Per quanto bene possano essere raccontate, le cose facili non interessano quasi a nessuno. Ci sono servite diverse migliaia di parole spalmate su due episodi per giungere a un momento per il quale la quasi totalità dei quarterback selezionati al primo round del draft non deve nemmeno sudare.
L’iter è così automatico, ripetitivo e ben scandito che abbiamo smesso di prestarci attenzione. A un certo punto del training camp, o al massimo dopo un paio di partite, il quarterback approdato in NFL durante la prima notte del draft viene gettato nella mischia ché non c’è tempo da perdere, bisogna comprenderne il valore il prima possibile per eventualmente costruirci attorno una squadra da titolo finché sotto contratto da rookie.

In questa difficile – quindi meritevole d’essere raccontata – istanza nulla di quanto appena detto risulta vero.
Rodgers è stato costretto a pazientare durante la notte del draft mentre le telecamere banchettavano sulla carcassa del suo ego come avvoltoi su una carogna consumata dal sole.
Ha dovuto attendere il proprio momento in religioso silenzioso per tre anni ché quando chi ti sta davanti si chiama Brett Favre battere i piedi può passare per blasfemia.
Infine, proprio quando tutte le tessere del domino giacevano inermi sul suolo, ecco che Favre in quattro quattr’otto allestisce un circus mediatico mettendo Rodgers nella posizione più difficile in assoluto, trasformandolo in nemico pubblico numero uno in quanto colpevole d’esistere.

Tutto questo, però, appartiene a un passato che per quanto immeritatamente doloroso possa essere resta passato.
L’unica cosa che conta, adesso, è un’asettica data, lunedì otto settembre 2008, il giorno in cui la visita dei Minnesota Vikings a Lambeau Field regalerà un contesto alla prima da titolare di Aaron Rodgers in National Football League.
Esordire contro una rivale di division non è mai banale, figuriamoci in circostanze simili.
Per la prima volta dal 20 settembre 1992 a condurre l’attacco dei Green Bay Packers troviamo qualcuno che non risponda al nome di Brett Favre.

Il suo primo snap si conclude con un umile guadagno di tre yard grazie a una ricezione a centrocampo del tight end Donald Lee che per un niente non riesce a eludere il suolo e regalargli qualcosa di ben più consistente.
Il primo drive, anche a causa di una trattenuta, si spegne con un anonimo punt.
Il primo touchdown (da titolare) arriva nel secondo quarto: 3&goal sulla goal line, la play action fake non sortisce gli effetti desiderati ma Rodgers, con freddezza e lucidità, naviga nella tasca quel tanto che basta per connettere con il fullback Korey Lane che, onore al merito, completa una ricezione tutt’altro che banale.

Il secondo, invece, arriva nel momento più importante della partita, a una manciata di minuti dal fischio finale con Green Bay sopra solamente di cinque punti: una corsa da 57 yard del sottovalutato Ryan Grant apparecchia la tavola a Rodgers che, con una sola iarda a separarlo dalla end zone, opta per un affidabile quarterback sneak che gli vale sei punti e il primo – di tanti – Lambeau Leap della carriera.

Il meritato spike dopo il primo rushing touchdown in carriera.

24 a 12 Packers a sei minuti dal termine, è praticamente finita.
Il punteggio finale recita 24 a 19 ché nel frattempo Adrian Peterson è riuscito ad accorciare le distanze, ma non è questo il punto.
Seppur non spettacolare, completando 18 dei 22 passaggi tentati per 178 yard e due touchdown totali Rodgers si è dimostrato concreto e affidabile evitando errori assolutamente normali per un de facto rookie.
Non basta un’anonima vittoria di settembre per cancellare tre lustri di storia, ma in luce di quanto successo negli ultimi mesi un esordio del genere non può che far ben sperare per il futuro.

Se l’esordio può essere definito solido per parlare della prestazione di Week 2 contro i Detroit Lions siamo costretti a sfoderare aggettivi ben più lusinghieri, in quanto il 48 a 25 finale è stato reso possibile da una prima metà da tre touchdown di un Rodgers molto più vicino a quello che avremmo avuto modo di conoscere negli anni a venire che all’attempato rookie con tutta la pressione di questo mondo sulle proprie spalle.
Inizio esaltante e rassicurante, non c’è che dire.

L’entusiasmo iniziale viene però annacquato da una striscia di tre sconfitte consecutive che risveglia sia quarterback che squadra da quello che sembrava essere a tutti gli effetti un sogno.
Arrivati al bye sul 4-3 dopo aver surclassato Peyton Manning e gli Indianapolis Colts, la stagione dei Packers scivola nel baratro e si spegne con due misere vittorie nelle ultime nove partite – fra cui un roboante 37 a 3 su quei Chicago Bears che nel corso degli anni sarebbero diventati la sua vittima prediletta.
Il 6-10 finale, per una squadra che solamente l’anno prima era arrivata a tanto così dal Super Bowl, potrebbe essere visto come clamoroso fallimento, ma sviscerando le sconfitte si può notare che sette delle dieci totali siano arrivate con uno scarto inferiore/uguale ai quattro punti: con un po’ più di esperienza…

Non sorprendentemente il 2009 è un successo clamoroso.
L’attacco dei Packers fila che è un piacere e le vittorie quasi raddoppiano, da 6 a 11 nel giro di una misera offseason. Il reparto guidato dal numero 12 si afferma come il terzo migliore della lega segnando quasi 29 punti a uscita, un numero che lascia poco all’immaginazione.
Rodgers, dal canto suo, potrebbe essere definitivamente riuscito a scrollarsi di dosso l’ingombrante ombra di Brett Favre grazie a una prodigiosa stagione da quasi 4500 yard, 30 touchdown e solamente 7 intercetti, numeri insensati per un giocatore letteralmente titolare dall’altro ieri.

Andando oltre al numero di vittorie, ciò che dà maggior speranza è osservare quanto a proprio agio Rodgers si trovi in un attacco profondo e poliedrico: Ryan Grant ha guadagnato più di 1250 rushing yard, Donald Driver e Greg Jennings hanno infranto il muro delle mille yard e il giovane Jermicheal Finley si è affermato immediatamente come uno dei tight end più affidabili della lega.
La difesa, guidata da Pro Bowler come Clay Matthews, Charles Woodson (NFL Defensive Player of the Year) e Nick Collins, ha concesso meno di venti punti a partita guadagnandosi un posto nella top ten per scoring defense.

Poco male se ai playoff contro gli Arizona Cardinals questa si è squagliata concedendone più di cinquanta, il futuro a Green Bay è serenamente roseo e si può respirare di nuovo, la transizione fra Favre e Rodgers non poteva andare meglio: in due stagioni al front office sono stati forniti sufficienti elementi per deliberare non solo di avere fra le mani un franchise quarterback, ma addirittura un individuo capace di non far rimpiangere la leggenda che lo ha preceduto.

A volte la delusione altro non è che una necessaria tappa obbligatoria verso la vera felicità.

Statisticamente parlando, i primi due anni da titolare di Aaron Rodgers non hanno (quasi) precedenti.
Nel primo biennio in NFL, Drew Brees ha lanciato più intercetti che touchdown.
Peyton Manning ha stabilito il record per intercetti lanciati da un rookie, un ineguagliabile 28 che probabilmente lo accompagnerà in tomba.
Brett Favre, giusto per restare in casa, ha sì lanciato 37 touchdown, ma ignorare i 37 intercetti sarebbe intellettualmente pigro.
Ha senso paragonarlo solamente a Dan Marino e Kurt Warner – il primo MVP da sophomore, il secondo MVP al primo anno da titolare: compagnia piuttosto incoraggiante visto che si sta parlando di due Hall of Famer.

Il beffardo esito del 2009, non può e non deve sminuire quanto fatto da lui e i Packers, destinati a un futuro ricolmo di soddisfazioni prima di quanto anche il più ottimista dei tifosi potesse immaginare: almeno in campo, il passaggio di consegne è stato assolutamente indolore conferendo in breve tempo irresistibile comicità alle proteste dei tifosi che hanno definito il training camp dell’anno precedente.
L’obiettivo per il 2010, molto banalmente, era quello di migliorare quanto fatto nel 2009 e, quindi, vincere almeno una partita ai playoff.

Come avrete avuto modo di notare, in questa storia nulla va mai come dovrebbe.
Nel season opener contro i Philadelphia Eagles il fondamentale Ryan Grant rimedia un infortunio alla caviglia che lo toglie dall’equazione per il resto della stagione. Due sconfitte consecutive ai tempi supplementari contro Redskins e Dolphins li gettano su un pericoloso 3-3 che in nessuna lingua rima con miglioramento.
Due elle del genere potrebbero scalfire le sicurezze della più navigata e stoica delle squadre, figuriamoci di quella con il secondo roster più giovane della lega. Hanno disperato bisogno di una svolta, una vittoria, un touchdown o anche una singola giocata capace di infondere tranquillità e consapevolezza a chiunque davanti al primo vero bivio della carriera da titolare di Rodgers.

In programma per Week 7 c’è la visita dei Minnesota Vikings di Brett Favre, nel frattempo macchiatosi del più grave dei delitti indossando il viola vichingo: nel 2009 Rodgers era uscito a testa bassa da entrambi i testa a testa con il proprio predecessore.
Una vittoria trascenderebbe i limiti di un banale +1 nella colonna delle doppievù, è esattamente ciò che ha prescritto il dottore per lenire i legittimi dolori all’autostima collettiva, quella di Rodgers in primis.
In una serata non particolarmente esaltante né per Rodgers né per Favre, a spuntarla è stato il primo, bravo e al contempo fortunato a commettere meno errori del suo mentore (controvoglia): il 28 a 24 finale è la prima tappa di una serie di quattro vittorie consecutive nelle quali la difesa concede in media 8.5 punti a partita.

Contro Jets, Cowboys e nuovamente Vikings i Packers imbarcano la miseria di 10 punti. Il “ritorno” con i Vikings sembra volerci suggerire il destino di questa squadra visto che Rodgers si toglie la più grande soddisfazione della carriera – fino a quel punto – annientando Favre davanti al suo nuovo pubblico di casa.
L’esagerato 31 a 3 finale è impreziosito da quella che può essere tranquillamente definita come la miglior partita di Rodgers fra i professionisti: più di 300 yard, quattro touchdown su lancio e zero turnover alla faccia di un Favre tenuto a bocca asciutta da un reparto difensivo che l’ha costretto a due turnover e un putrido 4 su 15 su terzo e quarto down.

Succede niente se poi chiudono la stagione con lo stesso 3-3 con cui l’hanno aperta, il fatto di aver vinto quattro partite consecutive contro avversarie di livello e di aver esorcizzato demoni di un passato così vicino da mischiarsi quasi al presente è tutto ciò di cui hanno bisogno in vista dei playoff.
Sanno di potercela fare, l’hanno già fatto.
Per arrivare fino in fondo è necessario vincere quattro partite di fila e non importa chi troveranno sul proprio cammino, nulla può eguagliare un filotto aperto e chiuso da testa a testa con Brett Favre.

Molto semplicemente, rivincita.

Il loro cammino ai playoff si apre con una buona vittoria contro i Philadelphia Eagles – la prima ai playoff per Rodgers -, un 21 a 16 reso interessante da un vano tentativo di rimonta dei padroni di casa sventato dal provvidenziale intercetto di Tramon Williams all’ultimo minuto.
Sul Divisional Round non c’è molto da dire, Rodgers è un cyborg che sbaglia solamente 5 dei 36 passaggi tentati segnando quattro touchdown totali, la difesa crea turnover a proprio piacimento e i Falcons vengono liquidati con un secco 48 a 21.

Il Championship Game, giustamente, è contro i Chicago Bears a Soldier Field.
Un nuovo capitolo nell’infinita storia fra le due squadre che, letteralmente nel corso di secoli, hanno dato vita alla più grande rivalità nella disciplina.
I Bears sono famelici, il loro reparto difensivo è in grado di imbrigliare qualsiasi attacco e, con Jay Cutler under center, offensivamente si limitano spesso a un compitino che pur lasciando molto a desiderare ha regalato loro grandi soddisfazioni per tutta la stagione.

La partita è fisica, convulsa e ricolma d’errori, esattamente ciò che ci si potrebbe aspettare da un Packers-Bears di gennaio: saranno gli episodi a deciderla.
Con Green Bay scappata a fatica sul 14-0, ecco che all’inizio del terzo quarto Cutler rimedia un infortunio al ginocchio su cui però i Bears non si sbilanciano. Opinionisti e tifosi inondano i social media di scetticismo, Cutler deve tornare in campo, non può marcire in panchina nella partita più importante della stagione per un infortunio indefinito – distorsione di un legamento del ginocchio – che a momenti fa passare in secondo piano la giocata più importante della partita.

Green Bay è in red zone e, in luce dell’infortunio di Cutler, andare sopra di tre possessi garantirebbe loro la vittoria, ma ecco l’inaspettato colpi di reni della difesa dei Bears: Urlacher intercetta un lancio di Rodgers rivolto a Driver e ha la strada spianata per la pick six che rimetterebbe tutto in discussione.
Rodgers, con l’incoscienza che solamente i sensi di colpa sanno evocare, si lancia all’inseguimento dell’avversario e dopo una quarantina di yard riesce fortunosamente ad atterrarlo: per un pelo.
Una delle partite meno convenzionali che possiate vedere viene chiusa da una pick six di B.J. Raji, defensive tackle di più di 150 chilogrammi: il 21 a 14 finale vale ai Packers il primo Super Bowl dal lontano 1997, quando Elway riuscì finalmente a mettere le mani sul Lombardi che lo aveva eluso per tutta la carriera.

Ad aspettarli ci sono i Pittsburgh Steelers, o se preferite la miglior difesa – con distacco – della lega.
Questi Steelers più che una squadra sono un’esperienza, giocare contro di loro è un qualcosa a cui non puoi prepararti con meticoloso studio e allenamento: davanti a fenomeni generazionali come Troy Polamalu e James Harrison puoi solamente inginocchiarti e pregare che per qualche motivo non siano in giornata.
Il problema di questa squadra, però, risiede nella profondità, in quanto menzionare i soli Polamalu e Harrison costituirebbe una gravissima mancanza di rispetto nei confronti di “gregari” di lusso come Brett Keisel, LaMarr Woodley, Lawrence Timmons, James Farrior, Ryan Clark e Ike Taylor.

L’attacco, guidato da Ben Roethlisberger, è efficiente e completo e può contare su una batteria di ricevitori di primissimo livello come Mike Wallace, Hines Ward, Antwaan Randle El, Heath Miller e gli ancor acerbi Emmanuel Sanders e Antonio Brown.
Rashard Mendenhall, re incontrastato del backfield, è una macchina da touchdown e si può tranquillamente definire Pittsburgh come squadra completa sotto ogni punto di vista.

Temprato da tre anni e una notte che definire da incubo sarebbe un eufemismo, Aaron Rodgers è pienamente consapevole di trovarsi a una sola vittoria di distanza dalla più grande rivincita della propria vita.
Quel maledetto Lombardi gli darebbe la mai banale occasione di guardare dritto negli occhi il proprio passato e riderci in faccia, ogni singolo momento di sofferenza, ogni singola tribolazione e delusione come per magia verrebbero accorpati nella locuzione “origin story” che dona vita e umanità a ogni eroe trasformandosi in qualcosa di dialetticamente necessario.
No, tutto quello che ha passato non era necessario, ma una vittoria gli darebbe la pace dei sensi tipica di chi sa di aver avuto ragione.
Solo lui può comprendere pienamente il significato di una partita che vale molto più di un Super Bowl.

Nel 31 a 25 con cui i Packers sono sopravvissuti ai continui tentativi di rimonta degli Steelers intercettiamo un fedele riassunto di tutto quello che è Aaron Rodgers. Troviamo statistiche sempre e comunque scintillanti, lanciare più di 300 yard e tre touchdown senza commettere alcun turnover contro questa difesa non è un qualcosa alla portata di tutti.
In alcuni lanci troviamo la classe cristallina che lo ha reso uno dei più prolifici e brillanti lanciatori di palloni nella storia della lega. Per esempio l’arcobaleno da quasi 30 yard lanciato a Nelson per aprire le danze o il proiettile per il primo touchdown di Greg Jennings. O quello, sempre per Jennings, con cui ha convertito un fondamentale terzo down nel drive che ha di fatto chiuso i giochi.

Alla fine ha avuto ragione lui.

La sua consacrazione va ben oltre il Lombardi condito da un sempre apprezzabile Super Bowl MVP.
Nello stesso intervallo di tempo trascorso alle spalle di Favre, Rodgers è riuscito a conquistare definitivamente uno spogliatoio, una franchigia e una città intera permettendo loro di venire a patti con l’amaro epilogo della tenuta Favre. In tre anni si è affermato come uno dei migliori quarterback della lega, un motivato conquistatore che ha riportato a casa un trofeo che, considerando il livello di chi lo ha preceduto, mancava da troppo tempo.

Green Bay vive in simbiosi con i Packers e dei Packers in astinenza di Lombardi condannano la popolazione locale all’infelicità, a un senso di vuoto che da fuori è impossibile comprendere. La partita dei Packers, d’autunno, può essere vista come la continuazione della santa messa mattutina e aver pregato invano tutti quegli anni avrà fatto sorgere dubbi anche al più fedele dei tifosi.
Restituirvi l’importanza di quel Super Bowl per quarterback e città è un qualcosa che la mia penna invisibile non è in grado di fare.

Un quarterback si può definire arrivato solo quando ha condotto la propria squadra fino in fondo, ma in questo caso più che della rivincita di un quarterback stiamo parlando della rivincita di un essere umano umiliato al punto di mettere in dubbio qualsiasi cosa, sé stesso in primis. In silenzio, con timida convinzione, Rodgers ha atteso il proprio momento con disumana pazienza: l’unico vero ostacolo era ricevere un’opportunità, non sfruttarla nel migliore dei modi.
L’arco narrativo di Aaron Charles Rodgers si può considerare chiuso, ora se ne sta per aprire un altro, se possibile ancora più interessante: c’è il materiale umano necessario per dominare e dare vita a una dinastia che renderebbe fiero Vince Lombardi.
Nelle prossime puntate, cari lettori e care lettrici, inizierò a parlarvi di rimpianti.

One thought on “Quando Aaron Rodgers ha conquistato Green Bay e la NFL in soli tre anni

  1. L’ultima parte che non ho vissuto in prima persona: un racconto sempre gustoso.

    Adesso si dovrebbe arrivare a quella stagione da 15-1 che ha segnato il mio ingresso nel mondo football. Non vedo l’ora: perché è bello sentirsi raccontare qualcosa che non si conosce, ma forse è ancor più piacevole rinfrescare qualcosa che si è vissuto in prima persona.

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