Durante lo scorso episodio abbiamo iniziato a esplorare la lunga e variegata campagna delle delusioni, un periodo in cui o per un motivo o per un altro i Green Bay Packers e, non secondario, Aaron Rodgers si scioglievano puntualmente sul più bello, ai playoff. Eppure è curioso, nel rigido inverno del Wisconsin il verbo sciogliere dovrebbe svuotarsi di ogni significato.

In questo episodio, invece, ripercorreremo l’era degli highlights culminata nel rovinoso divorzio con Mike McCarthy, uno dei principali responsabili del difficilmente pareggiabile successo individuale di Aaron Rodgers.
Tanti momenti memorabili, innumerevoli lanci mai visti prima ma mai una volta oltre le solite maledette colonne d’Ercole, i Championship Game. O se preferite, mai più al Super Bowl.

Che il 2015 non sarebbe stato il suo anno lo si era capito prima di subito, più precisamente quando in un’insignificante partita di preseason contro i Pittsburgh Steelers l’imprescindibile Jordy Nelson s’accascia al suolo senza alcun tipo di contatto: rottura del legamento crociato anteriore, stagione finita ancor prima d’iniziare.
I numeri, per i suoi standard, sono deludenti. La percentuale di completi è paurosamente bassa, un 60.7% reso ancora meno digeribile dalle insoddisfacenti 6.7 yard per tentativo che hanno contribuito a fargli concludere la stagione con un passer rating di 92.7, comodamente il peggior dato in carriera.
Peggiore anche di quello fatto registrare da rookie.

Nella stridente inefficienza, però, troviamo dei momenti di pura brillantezza, una brillantezza senza precedenti: il 2015 è l’anno in cui dal nulla Rodgers va a conquistare il trono d’indiscusso re delle Hail Mary, quei lanci disperati a tempo scaduto nel quale l’obiettivo è esclusivamente quello di catapultare la palla nella end zone per poi incrociare le dita sperando che qualcuno vestito come te riesca a metterci le mani attorno. Una preghiera.

Il 3 dicembre, un giorno dopo il suo 32esimo compleanno, Rodgers e i Packers si trovano sotto di due punti sulle proprie 39 con ben zero secondi sul cronometro. Il motivo per cui le due squadre sono ancora in campo lo ritroviamo in un’evitabile – e controversa – facemask in quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo snap della partita.
Due punti, zero secondi rimasti, più di mezzo di campo da percorrere: se non è una missione impossibile poco ci manca, non è un caso che ci si riferisca a queste giocate come Hail Mary, altro non sono che preghiere estremamente atletiche.

Rodgers riceve lo snap, arretra, deve assolutamente guadagnare tempo. La pressione dei Lions arriva forse un po’ prima del previsto, un paio di passetti verso sinistra precedono una violenta sterzata verso destra per eludere Jason Jones, pass rusher che non riesce a mettergli le mani addosso giusto per un paio di centimetri.
Accelera verso destra, effettua una veloce scansione del campo, con passo felpato si avvicina sempre più alla linea di scrimmage e vicino alla linea delle proprie 35 concepisce uno stupendo arcobaleno – all’interno di uno stadio chiuso.

La palla viaggia una settantina di iarde scarse, la parabola è così marcata che con un filo di braccio in più sarebbe andata a sbattere contro il soffitto dello stadio: il pallone, consapevole che a breve sarebbe entrato nella storia, la gravità sembra essersela completamente dimenticata. Lui, incurante, se ne sta in aria.
I compagni, arrivati in massa in end zone, tentano di rintracciarlo: Richard Rodgers, nello specifico, a un certo punto è quasi fermo, poi arretra con tranquillità, prende le misure e al momento propizio decide di staccare i piedi dal suolo.
Che ci crediate o meno, il pallone lo riceve sul serio lui.

Pandemonio in campo, silenzio tombale sulle tribune.
Questa fondamentale vittoria, oltre che a regalare a Rodgers un momento di vera e propria immortalità sportiva, dà il via a una serie di tre vittorie consecutive che permette a Green Bay di chiudere la pratica qualificazione ai playoff.
Una volta dentro, spolpati da innumerevoli infortuni soprattutto sul versante offensivo, si arrendono onorevolmente agli Arizona Cardinals guidati da un Larry Fitzgerald che non ha niente da invidiare a quello del leggendario 2008.
Prima di arrendersi, però, Rodgers si toglie lo sfizio di portare la partita ai supplementari completando non una ma ben due Hail Mary. Consecutive. A fine partita.
Scusatemi la struttura paratattica, ma avevo bisogno di enfatizzare.

Il secondo lancio potrebbe essere il singolo miglior lancio mai completato da un quarterback davanti a una telecamera.
Altra stagione terminata ben prima del tanto agognato Super Bowl, ma con tutti quegli infortuni è già un miracolo siano riusciti ad avanzare fino al Divisional Round.
Il 2016, simile ma al contempo diverso, ci restituisce uno dei momenti più iconici della sua carriera.

Dopo una ragionevolmente umiliante sconfitta contro gli allora Washington Redskins, i Packers stazionano su un deprimente 4-6 reso possibile da non una, non due, non tre ma ben quattro sconfitte consecutive.
Presentarsi a dicembre reduci da quattro elle filate è quasi sempre una condanna a morte, ma Rodgers invita il mondo NFL a non perdere la calma con l’iconica intervista run the table, cito testualmente «we get one under our belts, things might start rolling for us and we can run the table»: basta veramente una vittoria per ritrovare la magia?

Con il sennò di poi mi sento di poter rispondere affermativamente.
Green Bay spezza l’inerzia battendo i Philadelphia Eagles. Poi gli Houston Texans. Dopo, in ordine, Seahawks, Bears, Vikings e Lions. Nelle ultime sei partite della stagione completa il 71% dei lanci tentati per 15 touchdown e nessun intercetto.
Green Bay non solo si qualifica ai playoff, ma vince pure il titolo divisionale.

Ai playoff, davanti ai propri increduli tifosi, restituiscono il favore di qualche anno prima ai favoritissimi New York Giants annientandoli 38 a 13 in una partita che sarà ricordata per l’ennesima Hail Mary del numero 12 e una foto in barca dei ricevitori dei Giants capeggiati da Odell Beckham.
La settimana dopo, contro gli esaltanti Dallas Cowboys del nuovissimo duo Prescott-Elliott a cui la lega non sembra trovare risposte, Rodgers trascina i suoi al Championship Game completando uno dei lanci – e drive – più assurdi di cui io abbia memoria.

3&20, punteggio fissato sul 31 pari, Green Bay ha una decina di secondi per cercare un grande guadagno ed, eventualmente, regalare a Crosby la legittima opportunità di deciderla con un piazzato.
Per temporeggiare, questa volta, Rodgers evade la tasca dalla sinistra e avvicinandosi a grandi falcate alla linea di scrimmage scarica un passaggio sulla sideline che un accartocciatissimo Jared Cook riesce ad agguantare.
A primo acchito nessuno riesce a prendere seriamente la giocata, è fisicamente impossibile che Cook sia riuscito a completare una ricezione del genere senza uscire dal campo e nemmeno il tempo di digerire il pensiero che gli arbitri segnalano il completo.
In che senso?

Ovviamente Crosby converte il piazzato della vittoria, altrettanto ovviamente la settimana dopo gli indemoniati Atlanta Falcons li massacrano con un perentorio 44 a 21.
Pure in questo caso non si può rinfacciare molto a Rodgers, è riuscito a trascinare a una partita dal Super Bowl una squadra priva di un gioco di corse credibile – figuratevi che il leading rusher è proprio lui con le sue 46 yard – e con una difesa così problematica da costringere spesso e volentieri l’attacco a vincere segnandone uno in più degli avversari. Tattica che molto difficilmente può avere chissà quale successo contro i Falcons dell’MVP Matt Ryan.

Se non altro il 2017 non si conclude con l’ennesima delusione ai playoff, ma molto, molto prima. Più precisamente durante la sesta domenica dell’anno, quando la capatina annuale a Minneapolis si trasforma in tragedia grazie a un violento tackle di Anthony Barr che gli vale la rottura della clavicola.

Green Bay, guidata da Brett Hundley, tira a campare grazie a un paio di vittorie ai supplementari contro Buccaneers e Browns, vittorie che restituiscono speranza alle loro ambizioni playoff al punto da spingere Rodgers a darsi una possibilità per la cruciale sfida da dentro o fuori contro i Carolina Panthers: sforzo eroico ma vano, vince Carolina, Green Bay è fuori dai playoff senza nemmeno esserci entrata.
Questa è la prima volta dal proprio anno “da rookie” che i Packers di Rodgers restano fuori dai playoff. Nulla di cui vergognarsi, in questo caso ci sono le attenuanti.

I puntuali fallimenti in postseason, però, stanno infestando il quartier generale dei Packers con un insopportabile puzza di stantio. All’infuori della giocata esaltante e di numeri sempre gradevoli alla vista, Green Bay sembra essere incastrata su un perverso tapis roulant: non importa quanto corrano e si impegnino, non si muoveranno di un centimetro.
Dovevano essere la nuova grande dinastia, dovevano e potevano dominare in lungo e in largo, avevano tutto quello che serviva – nello specifico, un quarterback generazionale – per riprodurre fedelmente il modello Patriots, e invece niente, tante “inutili” vittorie in regular season, numeri da rifarsi gli occhi e gioco gradevole: tutto fine a se stesso.

C’è da essere sinceri, la coppia Rodgers-McCarthy non sta producendo.
Dovevano essere i successori filosofici di Brady e Belichick ma hanno giocato solo un Super Bowl insieme. Brady e Belichick nove. Non ha senso paragonarli su un piano sportivo, cerchiamo dei parallelismi nel rapporto fra le parti coinvolte.

La forza della squadra del Massachusetts è stata la continuità garantita dal duo Belichick-Brady, coppia che seppur composta da persone così diverse fra di loro da risultare incompatibili a un occhio distratto è sempre riuscita a rispettarsi e convivere più o meno pacificamente. Belichick aveva bisogno di Brady e viceversa ed entrambe le parti ne erano assolutamente al corrente.
Lavoravano in armonia, ogni tanto si mandavano a quel paese ma alla fine della giornata vincevano. Spesso e tanto. Dopo vent’anni ci sta di salutarsi.

Fra Rodgers e McCarthy, invece, le cose non sono mai andate bene come potevamo pensare dall’esterno.
Ryan Grant, per anni compagno di backfield di Rodgers, ha candidamente ammesso che il quarterback non ha mai perdonato l’allenatore che gli aveva preferito Alex Smith. Il peccato originale. Nonostante ai tempi fosse solamente un offensive coordinator e il potere decisionale di un offensive coordinator sia quello che sia, per Rodgers McCarthy aveva modo di risparmiarlo dal peggior momento – sicuramente il più imbarazzante – della propria esistenza.

Vincere, soprattutto in NFL, aiuta a dimenticare, a far passare in secondo piano fastidi che non possono permettersi di guastare i festeggiamenti, ma quando le delusioni iniziano a inanellarsi i nodi vengono tendenzialmente al pettine.
Con l’umiltà che lo contraddistingue, Rodgers è arrivato a un punto che non ne può più di salvare l’allenatore grazie al proprio talento. Nella sua testa, l’allenatore non era mai stato in grado di semplificargli la vita, ogni singolo successo dei Packers è riconducibile a una brillantezza endogena mai esaltata dall’acume tattico di McCarthy, visto da Rodgers come una delle persone con il più basso quoziente intellettivo tecnico che abbia mai incontrato.

Il locus amoenus Packers, l’isola felice della National Football League, un luogo così fiabesco da sembrare avvolto da una pellicola in grado di renderlo impermeabile alla tossicità, è in realtà uno dei posti nei quali si respira l’aria più malsana nell’intero panorama sportivo americano.
Una guerra di ego sta ribollendo in uno spogliatoio molto vicino all’implosione.
Da una parte l’ego fragile, rancoroso e ultrasensibile di Aaron Rodgers, dall’altra quello sornione, noncurante e a volte pigro di McCarthy.

Questa foto ha un qualcosa di veramente simpatico.

Il quarterback da lui sviluppato gli è sfuggito velocemente di mano, l’intelligenza tattica del numero 12 lo ha reso quasi ridondante: l’attacco dei Packers di Rodgers non ha bisogno di McCarthy per funzionare, anni di libertà e studio hanno trasformato l’allenatore in terzo incomodo.
McCarthy, inebriato dal successo dei primi anni da allenatore, è convinto che ad aver reso grandi i Packers c’abbia pensato il suo sistema, non i suoi interpreti. Quello che ha funzionato con Aaron Rodgers, Jordy Nelson, Greg Jennings, James Jones e Randall Cobb può essere replicato da chiunque, anche da acerbi rookie: la compiacenza raramente stimola l’intelletto. Chi queste cose le ha vissute in prima persona sostiene che McCarthy negli anni si sia rifiutato di innovare e adattarsi.

Negli ultimi tempi la frattura è diventata così profonda che voci di corridoio parlano di un McCarthy assente ingiustificato ai meeting di squadra in quanto impegnato a farsi fare un massaggio nel suo ufficio. Diserzione?
Messa così è molto facile empatizzare con Aaron Rodgers, anche se c’è chi apprezza la sedicente passività di McCarthy… tuttavia ad alcuni difensori non andava a genio il fatto che apparentemente ignorasse i loro esercizi in quanto allenatore di matrice offensiva.
Nemmeno lui è stato perfetto.

La scarsa leadership dell’allenatore può essere intercettata nella seconda metà del 2017, quella giocata senza Aaron Rodgers: senza il proprio leader in campo i Packers sono spesso apparsi deconcentrati, demotivati e arrendevoli. Nel 2008 i Patriots guidati da Matt Cassell hanno sfiorato i playoff vincendo undici partite. Indipendentemente da chi si trova under center, con Belichick certe cose semplicemente non succedono.

Brady e Belichick, a differenza di Rodgers e McCarthy, sono riusciti a convivere quasi vent’anni anche grazie a una comunicazione sana e adulta. Rodgers, in quanto Rodgers, predilige la strada passivo-aggressiva lastricata da dichiarazioni a mezza bocca: è inevitabile che la caduta sarà tanto rovinosa quanto spettacolare.

Il 2018, malgrado l’esaltante rimonta del season opener contro i Chicago Bears è un disastro inenarrabile.
Green Bay perde e seppur statisticamente ineccepibile Rodgers appare in netto declino. Il punto più basso viene raggiunto a inizio dicembre quando escono sconfitti dal testa a testa, a Lambeau Field, contro gli Arizona Cardinals di Josh Rosen, una delle peggiori squadre dell’ultimo decennio.
Perdere è di per sé inaccettabile, perdere così deve avere ripercussioni.

Mike McCarthy, nel modo più anonimo e mesto possibile, viene sollevato dal proprio incarico.
Nel 2011 chi se lo sarebbe potuto aspettare che l’accoppiata Rodgers-McCarthy riportasse a casa il Lombardi solamente una volta?
Fresco di un rinnovo contrattuale da record – ai tempi -, i ben informati parlano di circa un terzo delle chiamate di McCarthy modificate sulla linea di scrimmage da Rodgers: il confine fra mancanza di rispetto e insofferenza era diventato pressoché impercettibile, erano necessari cambiamenti.
E a rimetterci, in questo caso, è stato McCarthy.

Ora serve un uomo nuovo, un uomo di cui Rodgers si possa fidare, uno che non metta in dubbio la sua autorità in quell’attacco, una persona con cui avere un rapporto umano prima che professionale.
Chi, però?

7 thoughts on “La malinconica fine del sodalizio Rodgers-McCarthy

  1. La più avvincente “serie” mai prodotta….dopo ogni puntata mi metto a fare Il conto alla rovescia.
    Spero che a questa “serie” ne seguano altre, perché il mondo NFL (totto lo sport in realtà) è zeppo di storie che meritano di essere raccontate.
    Grazie Mattia

  2. Stiamo arrivando alla svolta mistica, coi messaggi indecifrabili, i vaccini alternativi, i funghetti allucinogeni, il ritiro nella foresta. Anche la chiusura non sarà male

    • Belin sono talmente preso da questo racconto da sperare che non finisca. Concordo con chi ha scritto sopra, spero che non sia un caso isolato e che ci siano altre storie a tenermi incollato al dondolo. Complimenti a Mattia.

      • Ringrazio sia te che Matteo, è la prima volta che provo a fare qualcosa del genere sono veramente contento lo stiate apprezzando. Con calma penserò a storie da raccontare in futuro, soprattutto in offseason quando di materiale non ne trovi manco scavando.

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