Cari tutti e care tutte, vi scrivo in corsivo perché è ciò che fanno quelli bravi quando vogliono interloquire direttamente con il lettore.
Questa serie d’articoli – non sono ancora sicuro circa il numero totale – andrà a ripercorrere la complessa e tribolata tenuta di Aaron Rodgers ai Green Bay Packers, poco meno di un ventennio di gioie, guerre intestine e incomprensioni, un rapporto così tridimensionale che non scriverci sopra sarebbe un vero peccato, soprattutto in un momento d’insopportabile bonaccia come quello che stiamo nostro malgrado attraversando.
Non sono solito chiederlo – e mi imbarazza farlo -, ma ci terrei mi deste un feedback ché per me quello dello storytelling è un mondo relativamente inesplorato nel quale, visto i tempi in cui viviamo, vorrei ambientarmi organicamente: siate schietti, non c’è alcun problema, anzi, mi fareste un enorme piacere.
Gente che ne sa mi ha assicurato che per farcela nel mondo del giornalismo mi ha messo davanti al fatto che di questi tempi “raccontare” sia esponenzialmente più importante che “informare” e siccome sono esasperato dal mio orribile, noioso e sterile lavoro… sì, come no.
In ogni caso, proviamoci.


Quest’epopea non può che partire dal Javits Center di Manhattan che nel 2005, dopo un decennio di monopolio, riuscì a strappare il draft NFL dai tentacoli del Madison Square Garden.
Ogni anno, i veri protagonisti del draft NFL non sono né i giocatori né le squadre, ma i cliché. La narrazione di questo evento è sorretta e alimentata da cliché distinguibili l’uno dall’altro esclusivamente grazie ai vari nomi dei giocatori.
Fra gli innumerevoli cliché ne spicca uno che puntualmente finisce per sovrastare tutti gli altri guadagnandosi prime pagine e una copertura mediatica oggettivamente esagerata: il giocatore inspiegabilmente snobbato che si rende protagonista di uno scivolone così clamoroso e inaspettato che l’intera narrazione dell’evento verterà inevitabilmente attorno a quel giocatore, con la buona pace degli altri.
Chi lo selezionerà?
Quando sarà selezionato?
Perché, dal nulla, è come fosse diventato un appestato?

La storia pullula di esempi. Il più recente è quello di Will Levis, padrone incontrastato della prima notte di Kansas City. Ci sono poi i vari Lamar Jackson, Randy Moss e Dan Marino, anche se nessun caso può essere paragonato a quello di Aaron Rodgers, a 22 anni d’età protagonista di una delle più grandi umiliazioni mai trasmesse in mondovisione.
Nel caotico processo che precede il draft è il caos a farla da padrone, quindi è fisiologico che un prospetto particolarmente incensato dai media finisca per sbattere la faccia contro il crudo muro della realtà trovandosi costretto a sopravvivere a un’interminabile – e inspiegabile – attesa per sentire il commissioner scandire il suo nome.

Nato a Chico e in uscita da Cal Berkeley, era tutto apparecchiato per il suo approdo ai San Francisco 49ers, da troppo tempo irrilevanti per non mancare di rispetto allo standard edificato da Joe Montana e Steve Young.
Era tutto perfetto, l’hometown hero che trascina fuori dalle sabbie mobili della mediocrità la squadra della sua città – stato, in questo caso -, il quarterback capace di garantire un futuro di stabile competenza e competitività: purtroppo, però, Super Bowl e draft sono separati da circa tre mesi, tre mesi nei quali, vuoi per scrupolosità o per noia, si sovrananalizzano quelli che prima di tutto sono ragazzi che, in quanto tali, necessitano di tempo. Tempo per maturare, per conoscersi, per diventare adulti bilanciati e funzionali.

Il principale problema di Aaron Rodgers, se così si può definire, è di natura caratteriale. Chi aveva il dovere di abbozzarne un profilo psicologico scrive di arroganza, sicurezza nei propri mezzi e una meccanica di lancio così peculiare da essere definita goffa e stramba, esattamente quelli che con gli anni si sarebbero trasformati nei suoi punti di forza.
Mike Nolan, ai tempi allenatore dei 49ers, anni dopo in un’intervista rilasciata a NFL HQ avrebbe detto «Alex era proprio un bravo ragazzo – un’ottima persona, una scelta sicura, uno che prova sempre a compiacere chiunque. Aaron, invece, era molto spavaldo, sicuro di sé, arrogante. […] Le caratteristiche che definiscono i migliori quarterback: non sono compiacenti, non sono scelte sicure. […] Eravamo convinti che Alex costituisse la migliore scelta sul lungo termine».
Probabilmente con Rodgers under center la sua avventura come head coach NFL si sarebbe protratta per più di tre stagioni e spiccioli.

La poco ortodossa meccanica di lancio di Aaron Rodgers ai tempi del college.

Il giorno prima del draft, durante una conversazione con altri prospetti invitati a presenziare all’evento, Rodgers propose a ognuno di loro di scommettere dei soldi su chi sarebbe stato l’ultimo a essere selezionato al draft: se solo avesse saputo…
Parlare d’arroganza, in quel caso, non sarebbe stato appropriato, era cosa nota che Rodgers non avrebbe dovuto aspettare il proprio turno per chissà quanto, qualora San Francisco avesse scelto Alex Smith ci sarebbero stati i Browns alla tre, i Bears alla quattro e i Buccaneers alla cinque: chiunque, con il senno di poi, avrebbe avuto validissime ragioni per investirci, stiamo pur sempre parlando di un quattro volte MVP.
Chiunque, anche in tempi non sospetti, aveva ragionevoli motivazioni per selezionare un quarterback.

Al Javits Center si sono aperte le danze, San Francisco 49ers on the clock, il commissioner Paul Tagliabue, più annoiato e asettico che mai, si avvicina a grandi falcate al podio e con voce automatica annuncia la scelta dei San Francisco 49ers: Alex Smith.
È un peccato, giocare per la squadra di (quasi)casa sarebbe stato un onore anche per un ragazzo “spavaldo e arrogante”, ma poco male, come appena accennato i ‘Niners non erano l’unica squadra ragionevolmente bisognosa di un quarterback.
Il 2005, nelle logiche NFL, appartiene a un passato così sbiadito da poterlo definire obsoleto tant’è che tre delle successive quattro scelte vengono spese per running back, Ronnie Brown, Cedric Benson – riposa in pace – e Cadillac Williams: Rodgers è scivolato fuori dalla top five.
Eccola qua la storia del draft.

Le telecamere lo cercano con insistenza quasi morbosa, si accaniscono su un ventiduenne che chiamata dopo chiamata vede le proprie certezze evaporare lasciando spazio a dubbio, rabbia e puro disgusto. Tutto ciò fissando un indefinito vuoto tentando di fingere, con la più imbarazzata nonchalance che possiate immaginare, di non essere consapevole delle attenzioni delle telecamere.
La green room che ospita i migliori prospetti si svuota a una velocità vertiginosa, fortuna vuole che la scommessa da lui stesso proposta fosse caduta nel vuoto altrimenti il danno sarebbe stato accompagnato da una beffa pecuniaria, o meglio, da un’ulteriore beffa pecuniaria visto che ogni pick finisce per ridimensionare inesorabilmente le sue pretese contrattuali.

Il tavolo attorno al quale Rodgers siede con famiglia, agente e qualche amico diventa il pezzo d’arredamento più famoso al mondo, è impensabile che quello che per circa la metà degli analisti doveva essere il primo giocatore selezionato al draft sia ancora disponibile.
Del ristretto manipolo di ragazzi volati a New York per popolare la green room riservata ai migliori prospetti in assoluto è rimasto solamente Antrel Rolle a fargli compagnia: ancora per poco, però, visto che con l’ottava scelta assoluta gli Arizona Cardinals vanno a rubare a Rodgers il compagno d’umiliazione.
Il fatto che prima della scelta dei Tennessee Titans (la sesta) abbia sentito il bisogno di alzarsi e fuggire momentaneamente da quella maledetta stanza ci dice tutto quello che dobbiamo sapere sul suo stato mentale, siamo solo alla sesta scelta assoluta e Rodgers è già stremato dall’attesa, è affranto e umiliato: non può aver idea di cosa lo attenda.

I “sei della green room”: Rodgers sarebbe stato l’ultimo a uscire da quel purgatorio.

La decima scelta assoluta i Detroit Lions la spendono per il Mike Williams, un ricevitore: Aaron Rodgers è fuori dalla top ten.
A questo punto qualsiasi altro prospetto passa in secondo piano, tutti gli occhi sono puntati su Rodgers, un ragazzo che sta facendo del suo meglio per esibire stoicismo ma che, in quanto umano, non può nascondere le lacrime che vanno a gonfiargli sempre più gli occhi.
Le telecamere, bramose di dettagli, cercano di restituire allo spettatore quante più emozioni possibili. In un’era in cui la tivù si è imposta di conseguire naturalezza e spontaneità attraverso artificiosi reality show il dramma umano di Aaron Rodgers è oro colato, è tremendamente complicato trovare racchiuso in un cubo con lo schermo qualcosa d’altrettanto incontaminato e reale.

A un certo la madre Darla viene avvicinata da Wilma McNabb, madre del quarterback degli Eagles Donovan, per qualche parola di sincero incoraggiamento.
L’insistenza con cui le telecamere lo inquadrano avrà sicuramente spinto milioni d’americani a gettare nel cestino il gel per capelli, risulta impossibile non soffermarsi sull’imbarazzante capigliatura di Rodgers, così maldestra e ampollosa che se mostrate video del draft a qualcuno che non ha idea di cosa stia guardando sarebbe comunque in grado di stabilire correttamente le coordinate temporali solo grazie a quel ciuffo di cemento.
Digressione sui capelli a parte, siamo arrivati al giro di boa del primo round e Rodgers sta ancora aspettando il suo momento che, in luce di ciò che sta succedendo, non potrà essere il momento di gioia e soddisfazione che avrà simulato migliaia di volte nella sua testa.

Mike Mayock, ai tempi ancora rispettato analista, nel suo mock draft aveva associato Aaron Rodgers a dei Green Bay Packers che sedimentavano nella parte bassa del primo round in ventiquattresima posizione.
Quest’apparentemente panzana proiezione è stata in realtà frutto di uno scrupoloso studio di roster e situazioni salariali, fra squadre che non avevano bisogno di quarterback e squadre che per ragioni economiche non potevano permettersene uno, i Packers avevano tremendamente senso, a ottobre Favre avrebbe compiuto 36 anni, un’età che a quei tempi rimava ancora con pensione.
L’idea di attendere fino alla ventiquattro non faceva impazzire Aaron Rodgers, fino a qualche ora prima lucidamente convinto che non avrebbe avuto modo di imparare a memoria ogni dettaglio della green room, porto sicuro per occhi che volevano solamente sottrarsi all’insistenza delle telecamere.

Quel ragazzo da Cal Berkeley era il sogno dei Green Bay Packers, tant’è che l’allora GM Ted Thompson in un’intervista usò l’espressione “intervento divino” per spiegare all’interlocutore ciò di cui avevano bisogno per mettere le mani sul successore di Brett Favre.
Ovviamente Green Bay avrebbe rappresentato un ripiego, il “quarterback più pronto del draft” sarebbe finito a reggere la cartellina a Favre, ma arrivati a questo punto un’ulteriore umiliazione non fa la differenza, l’unica cosa che conta è porre fine alla sua miseria e liberarlo da quella maledetta stanza.
Tocca a Green Bay, dunque, Tagliabue sale sul podio e con un atipico accenno di sorriso annuncia la notizia che tutto il mondo stava aspettando perché sì, davanti a istanze così imbarazzanti mostrare empatia è l’unica azione che un essere definibile umano può fare: Aaron Rodgers è un giocatore dei Green Bay Packers.

Non sicuramente il ritratto della felicità.

Il cliché del coronamento di un sogno, almeno questa volta, non è stato rispettato. Sì, Aaron Rodgers è in National Football League, ma non si sarebbe mai aspettato di entrarci in questo modo, fra un’occhiataccia e una parola a mezza bocca dello staff del catering che stava impazientemente attendendo che se ne andasse da quella stanza per ripulire e tornare a casa.
L’unica consolazione, se proprio dobbiamo trovarne una, è che in qualche ora questo ragazzo si sia trasformato in una sorta di eroe nazionale, un underdog improvvisato elevato a sole del sistema eliocentrico dell’empatia: chiunque stesse seguendo quel draft non ha potuto esimersi dal dovere di empatizzare con lui.

La faccia e il linguaggio del corpo parlano chiaro, il sorriso è così forzato da fare tenerezza, con la maglia che sorregge controvoglia vorrebbe solo coprirsi il volto e scappare, smaterializzarsi da questo mondo che, suo malgrado, non vuole parlare d’altro che di lui. Non per le ragioni che s’aspettava, però.
Green Bay potrebbe aver trovato il successore a Favre, anche se Favre potrebbe essere la prima persona nella storia immune all’invecchiamento, basti pensare che dal 27 settembre 1992, giorno in cui gli è stata data la maglia da titolare dei Packers, non abbia mai saltato una partita: indistruttibile, inossidabile, sempreverde.

La circostanza in cui è stato catapultato – e le circostanze che hanno portato a ciò – è tutt’altro che ideale, ma se non altro l’incubo è finito, ora servirà solamente tempo per metabolizzarlo e digerirlo, probabilmente i media in un paio di giorni troveranno qualcun altro da soffocare d’attenzioni e
È ironico che il momento presumibilmente più basso della sua esistenza sia coinciso con la nascita di una vera e propria leggenda che avrebbe scritto pagine importanti della storia di una lega che in un’anonima serata primaverile sembrava volesse ripudiarlo.
È risaputo che gli eroi nascano dal conflitto e ora, anche se oltremodo imbarazzanti, Aaron Rodgers può vantare i presupposti per ritagliarsi uno spazio nell’affastellata epica sportiva.

11 thoughts on “La genesi: il travagliato arrivo di Aaron Rodgers ai Green Bay Packers

  1. Ciao Mattia, ci hai chiesto commenti, ti do il mio volentieri.
    Sei molto competente, equilibrato, sai metterci quel pizzico di autoironia che non guasta mai e, soprattutto, sei uno dei pochissimi che scrive di football senza massacrare la nostra bella lingua (capisco che sul web questo non è considerato importante … si vede che sono vecchio?). Insomma, sei quello che si suol dire “una bella penna”. Personalmente considero un vero delitto che tu non abbia la possibilità di trasformare queste doti in una (anche seconda) professione. Parlo anche nel mio interesse, sono terrorizzato all’idea che un giorno potresti anche smettere di raccontarci storie di Football. In questa pagina (ed anche in altre) ti seguiamo in tantissimi, facci sapere se possiamo fare qualcosa per darti “una spinta”.

    • Ciao Mauro, ti ringrazio per le belle parole che tuttavia non credo di meritare, non confondiamo buontempo con bravura :)
      Non avrei sinceramente idea di come tramutare in lavoro sta passione, soprattutto perché occorre essere realisti e il football americano, che ci piaccia o meno, in Italia non ha sto gran seguito quindi faccio fatica a immaginare giornali che in sto periodo storico assumano qualcuno solamente per scrivere di football – fossi specializzato in altri sport forse, ma ora come ora non mi sento in grado di parlare a NBA a un livello sufficientemente alto da meritare di essere letto.
      Poi ovviamente influiscono limiti caratteriali miei, tipo la comica incapacità di promuovermi o di conoscere gente “giusta”, ma alla fine, ripeto, non posso incolpare il mondo o le circostanze, era assolutamente irrealistico… anche se ci spero ancora, soprattutto perché sono piuttosto esaurito da un lavoro assolutamente noioso e privo di stimoli – stipendio a parte.
      Ti ringrazio ancora, stammi bene.

  2. Ho divorato l’articolo, anche perché, avendo cominciato a seguire la Nfl nel 2011, non conoscevo questa storia. Sapevo solo che i 49ers avevano preferito il buon Alex Smith a lui, ma non sapevo che fosse sceso addirittura alla posizione n. 24.

    Adesso, siccome sono sadico, vado su You tube a vedere se circola qualche video di quella serata!

  3. Ciao Mattia, sono appassionato di football da più di 30 anni e lo seguo in maniera assidua da una decina circa, da quando le reti televisive lo hanno iniziato a diffondere in maniera sempre più ampia.
    Ti do la mia opinione
    Leggo spesso i tuoi commenti e devo dire che sei molto competente e si vede che ami profondamente questo sport; devo dire che ho apprezzato di più questo racconto rispetto ai tuoi usuali articoli perché credo che tu abbia più capacità di narratore che di commentatore.
    Spesso nel commentare le partite o nelle analisi tendi a cadere nella narrazione dilungandoti in discorsi alle volte “ridondanti”..
    Credo che la maggior parte di chi legge di football veda nflredzone o almeno gli highlights su NFL.com, quindi un’analisi dettagliata la trovo superflua…concentrati sui dettagli che non si possono estrapolare dalla visione in TV.
    Prendi quanto sopra come consiglio, sei un’ottima penna quindi non mollare, continua così…sfronda nei commenti e dilungati nella narrazione
    Con affetto

    • Ciao Mauri, grazie di cuore per il commento, lo apprezzo tantissimo.
      Concordo con te, a volte fatico a capire il seguito enorme – con tutte le virgolette che un “enorme” può avere parlando di articoli sul football americano -, è infinitamente più stimolante, divertente e utile guardare gli highlights su youtube, ma alla fine, anno dopo anno, i riassunti restano in assoluto i miei pezzi più letti: è un mistero.
      Personalmente – ma mi fa piacere lo abbia notato pure te – preferisco raccontare che riportare, soprattutto perché nei riassunti o quando parli delle partite in generale hai molta meno libertà linguistica e un lessico veramente limitato, cosa che sul lungo termine dà noia e rende la scrittura dell’articolo un po’ noiosa, ma purtroppo è quello che la gente – giustamente – chiede e vuole, quindi in un certo senso sono costretto a farlo, soprattutto se il piano è quello di (provare a) farsi notare.
      Indubbiamente, però, porterò avanti sta cosa degli articoli narrativi, mi sono veramente divertito a scriverlo e a ricercare il materiale.
      In ogni caso, grazie mille per il commento!

  4. Mi inserisco tra coloro che hanno apprezzato questo articolo e sperano che la serie story telling vada avanti. Avevo già letto un tuo bellissimo articolo su Madden, pubblicato sul Foglio se non sbaglio, che mi è rimasto impresso.
    Se posso, tra le tante storie di giocatori e personaggi del mondo NFL, mi piacerebbe leggere di Jim Brown, incredibile uomo e giocatore appena scomparso.
    E poi il trichecone Reid, Belichick, Kurt Warner and the greatest show on turf, i 49ers di Montana e poi di Steve Young, Jerry Rice e Deion Sanders. O le storie di fratelli e dinastie familiari, i Manning, Watt, Kelce.
    Gli spunti non mancano, spero davvero ti vada.
    Intanto grazie per quanto scritto fin qui.

  5. Mi aggiugo agli altri commenti entusiasti anche se sono un misero fun dell’american football. Conoscendo già la vicenda al Draft alla quale aveva soggiaciuto Aaron Rodgers ma tu l’hai ridipinta di sensazioni e stati d’animo umani. Sono curioso di leggere quanto seguira’ negli accadimenti sportivi e non del QB pluripremiato. In “bassa stagione” questi Tuoi articoli mi vanno più che bene ^_^

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