A imperfetti civili come noi comprendere le motivazioni di un atleta risulta spesso complicato, se non addirittura impossibile. Gli eroi nascono dal conflitto, è risaputo, ma quanto accaduto ad Aaron Rodgers durante la notte del draft oltrepassa i limiti fissati dalla parola “conflitto”.
Un ventiduenne non può avere i mezzi per metabolizzare un’umiliazione del genere, ma c’è di più. Infatti, non solo gli è stato calpestato, accartocciato e gettato nel cestino l’ego in mondovisione, ma un breve ragionamento sulla situazione dei Green Bay Packers ci mette davanti all’incontrovertibile fatto che non potesse capitare in un contesto peggiore.

“Il quarterback più pronto alla NFL” disponibile al draft potrebbe essere costretto a pazientare per uno, forse due o addirittura tre anni prima di essere eletto titolare. Un’indefinita eternità nella quale alimentare i nuovi e numerosi dubbi.
Prima di andare avanti, però, è imprescindibile soffermarsi un attimo su Brett Favre in modo da carpire la sua incommensurabile importanza nella storia dei Green Bay Packers.

Se una microscopica città che fatica a superare le centomila anime è diventata l’ufficiosa capitale del football americano lo si deve principalmente a Vince Lombardi, mitologica icona che fra 1959 e 1967 ha trasformato i Green Bay Packers nella prima grande dinastia di una National Football League fresca di fusione con l’American Football League.
I tre titoli consecutivi – fra cui i primi due Super Bowl – vinti fra 1965 e 1967 costituiscono tutt’oggi un’impresa che nessuna squadra ha mai saputo replicare.
Dopo il suo addio, però, Green Bay è precipitata nella più desolante mediocrità riuscendo a vincere solamente una partita di playoff fra 1968 e 1992: l’ethos di un’intera città preso a schiaffi da una serie interminabile di anonime stagioni che hanno reso i Packers una semplice squadra di football americano, non la squadra di football americano.

Arrivato in Wisconsin come reietto radioattivo, Brett Favre ci ha messo veramente poco a ridare speranza alla sua nuova casa. Al secondo anno ha regalato loro la prima vittoria ai playoff dal 1982. Al quinto ha riportato a casa il Lombardi dopo ben ventinove anni d’attesa. Fra 1995 e 1997 si è tolto l’ineguagliata soddisfazione di vincere tre MVP consecutivi.

Favre ha riportato a casa un Lombardi esule da quasi trent’anni.

Definirlo leggenda non renderebbe giustizia a un individuo amato in primis per la propria genuina umanità: sempre una persona, mai un personaggio. Collocarlo su un piano del reale superiore a quello che noi tutti condividiamo costituirebbe un grave torto nei suoi confronti.

Le striminzite dimensioni di Green Bay hanno permesso ai tifosi di stringere con Favre un rapporto che sfugge alle logiche del normale rapporto fra giocatore e fanbase, il numero 4 non era solo il miglior giocatore di una squadra (grazie a lui) perennemente competitiva, era letteralmente il volto della città.
La sua bonarietà, spensieratezza e perenne voglia di scherzare gli hanno permesso di fare breccia nel cuore di chiunque, conferendo una rinfrescante legittimità a rapporti personali che, in città come New York o Dallas, nemmeno esisterebbero.
Si può quasi parlare di fanatismo religioso, con l’unica differenza che in questo caso il fedele ha sempre a portata di mano la propria divinità con la quale scherzare e scambiare due parole agli allenamenti o alle tante cene sociali.

Aaron Rodgers da Chico, California, non solo è chiamato a succedere al salvatore di una franchigia e una città intera, ma pure a non farlo rimpiangere.
La mossa del front office non può che essere definita empia, un vero e proprio affronto a quello che più fonti hanno definito essere il giocatore più importante nell’ultra-decorata storia dei Green Bay Packers.
Definire il loro rapporto gelido sarebbe un eufemismo. Favre sa fin troppo bene perché Rodgers sia lì e, molto umanamente, mette subito in chiaro che fare da mentore al ragazzo che eventualmente lo avrebbe estromesso dal gioco al quale ha devoluto l’intera esistenza non sia un qualcosa contemplato nel suo contratto: è a Green Bay per giocare, non per insegnare.

Lo sguardo di Brett Favre. Osservatelo.

I Packers chiudono il 2005 con un catastrofico 4-12, o se preferite il peggior record dal 1991, l’anno prima dell’arrivo di Favre. Nonostante il disastro, Rodgers è relegato in panchina e deve accontentarsi di qualche inutile snap qua e là: nella propria stagione da rookie il pallone lascia la sua mano destra solamente in 16 occasioni.
Nel 2006 i Packers raddoppiano il numero di vittorie, tuttavia un anonimo 8-8 non basta a garantir loro il ritorno ai playoff. Per Rodgers la situazione resta immutata, i passaggi tentati quest’anno scendono a 15, ma la più grande novità non viene dal campo, ma dalla panchina. Dopo il disastro del 2005 il front office ha messo alla porta Mike Sherman andandosi a prendere Mike McCarthy, offensive coordinator di quei San Francisco 49ers che l’anno precedente preferirono Alex Smith ad Aaron Rodgers.

Fra gli innumerevoli colloqui pre-draft, fu la chiacchierata di quarantacinque minuti con Mike McCarthy a convincerlo che sarebbe diventato il nuovo quarterback dei San Francisco 49ers: la stima, in questo caso, è più che reciproca visto che lo stesso McCarthy disse di non essere mai rimasto così impressionato da un prospetto in uscita dal college.
Il titolare è ancora Favre, ma la musica è cambiata.

Rodgers viene forzatamente iscritto alla scuola per quarterback tenuta da McCarthy che, più volte a settimana, prende in ostaggio il proprio quarterback del futuro anche per sei ore consecutive trasmettendogli tutto ciò che serve per avere successo nella posizione più complicata nell’intero universo sportivo.
I due lavorano su tutto, sulla meccanica di lancio, sulla lettura delle difese, sulla coordinazione fra mani e occhi, su qualsiasi minuzia possa aiutare Rodgers a trasformarsi nella miglior versione di sé stesso e avere successo fra i professionisti.
I risultati, questa volta, arrivano subito in quanto durante la preseason Rodgers appare nuovamente sicuro di sé e a proprio agio, seppur consapevole che avrebbe dovuto pazientare ulteriormente per la propria occasione da titolare nelle partite che contano.

La sinergia fra Rodgers e McCarthy deve aver evidentemente pizzicato le corde giuste in Favre che, dopo due annate atroci, torna a essere Brett Favre trascinando Green Bay a un ben più familiare 13-3.
Prima del Divisional Round, Favre mette le mani avanti rimarcando il desiderio di giocare (almeno) un’altra stagione, dichiarazione tutto sommato comprensibile se si tiene presente il record dei Packers: i Seahawks, nel mentre, vengono demoliti 42 a 20.
Il sogno tuttavia sfuma sul più bello, al secondo snap dei tempi supplementari dell’NFC Championship Game contro i New York Giants, quando Favre sparacchia un intercetto che apparecchia la tavola per il piazzato della vittoria di Lawrence Tynes.

Brett Favre esce per l’ultima volta dal campo che ha contribuito a rendere nuovamente il centro del mondo NFL.

Un campionato del genere, indipendentemente da quanto beffardo e duro da digerire possa essere stato l’esito, non rima con pensionamento: Favre ne ha ancora. Non è un caso, poi, che abbia tirato fuori dal cilindro una stagione à la Favre proprio quando ha potuto toccare con mano il supporto a Rodgers del nuovo coaching staff.
La semplice presenza di Rodgers e l’inesorabile avanzare del tempo – 38 anni – avrebbero dovuto rendere indolore la transizione sia per i tifosi che per Favre stesso, ma sarebbe sciocco pensare che togliere il football a una persona catapultata su questo pianeta esclusivamente per lanciare spirali sia un qualcosa di semplice e indolore, soprattutto dopo un’annata del genere.

Rodgers, dal canto suo, si è comportato da perfetto professionista, rispondendo presente le poche volte che è stato interpellato, facendo da cheerleader ai titolari e non creando mai problemi con dichiarazioni che, una ventina d’anni dopo, sarebbero diventate il suo marchio di fabbrica insieme alle Hail Mary.
Il 2008 deve per forza di cose essere il suo anno, dopo tre stagioni trascorse a marcire in panchina il front office in primis ha bisogno di tastare i progressi di Rodgers in contesti più competitivi di quanto lo possano essere gli allenamenti.
Da salvatore della patria, Hall of Famer capace di impossessarsi di circa ogni record nella propria posizione e autentico eroe popolare a presenza scomoda da spingere al ritiro: ci sono tutte le premesse per una guerra civile.

Il forzatamente cordiale ma asettico rapporto fra i due può essere riassunto da una dichiarazione di Rodgers rilasciata durante un’intervista per il suo documentario E:60 prodotto da ESPN.
Quando gli è stato chiesto quanto d’aiuto sia stato Favre durante l’infinito tirocinio, Rodgers si è limitato a dire che aver avuto l’opportunità di osservarlo da bordocampo sia stato immensamente utile per lui: osservarlo a bordocampo, un’azione che non prevede né alcun tipo di interazione fra i due né uno sforzo tangibile di Favre d’essergli d’aiuto. Quando la vita ti dà limoni…
Uno in campo, l’altro forzatamente fuori a tentare di ricavare il meglio da una situazione che avrebbe distrutto l’autostima di chiunque, figuriamoci quella d’un ragazzo che in una sola notte ha visto anni di lavoro essere spietatamente sbugiardati da uno scivolone in mondovisione.

Il rischio di perdere Rodgers senza prima avergli dato un’opportunità di dimostrare il proprio valore sta diventando sempre più concreto, non c’è più tempo per assecondare l’umanissima indecisione di Favre, o all-in prima di marzo o pensionamento immediato.
Anni di flirt più o meno convinto con il ritiro – era da almeno un lustro che Favre gli era associato – avevano esasperato il front office che, una volta finita la stagione, era pronto recidere il cordone ombelicale.
Il 4 marzo 2008, fra lacrime e frustrazione, Brett Favre annuncia il proprio ritiro: a Green Bay s’è conclusa un’era, un’era scandita da gioia, competitività e rimpianti – non potrebbe essere altrimenti quando un tre volte MVP vince solamente un Super Bowl.
Dopo tre anni e una notte di draft, è finalmente arrivato il momento di Aaron Rodgers.

Se qualcosa in questa storia fosse semplice, non starei provando a raccontarla.
Dopo un paio di mesi, a ridosso dell’apertura dei training camp, cominciano a emergere report su contatti fra Favre e front office dei Packers riguardo un possibile ritorno del numero 4 che, nei pochi giorni da pensionato, ha evidentemente avuto modo di rinnovare i voti con il football americano e deliberare che sì, ha ancora voglia di gridiron.
Come nel caso di Renzo e Lucia, però, per convolare a nozze non basta la semplice volontà dei due innamorati, c’è un ginepraio di variabili esterne e antagonisti a rendere narrabile un conflitto che apparentemente non genera solamente gli eroi, ma pure amori.

A Green Bay, dal nulla, è nato un vero e proprio circus mediatico.

Gli antagonisti, se così li possiamo definire, sono il front office dei Packers e, suo malgrado, Aaron Rodgers, per l’ennesima volta vittima delle circostanze.
Favre vuole tornare a condurre l’attacco dei Packers e rivendicare, riconquistare e difendere il proprio habitat naturale, ossia dietro un centro pronto a consegnargli lo snap.
Come potete facilmente immaginare il front office dei Packers non ne voleva sapere, infierire ulteriormente sul martoriato ego di Rodgers avrebbe definitivamente estinto anche la più flebile speranza che potesse trasformarsi in un quarterback titolare funzionale.
La riconoscenza, nel mondo dello sport, segue logiche tutte sue, specialmente se si parla di un quarterback: grazie di tutto Brett, di cuore, ma il 2008 appartiene ad Aaron.

In pochissimo tempo la situazione degenera in un imbarazzante impasse reso interessante da una no-trade clause che, di fatto, gli dava sufficiente potere contrattuale da tenere in ostaggio i Packers.
Con la bonarietà che lo ha reso iconico arriva addirittura a minacciarli di presentarsi al training camp, eventualità che qualora dovesse concretizzarsi complicherebbe la posizione di Rodgers con lo spogliatoio e i tifosi: suo malgrado, Rodgers è l’ostacolo che separa Favre dal ritorno alle armi e preparare la prima stagione da titolare trafitto da una spada di Damocle del genere è tutt’altro che ideale.

Nel picco della psicosi, dopo un mese di braccio di ferro, si vocifera che il presidente Mark Murphy, per convincerlo a restare a casa, sia disposto a offrirgli un accordo di marketing da venti milioni di dollari, una foltissima mazzetta per addolcire la pillola del ritiro forzato.
Favre, con l’ostinazione che lo spingeva a cercare le mani del proprio ricevitore anche se triplicato, non ne vuole sapere: o campo, o campo. Un ripetitivo aut-aut senza apparenti soluzioni.
Rifiutata l’Hail Mary, le voci di una possibile trade cominciano a intensificarsi e, visto lo stato attuale delle cose, questo sembra essere l’unico epilogo che possa permettere a Green Bay di restare fedele al proprio piano con Aaron Rodgers protagonista.

Al termine di un’asta così convoluta e frivola che per renderle giustizia servirebbe una serie d’articoli a sé stante, a Favre viene data un’ulteriore opportunità di vestire di verde una ventina scarsa di domeniche all’anno: Brett Favre è il nuovo quarterback dei New York Jets.
Rodgers, senza nemmeno muovere un dito, s’è visto i già diffidenti tifosi voltargli le spalle inscenando una mezza insurrezione durante il training camp: loro, più per riconoscenza che per dubbi su Rodgers, esigevano Favre under center per il 2008.
Ogni singolo allenamento era accompagnato da ben scanditi «WE WANT BRETT» che si levavano a più riprese dagli spalti, non proprio ciò che un ragazzo colpevole solamente d’esistere meritava in quel momento, non dopo quanto successo al draft, non dopo tre anni d’apprendistato.

I tifosi

I tifosi ci hanno messo poco a decidere chi sostenere.

Con i dubbiosi occhi di tutto il mondo ancora una volta puntati, Rodgers sta silenziosamente preparando l’esordio da titolare contro i Minnesota Vikings l’8 settembre.
Nessuno poteva aver idea di ciò che stava per accadere.

9 thoughts on “Fra attesa e (quasi) guerra civile: i primi anni di Aaron Rodgers ai Packers

  1. Ecco, divorata anche la seconda puntata…..
    Sono già in astinenza della prossima :-)
    Grazie Grande Mattia.

  2. Complimenti, bel racconto ben scritto, di quelli che speri non finiscano. Non vedo l’ora di leggere il resto.

    • Grazie mille, per almeno tre (anche quattro) lunedì sai dove trovarmi :)

  3. Sembra il meccanismo delle vecchie serie tv: interrompo sul più bello e voi dovete aspettare una settimana per sapere come prosegue!

    Bellissimo racconto, perché interseca due storie: quella di Rodgers e quella di Favre, che purtroppo non ho visto giocare per un pelo (ha smesso pochi mesi prima che io iniziassi a seguire la Nfl).

    • Grazie mille fratello mio, sono felice che tu abbia apprezzato la contrapposizione Favre-Rodgers, a un certo punto mi era venuto il dubbio di aver esagerato con lo spazio dato a Favre (è pur sempre un racconto su Rodgers, no?), sono felice che ti sia piaciuto!
      Grazie mille :)

  4. Bellissimo articolo. Certo che pensare che 16 stagioni di Favre e 15 di Rodgers (se non sbaglio i calcoli) abbiano prodotto “solo” 2 anelli fa impressione

    • Grazie mille Carlo!
      31 anni, 7 MVP in due, due Lombardi: non il massimo, se devo essere sincero.

  5. Idea geniale per un racconto molto ben cadenzato e coinvolgente, a saga ultimata me lo rileggerò sicuramente. Chapeau!

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