Associare il vocabolo “leggenda” a un ragazzo di ventisette anni al quinto anno da titolare è ridicolo. Paradossale.
La grandezza di Patrick Mahomes, però, è anche questa: svuotare di significato le parole, costringerci a scelte lessicali tanto desuete quanto a primo acchito assurde che, con la necessaria mediazione di razionalità, finiscono per trasformarsi in dati di fatto.
Non mi credevo capace di scrivere questo articolo. Sabato è scomparsa nel nulla la mia gatta di fiducia e malgrado il mondo pulluli di «è solo un gatto» non riesco a immaginare giorni peggiori per me. Mi manca e non sta bene. È atterrata nel mio giardino che avevo 17 ed è stata uno dei pilastri della mia esistenza fino a oggi che ne ho 27. È ridicolo che il weekend del Super Bowl, il mio (il nostro) personalissimo Natale mi sia scivolato addosso così, come niente fosse.
Prima di cominciare permettetemi di scusarmi con tutti voi, soprattutto con chi mi segue su Twitter: se non commento il Super Bowl a cosa servo? Scusatemi, veramente, ma non ce l’ho fatta.

Sto riuscendo, però, a mettere insieme qualche parola ispirata su Patrick Mahomes, soprattutto dopo averlo già fatto meno di due settimane fa. La straordinarietà di Mahomes è proprio questa: gli basta una partita per costringerci a scomodare nuovi superlativi e, a questo punto, non so quanti ce ne siamo rimasti a disposizione. Quando crediamo di aver detto tutto, di non poter umanamente spiegarlo meglio succede puntualmente qualcosa che ci costringe a ritrattare le nostre ultime affermazioni.
Patrick Mahomes è bellezza nella sua forma più pura e incontaminata. Questo forzatamente nuovo Patrick Mahomes ci ha toccato delle corde che mai ci saremmo aspettati potesse solo vedere.
Siamo abituati a parlare di lui come indiscusso favorito, padrone incontrastato e prestigiatore incallito, non come underdog azzoppato. Questi playoff, oltre che ad averne rimpinguato la già sproporzionata bacheca, ci hanno restituito un Patrick Mahomes diverso, benedetto da una sana dose di pathos che altro non ha fatto che rendere ancora più dolce una vittoria già di per sé estremamente soddisfacente.

Mi trovo in imbarazzo, lo ammetto.
Scrivere parole ispirate con il vuoto nel cuore – non potete veramente capire cosa significasse per me quella maledetta gatta – è ridicolo perché l’unica cosa che vorrei fare in questo momento è isolarmi dal mondo e perlustrare ogni centimetro quadrato del mio vicinato, ma non posso esimermi dal dovere morale di tessere le lodi al più grande giocatore di football americano in attività.
Arriverà il punto in cui ci ammaleremo collettivamente di Mahomes fatigue, saremo così stanchi e annoiati dalla sua egemonia che inevitabilmente ci troveremo costretti a tifarci contro e a regalare MVP a chi non lo meriterebbe in nome della varietà. Anzi, mi permetto di dire che questa soglia sia stata varcata già da tempo perché giocare almeno il Championship Game in ogni singola annata da titolare è tanto impressionante quanto desensibilizzante.
L’infortunio patito contro i Jacksonville Jaguars gli/ci ha regalato un intrigante arco narrativo che se sviluppato fino all’unica conclusione appropriata, il Super Bowl, avrebbe elevato lo status di Patrick Mahomes a quello di vera e propria leggenda. Ve lo avevo già detto che l’eroe nasce dalla contrapposizione: la leggenda, invece, è definibile tale quando la fonte di tale contrapposizione è endogena.
Mahomes non solo ha battuto gli Eagles, ha battuto in primis battuto sé stesso.

Non che gli ostacoli davanti ai suoi occhi fossero da sottovalutare. Esorcizzare la bestia nera Cincinnati Bengals e passare su questi Philadelphia Eagles sarebbe stato più che sufficiente, ma il fato, annoiato e indisponente, ha deciso di testare la fibra morale di Mahomes erigendogli un muro in faccia: giocare a football americano su una caviglia del genere non è neanche lontanamente concepibile.
L’immensità dei playoff di Mahomes è incapsulata in una singola giocata che ci restituisce con abbacinante nitidezza la fame e l’umiltà dell’ultimo suo mese d’attività agonistica: sto ovviamente parlando della corsa da 26 yard con cui ha catapultato i suoi in zona field goal a un paio di minuti dalla fine.
Correre su una caviglia del genere è inconcepibile, l’ho già detto, anche se ciò impallidisce dinanzi al fatto che la giocata sia stata conclusa da un tackle e non da un’intelligente scivolata. Come Elway quando si trasformò in elicottero, Mahomes ha deciso di andare oltre ogni suo limite fisico in nome di una vittoria di cui aveva bisogno: pace se per un paio di settimane quella caviglia assumerà le dimensioni di un melone, il dolore fisico ha tempi di recupero più brevi rispetto a quello mentale.
Il suo unico obiettivo è quello di uscire dal campo senza rimpianti e, forse, preservarsi sacrificando un paio di yard rischiava di diventarlo: Butker aveva già sciabattato un field goal tutt’altro che proibitivo.

Ieri Mahomes ha messo in chiaro l’ovvio irrompendo nel dibattito sul GOAT. No, calma, non sto dicendo che Mahomes sia il GOAT, non siamo ridicoli, se continua così però può ambire a diventarlo.
Quest’anno il numero 15 si è reinventato e questi playoff sono l’emblema della sua adattabilità. Privato della mobilità per navigare ore nella tasca, Mahomes facendo meno ha spesso fatto di più. Fondamentale, a tale proposito, l’esplosività di un gioco di corse che fra Pacheco e McKinnon non ha avuto particolari difficoltà a produrre. Si è affidato alle proprie certezze, al play calling dei suoi maestri, a quel Travis Kelce di cui ormai abbiamo detto tutto e a una linea d’attacco adatta a partite del genere.
Quando però le certezze venivano messe in dubbio, Mahomes si è aggrappato al cuore. Il cuore di un alieno scopertosi umano. I numeri non sono certamente esaltanti – per i suoi standard – ma per una volta possiamo concederci il lusso di non doverlo valutare in loro funzione.

Per una volta non ha fatto nulla di folle, anche se averlo visto operare nella sua personale normalità è già di per sé sensazionale. Il guadagno aereo più importante è stato di 22 yard, spiccioli se si parla di Mahomes. Ieri non ha vinto sul velluto come suo solito, ha dovuto sudarsela con il coltello fra i denti. Coerente con quanto accaduto durante il resto della postseason. Contro Jacksonville ha giocato a tutti gli effetti su una sola gamba. Contro la bestia nera Cincinnati su una gamba e mezza. Contro Philadelphia su quasi due gambe con dall’altra parte il miglior roster della lega.
Dominare ti consegna alla storia, soffrire ai cuori.
Patrick Mahomes ora è a tutti gli effetti nei nostri cuori, oltre che nelle nostre teste. Non so quanti Super Bowl vincerà da qui al ritiro – ripeto, ha 27 anni – ma sarà difficile prendersene uno più gratificante.

Non doveva essere la loro stagione. Avevano perso Tyreek Hill e Tyrann Mathieu, il resto della division aveva – sulla carta – compiuto enormi passi in avanti e i Buffalo Bills non ne potevano più di arrivare secondi.
Prima hanno ristabilito le gerarchie in AFC e poi, contro una squadra agli occhi di molti nettamente favorita, vendicato quanto successo un paio d’anni fa a Tampa Bay.
Due Super Bowl in cinque anni sono tanti, anche se il numero due è piuttosto ricorrente nel suo palmares. Due MVP, due Super Bowl MVP e due figli a 27 anni. I sette (Super Bowl) di Tom Brady sono ancora lontani, ma non viviamola così per favore.
Ogni cosa a suo tempo, ora prendiamocene un po’ per celebrare un campione.

Non avevo alcuna voglia di guardare il Super Bowl. Il football americano è la mia vita – anche se non quanto vorrei, purtroppo – ma quella gatta è inarrivabile. Da dieci anni è parte della mia routine, una silenziosa ma presente compagna di viaggio che tutto vede ma nulla giudica. Non avevo voglia di guardare il Super Bowl, troppo triste e mentalmente impegnato per una maledetta partita di football americano. Twitter, per una volta, spento. Non credevo nemmeno di scrivere qualcosa, non ho voglia di niente.
Ma Mahomes questa notte, per un paio d’ore, mi ha liberato dai miei pensieri. La partenza esaltante, le difficoltà, la fuga degli Eagles e il tackle di Edwards, il sentore generale che fosse finita ché quegli Eagles erano troppo.
Con calma e freddezza Mahomes s’è ricordato di c’entrare poco con questa specie, durante il concerto di Rihanna ha aperto l’armadio e ha tirato fuori il raggrinzito mantello da supereroe. L’efficienza e l’automaticità con cui nella seconda metà ha portato a casa punti da ogni drive è semplicemente insensata. Il pass rush degli Eagles è troppo famelico per permettere a qualcuno di prenderli a sassate. Mahomes non ha battuto ciglio. La caviglia destra era irreparabilmente compromessa, kappa-o, caput. Mahomes non ha battuto ciglio.

La sua impresa, la breccia nella porta dell’immortalità sportiva mi ha regalato intrattenimento vitale nel momento di massimo bisogno. Non è stata la sua miglior partita, ma la più significativa. In una cinquantina di snap ha tappato un paio di bocche e illuminato milioni di occhi. Mi serviva una partita del genere, assistere a qualcosa di storico e Mahomes non ha deluso. Anzi, Mahomes non delude mai.
Si è ufficialmente aperta la finestra temporale per parlare di dinastia. Tre Super Bowl giocati in quattro anni competono esclusivamente a una dinastia. Mahomes ha iniziato ufficialmente l’interminabile scalata al trono di Tom Brady. È lontanissimo, quasi un miraggio, ma il tempo è tutto dalla parte del quarterback dei Chiefs. Se non altro, in un’ispiratissima postseason, si è distanziato da gente come Favre e Rodgers, talenti generazionali da plurimi MVP ma con un solo Lombardi in bacheca. Essere sempre al vertice ma vincere solo una volta è preferibile a non vincere mai, ma è indubbio che ci sia di meglio.
Mahomes si è reso conto di volere di più e con ineluttabile lucidità è andato a prendersi quello che sentiva suo.

Che ci piaccia o no siamo destinati a parlare dei Chiefs per un decennio. Esattamente come con i Patriots di Belichick e Brady, la semplice presenza di Mahomes e Reid ci basta a inserirli automaticamente nella conversazione dei favoriti. La conference passerà sempre da Arrowhead, chi vuole diventare grande dovrà misurarsi sempre e comunque con loro, non c’è scampo.
Cose del genere tendono a succedere quando di mezzo c’è un possibile GOAT. È successo con Brady, con Manning, con Bradshaw e con Montana. Ogni suo successo adesso si caricherà di valore storico, ogni suo passo in avanti coinciderà con un gradino in meno da scalare.

È stato un bel Super Bowl, nonostante tutto mi sono divertito e da quanto leggo vi siete divertiti pure voi, ora però lasciamo sedimentare le nostre emozioni: fra un paio di giorni, quando andremo a ripescarle dai nostri pensieri, sono convinto che negli occhi della nostra mente si materializzeranno i ricciolini di Patrick Mahomes.
Ieri abbiamo assistito alla sua definitiva consacrazione e ora abbiamo raggiunto il punto di non ritorno, lo status di leggenda.
È inconcepibile che uno sia già definibile come tale dopo cinque misere stagioni da titolare.

6 thoughts on “Patrick Mahomes è già leggenda

  1. Caro Mattia ti leggo sempre con enorme piacere ma troppo spesso non commento, permettermi di farlo ora per complimentarmi per il tuo encomiabile lavoro di scrittura ma soprattutto per mandarti un abbraccio virtuale per la scomparsa della tua gatta.ho appena perso, purtroppo nell’accezione esistenziale del termine, la mia cagnolina Akita di soli due anni e volevo solo esprimerti vicinanza in questo brutto momento.sii forte e grazie per il tuo contributo dato a questo magnifico sport.

  2. Accidenti, mi dispiace.

    Ma non rassegnarti. Anni fa, era successa una cosa simile a mio zio: era scomparso nel nulla il suo cane. Circa un mese dopo, incontra per strada due signori che lo portano a passeggio: in pratica, il cane era scappato dal giardino di casa, questi signori lo avevano trovato e, pensando che fosse un cagnolino abbandonato, lo avevano preso con sé. Naturalmente, lo hanno poi restituito a mio zio.

    Anche in questo caso, può darsi che la gatta sia a casa di qualcuno. Prova a chiedere in giro o ad attaccare qualche manifesto.

  3. Sport a parte dispiace tanto per la tua cara gattina. Speriamo bene. Un abbraccio a te in questo brutto momento

    • Mattia, ti capisco benissimo…anch’io adoro il football e la mia gattina…dorme ogni notte con me. Anche la mia un giorno era sparita, poi in piena notte è tornata… Tifo per lei con tutto il cuore

  4. Solo chi ha un animale, considerandolo un componente della famiglia a tutti gli effetti, può capirti. Ma siamo in tanti. Anche se non ti conosco, apprezzo molto il lavoro che fai per noi appassionati di football americano e ti sono vicino in questo momento. Non disperare. Continua a cercare, porta fuori qualcosa di casa con i vostri odori: un cuscino, un plaid, qualsiasi cosa. Non arrenderti. Metti qualche avviso di ricerca con la foto e avvisa anche il più vicino gattile. So che sono cose ovvie ma in quei momenti non scontate per chi le vive. Ti abbraccio forte.

  5. Pazzesca la sintesi del tweet. Ci sarebbe anche una valanga di record statistici, assoluti o rapportati ai 5 anni da titolare. E’ mai successo qualcosa di simile? Io non ne ho memoria.
    Mi diverte pensare a Brady ed ai brividi che inizia a sentire lungo la schiena. Neanche un mese che si è ritirato…
    Il rapporto tecnico (e soprattutto umano, sembra proprio che si vogliano bene) con Reid è magico.
    Articolo bellissimo.
    Incrocio le dita per la gatta, che torni presto ed in piena forma!

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