caso Jordan Love.

Reduci dalla clamorosa imbarcata contro i San Francisco 49ers all’NFC Championship Game, Rodgers è convinto che a separare i suoi Packers dallo sfuggente Super Bowl ci siano giusto un paio di giocatori: in particolare, un ricevitore da affiancare all’incontenibile Davante Adams.
L’unica loro prospettiva deve essere il presente, ogni loro mossa deve tendere all’hic et nunc, possono e devono vincere ora, il tempo a loro disposizione sta scadendo.

Henry Ruggs, Jerry Jeudy, CeeDee Lamb, Brandon Aiyuk, Tee Higgins e Michael Pittman Jr. sono solo alcuni dei ricevitori disponibili al draft del 2020. Quasi dimenticavo, questo è il draft di Justin Jefferson.
Si sa, il senno di poi è una delle poche scienze esatte, ma provate a immaginare come debba essersi sentito a vedere i suoi Packers scalare il tabellone per prendere… un quarterback?
Jordan Love da Utah, talento cristallino da sgrezzare con pazienza prima di poter essere mandato settimanalmente in campo.

Per quanto ci è dato sapere Aaron Rodgers è stato un mentore migliore di Brett Favre.

Disarmonia potrebbe essere un eufemismo.
Con una sola scelta al draft Rodgers ha potuto prendere misura di quanto la visione sua e del front office siano dissonanti. Per lui il presente è l’unica dimensione esistente del reale, per il front office l’esatto contrario dato che è apparente che stia iniziando a gettare le basi per i Packers del futuro, quelli del dopo-Rodgers.

Aaron si sta preparando per la seconda apparizione al Pat McAfee Show quando lo schermo del suo smartphone si illumina: “QB”, recita seccamente un messaggio del suo agente Dave Dunn. Si sta riferendo al draft, chiaramente, non sta ricordando al proprio cliente quale sia il suo ruolo.
Chiacchierata da McAfee annullata, troppi sentimenti feriti per andare a dare spettacolo facendo finta di niente dall’amico iperattivo scopertosi conduttore televisivo.

Le analogie con la situazione che ha vissuto in prima persona con Brett Favre sono tante, tantissime, l’unica grande differenza sta nell’inversione dei ruoli in quanto questa volta è lui il veterano più volte MVP che dovrà trovare modo di convivere con colui che eventualmente gli soffierà il posto.
In questo caso, però, il rapporto fra mentore e rampollo è buono, tant’è che lo stesso Love affermerà a più riprese quanto Rodgers sia stato esemplare nei suoi confronti.

Il dado è tratto.
Gli MVP e le esaltanti regular season non hanno saputo sortire gli effetti sperati, la relazione fra Rodgers e il front office è irreparabilmente compromessa, forse solamente un Lombardi saprebbe lenire certi dolori che finiranno per portare a un divorzio già scritto. Non è questione di se, ma di quando.
Ogni fallimento ai playoff può essere usato da Rodgers come prova inconfutabile della malagestione del front office.

Forse il singolo aspetto più insopportabile dell’intera vicenda è l’infantilità con cui Rodgers usa continuamente il proprio ritiro per confinare all’angolo il front office che, comprensibilmente, gradirebbe aver idea dei piani del proprio quarterback titolare per progettare il futuro con cognizione di causa.

Malgrado l’età e il deterioramento della relazione, dopo il secondo MVP consecutivo il front office dei Packers è costretto a premiare Rodgers con l’ultimo gargantuesco rinnovo contrattuale della propria carriera, un triennale da 150 milioni totali che evidenzia brillantemente quali siano le sue priorità.
Delle implicazioni di questo rinnovo ne ho parlato profusamente qui, mi sembra sciocco dilungarmi inutilmente.

Il 2022, se non altro, ha chiarito definitivamente quali fossero le motivazioni di Rodgers.
Umiliato clamorosamente il front office costringendolo ad agire quasi controvoglia, nell’autunno del 2022 Rodgers appare demotivato, alienato e più che mai indisponente. Ogni occasione è buona per mostrare fastidio e frustrazione, giusto per ribadire al front office il proprio risentimento. Pazienza se i risultati non arrivano, la più grande soddisfazione che poteva togliersi se l’è già tolta a marzo.

L’annata è senza mezzi termini disastrosa.
Green Bay chiude la stagione su un mesto 8-9 reso ancora più amaro dalla consapevolezza che con una vittoria in extremis sui Lions – che non avevano nulla per cui giocare – si sarebbero potuti qualificare ai playoff. Gli intercetti, disgrazia che è sempre riuscito a evitare in carriera, sono ben 12, il dato più alto dal suo primo anno da titolare.

Aaron Rodgers e Randall Cobb escono insieme (presumibilmente per l’ultima volta) dal terreno di gioco di Lambeau Field.

Più che le giocate, a intristire è il suo atteggiamento. Distaccato, svogliato e perennemente infastidito, a volte si ha quasi l’impressione che Rodgers sembri sperare che i suoi giovani ricevitori sbaglino traccia per ribadire il proprio punto, ossia che questa squadra per vincere abbia bisogno di veterani scafati, non di orde di giovani in uscita dal college che in quanto tali necessitano di tempo. Perché sì, nel frattempo Davante Adams è migrato Las Vegas dove – per qualche giorno – è diventato il ricevitore più pagato nella storia della NFL.

Ha un che di poetico che l’ultimo suo lancio a Green Bay sia coinciso con un intercetto. Rodgers, nel corso della carriera, si è distinto per la rarissima allergia all’intercetto, figuratevi che attualmente detiene il record per il maggior numero di lanci consecutivi senza un intercetto, 402, non troppi di meno rispetto a quelli che un quarterback lancia in media in una stagione.
Il fatto che tale intercetto sia arrivato al termine di quello che poteva essere il drive della vittoria che avrebbe permesso loro di sgattaiolare ai playoff rende il tutto ancora più cinematografico, tutto ciò non può essere figlio del caso.
Dio è veramente morto.

L’unico epilogo possibile è sotto gli occhi di tutti.
I primi mesi di offseason sono sempre nebulosi e conturbanti, ogni singola certezza altro non fa che alimentare dubbi fino a rubarne le sembianze, ma che fra Rodgers e i Packers sia finita lo sa chiunque, ufficialità o meno.
Gli ultimi disperati tentativi di riparare l’irreparabile vanno comicamente a vuoto.

Nell’intervista di The Athletic viene rivelato che Rodgers e Gutekunst si fossero accordati per un incontro a gennaio in California, dove il quarterback sverna durante l’offseason.
Nella spiegazione del motivo per cui non sono riusciti a incontrarsi troviamo incapsulata l’essenza della trasformazione a cui si è sottoposto Aaron Rodgers negli ultimi anni. Gutekunst, arrivato in California la mattina, lo contatta con un messaggio a cui Rodgers risponde «la notte o al massimo la mattina successiva» poiché «life happens».
Gutekunst, visualizzato e mazziato, se ne torna a casa perplesso e probabilmente rassegnato.

Probabilmente noi comuni mortali non abbiamo i mezzi cognitivi per comprendere frasi del genere, frasi in cui non è possibile intercettare nemmeno un millilitro di rispetto degli altri e del loro tempo. Molto semplicemente, noi abitanti del mondo reale non possiamo permetterci di comportarci così.
È proprio questo che mi sento di rinfacciargli, la totale perdita di contatto con la realtà, da lui spiegata a suon di aforismi rilasciati all’incredulo Pat McAfee che, come un cane di Pavlov, invece di metterlo davanti alla contraddittorietà delle proprie parole si è sempre limitato a scodinzolare e sbavare a comando.

Life happens.
Se vi state chiedendo come mai Gutekunst non abbia provato a contattarlo telefonicamente… ci ha provato, solo che stando a Rodgers a casa sua il telefono prende poco. Una tacca nel migliore dei casi. Avrebbero dovuto usare FaceTime come da lui richiesto.
L’infantilità e la totale mancanza di professionalità sono avvilenti, scuse del genere sembrano estrapolate da una conversazione fra preadolescenti troppo spaventati per salutarsi e porre fine a una frequentazione che non stava andando da nessuna parte.
La bassezza più desolante, anche se la bassezza altro non è che sinonimo d’umanità.

Da McAfee, di lì a breve, avrebbe annunciato al mondo la propria volontà di portare avanti la carriera ai New York Jets dove sarà spedito a pochi giorni di distanza dal draft.
Quasi due decenni insieme terminati così, con il mondo che ringraziava all’unisono gli dei del football per aver avuto la decenza di farla finire. Quasi due decenni in cui avrebbero potuto riscrivere la storia e, invece, a parte qualche highlight qua e là Green Bay s’è lasciata sfuggire dalle mani l’occasione di riaffermarsi dinastia.

Quella di Rodgers ai Packers è una storia più che umana. Al suo interno troviamo istanze di mitologia classica mischiate alla più sterile contemporaneità, tutte le emozioni nello spettro del reale prima o poi hanno avuto il loro minutino sotto il riflettore.
Purtroppo, e questo potrebbe essere il più grande rimpianto in assoluto, il football è scivolato in secondo piano un po’ troppo in fretta. È diventata una guerra di ego, uno di quegli inutili conflitti la cui unica prospettiva è l’autodistruzione, l’inevitabile implosione che porta lo spettatore esterno a interrogarsi sconsolato su cosa sarebbe potuto succedere.

È avvilente che abbiano vinto solamente un Super Bowl. È avvilente che i Packers di Rodgers abbiano raggiunto il proprio zenit così presto, quando non ce lo potevamo aspettare e nemmeno lo conoscevamo così bene. Ci hanno privato di una miriade di incroci che avrebbero catapultato quest’era di football nell’Olimpo: immaginatevi condividere il palcoscenico del Super Bowl con Tom Brady. O con Peyton Manning.
Niente di tutto ciò, un insoddisfacente mordi e fuggi che ci ha lasciati la bocca collettivamente amara.

A New York Rodgers sembra già aver ritrovato il sorriso.

È indubbio che negli anni Aaron Rodgers sia cambiato così radicalmente da permetterci di individuare un prima e un dopo. No, non credo coincida con l’ayahuasca o con la triste storia del vaccino, ma appare evidente che a un certo punto le sue ambizioni sportive siano state scavallate da una sete di potere fine a se stessa.
Anche i Packers avrebbero potuto fare di più. A un epilogo così mesto si arriva solo attraverso uno sforzo comune prevenibile con della sana comunicazione.

Questa è una storia che può essere usata come prova definitiva della circolarità del tempo, le analogie fra il suo percorso e quello di Favre sono così numerose che ignorarle sarebbe ben più pigro che elencarle. Un solo anello, tantissimi MVP, innumerevoli momenti di eccellenza sportiva, un implacabile deterioramento dei rapporti umani che ha fatto sbiadire il giallo circondato dal verde sulla maglia dei Packers fino a trasformarlo nel bianco della maglia dei Jets.

Indipendentemente dal nostro giudizio su Aaron Rodgers, credo che abbiamo investito così tante emozioni su questa storia perché nella sua assurdità è tremendamente reale e, non secondario, perché in grado di farci tuffare in lunghe speculazioni nella nostra testa su ciò che sarebbe potuto succedere se… Se cosa? Non siamo in grado di individuare un singolo se, questa è una funzione a più variabili se ne esiste una.

Mentre noi continuiamo a trastullarci imperterriti su cosa sarebbero potuti essere, i Packers si stanno preparando alla prima stagione senza Brett Favre o Aaron Rodgers under center dal 1992 mentre Rodgers, particolarmente a proprio agio fra i flash di New York, sta neanche troppo silenziosamente mettendo i presupposti per quello che sarebbe il suo magnum opus, ossia riportare i New York Jets sul tetto del mondo e nel frattempo dimostrare ai Packers che dargli maggior potere li avrebbe messi nella posizione di vivere una vita senza rimpianti.

I rimpianti, alla fine, sono stati l’essenza di questa storia imperfetta che, in quanto tale, non può essere raccontata nel modo giusto poiché non ne esiste uno.
La mia speranza, però, è di essere riuscito a raccontarvela in modo sufficientemente appassionante da costringere alcuni di voi a sottoporsi al masochistico dolore di ripercorrerla un passo alla volta.
Vi ringrazio sinceramente per l’investimento di tempo.

12 thoughts on “Il melodrammatico divorzio fra Aaron Rodgers e i Green Bay Packers

    • Caro Gianfranco, l’unica persona qua che deve ringraziare sono io: grazie di cuore!

  1. Mattia sei un talento di scrittore ^_^ Gli Istituti scolastici che hai frequentato a Veronaa hanno fatto bene la loro funzione. Sai descrivere una domenica invernale di incontri facendone emergere i dati tecnici rilevanti e parimenti coinvolgere il lettore in una story sportiva che ricalcando gli avvenimenti ne rielabora le implicazioni umane sentimentali e passionevoli. Davvero tanti complimenti. Un VALEGGIANO

    • Caro compaesano (circa), ti ringrazio di cuore per i complimenti! Non saprei dirti se il liceo abbia fatto un bel lavoro, probabilmente potrò esprimermi con più certezza quando sarò sicuro di scrivere effettivamente bene :)
      In ogni caso, grazie di cuore!

  2. Grazie per questo bel racconto e per avermi fatto conoscere tante cose che non sapevo su Aaron Rodgers.

    Adesso attendo con ansia le storie di Tim Tebow, Johnny Manziel e Josh Rosen!

  3. Ciao Mattia
    Perché non mandi la versione inglese della A. Rodgers soap opera a qualche testata giornalistica che cura l’NFL ad es. The Sporting News? Vedi mai che apprezzino.
    Bella storia, ben raccontata. Parer mio: personaggio umanamente al di sotto del minimo sindacale per essere annoverabile tra gli esponenti della nostra specie.

    • Ciao Filippo! Purtroppo non mi sento a mio agio a scrivere in inglese pur essendone tranquillamente capace, immagino sia un blocco mentale immotivato.
      Sul giudizio umano su Rodgers stendiamo un velo pietoso, ti dico solo che è stata una delle più grandi delusioni della mia vita perché per un bel po’ ho pensato fosse veramente l’unico in NFL a capire come giri veramente il mondo… e invece!
      In ogni caso, grazie di cuore!

  4. Solo adesso ho potuto leggere gli ultimi capitoli di questa vicenda, non posso che unirmi al coro dei complimenti qui sopra, davvero un bel lavoro. Grazie.

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.