Questa è l’unica lega apparentemente immune agli odiosi, noiosi e sterili «te l’avevo detto». L’accecante successo dei Philadelphia Eagles, infatti, prende a pesci in faccia uno fra i miei «te l’avevo detto» preferiti, ossia che Howie Roseman fosse inadatto come general manager e che a garantirgli la sopravvivenza nel 2021 c’avesse esclusivamente pensato l’inossidabile sinergia – leggasi pure “amicizia” – con l’owner Jeffrey Lurie.

Seriamente, dopo l’addio di Doug Pederson – allenatore che come abbiamo avuto modo di appurare se la cava piuttosto bene nel proprio mestiere – ero convinto che Lurie avesse messo alla porta colui che li aveva portati sul tetto del mondo con un backup quarterback esclusivamente per salvare il general manager. La convivenza fra Pederson e Roseman era diventata impossibile – oltre che umanamente insostenibile – e davanti a un bivio il presidente optò per la riconferma di un dipendente a cui paga lo stipendio dal lontanissimo 2000.
Howie Roseman è entrato in NFL grazie agli Eagles, è maturato con gli Eagles, ha assaggiato il successo con gli Eagles, è arrivato fino in fondo con gli Eagles e, teoricamente infine, ha fallito con gli Eagles: un cambio di guardia sarebbe stato fisiologico oltre che oggettivamente opportuno.
Lurie, invece, ha perseverato e a poco più di due anni di distanza dal licenziamento di Pederson non possiamo che chinarci al suo cospetto per una scelta che, con il senno di poi, gli ha dato ragione sotto più punti di vista.

Il “fisiologico” nel titolo non è affatto iperbolico. Questi Philadelphia Eagles sono una macchina da guerra, un tanto intricato quanto meraviglioso meccanismo nel quale ogni ingranaggio è al posto giusto e non potrebbe desiderare a proprio fianco un ingranaggio migliore. Ovviamente vincere non è e mai sarà prevedibile come una reazione chimica, lo sport resta la più intrigante delle scienze inesatte, tuttavia guardando il roster degli Eagles è piuttosto semplice razionalizzzare la sensazionale stagione di cui si sono resi protagonisti.
Dietro tutto ciò, ovviamente, troviamo l’instancabile lavoro di Howie Roseman che nel momento più delicato della sua carriera dal cilindro non ha estratto il proverbiale coniglio, ma una fattoria intera.

Dopo il disastroso 2020 sarebbe stato facile seguire acriticamente la moda del momento e riporre le proprie speranze su un quarterback veterano a fine ciclo nella squadra in cui questi s’era affermato. Intelligentemente, il front office di Philadelphia e coach Sirianni hanno deciso di dare una possibilità a Hurts, più che altro per deliberare se quella scelta al secondo round del draft del 2020 altro non fosse che l’ennesimo avvilente errore di un front office che negli anni precedenti s’era distinto per scivoloni come Agholor, Archega-Whiteside, Jones, Reagor e Taylor.
Il 4-11-1 dell’ultimo anno di Pederson è presto spiegato se sommiamo le innumerevoli delusioni arrivate via draft a un roster apparentemente a fine ciclo. La detonazione del roster, arrivati a quel punto, sembrava l’unica strada percorribile e affidarla a un nuovo general manager appariva indubbiamente sensato.

Il 2021 ci aveva insegnato che Philadelphia, agevolata da un calendario non sicuramente proibitivo, poteva ruzzolare ai playoff approfittandosi dell’inettitudine che attanaglia la classe media NFC.
Hurts, autore di una stagione buona ma non sicuramente chiarificatrice, per elevarsi a titolare indiscusso e potenziale franchise quarterback avrebbe dovuto compiere decisi passi in avanti che quel roster, molto semplicemente, non poteva garantirgli.
Roseman, come già detto, ha scelto di percorrere la strada più impervia e rischiosa costruendo attorno ai punti di forza del proprio controverso – in quanto benedetto da inaccettabile atletismo – quarterback mettendolo nella miglior posizione possibile per chiarire i tanti dubbi che lo seguivano instancabilmente – tipo nuvola di Fantozzi. Prima di ragionare sul futuro occorreva capire se il braccio destro di Hurts potesse garantir loro competitività.
In retrospettiva questa decisione era inattaccabile in quanto Philadelphia, dall’alto delle due scelte al primo round del 2023, in caso di fallimento disponeva del capitale sufficiente per agire come meglio avrebbe creduto e, in caso, scalare il tabellone per mettere le mani su uno dei migliori quarterback disponibili.
Prima, però, era moralmente obbligatorio fornire a Hurts un’opportunità legittima di difendere e confermare sul campo la maglia da titolare.

Il miglior modo per mettere a proprio agio un quarterback è ovviamente circondarlo di gente capace di semplificargli la vita. Ecco quindi che questi, durante il draft, vanno a sbrogliare la querelle Titans-Brown assicurandosi uno dei ricevitori più produttivi e affidabili degli ultimi anni calato all’interno di un attacco che poteva già vantare individualità interessanti come Smith, Goedert e Sanders. Investire sul receiving corp per aiutare il proprio quarterback, una strategia “innovativa” alla quale solamente i Baltimore Ravens sembra siano in grado di resistere.
Una batteria di skills player del genere unita alla miglior linea d’attacco della lega avrebbe dovuto produrre risultati interessanti: indovinate un po’ cos’è successo?
In un battito di ciglia l’attacco degli Eagles s’è affermato come uno dei più completi, variegati e letali della lega.
Una settimana possono calpestare la vostra squadra del cuore con una quarantina di corse per poi, quella seguente, costruire il gameplan attorno al braccio destro di Hurts. Volete un esempio? Il 40 a 33 con cui hanno silurato i Packers è arrivato grazie a 363 rushing yard a fronte di 153 “misere” passing yard di Hurts: la domenica successiva, contro i Titans, il gioco di corse ha fruttato solamente 67 yard mentre Hurts ne ha racimolate quasi 400.
Provo sincera pena per i defensive coordinator costretti ad architettare un piano per fermare un attacco così imprevedibile e versatile.

La vera forza di questa squadra la si trova nelle trincee.
Della linea d’attacco vi ho già accennato poc’anzi, poter vantare fenomeni generazionali come Jason Kelce e Lane Johnson sicuramente aiuta, ma non sottovalutate i vari Seumalo, Mailata e Dickerson, tutti giocatori di primissimo livello che in qualsiasi altra linea d’attacco rappresenterebbero l’anello forte della catena.
Chi ha veramente meravigliato è però il front seven, un reparto storicamente efficiente nel mettere le mani addosso al quarterback avversario. I 70 sack con cui hanno concluso la regular season rappresentano il terzo miglior dato di sempre – anche se c’è da tenere presente che ci siano riusciti in un campionato da 17 partite.

Reddick, Hargrave, Graham e Sweat hanno complessivamente messo a segno 49.0 sack, un dato che la maggior parte della lega non ha saputo riprodurre come squadra, figuriamoci come quartetto. Ognuno dei giocatori sopracitati ha messo a segno almeno 11.0 sack, anzi, tutti all’infuori di Reddick hanno messo a segno 11.0 sack: il neoarrivato, comprensibilmente bramoso di unicità, ha concluso con 16.0 sack. È ingiusto che una squadra così esplosiva in attacco possa vantare pure un pass rush del genere. Pure in questo caso buona parte del merito va data a Roseman che con sopraffina arguzia si è assicurato il sottovalutato Reddick con un ragionevolissimo triennale da 45 milioni di dollari totali. L’etichetta appiccicata addosso a un pass rusher del genere dovrebbe riportare una cifra ben più impegnativa.

Il giocatore simbolo del modus operandi di Roseman non è però Reddick, ma bensì James Bradberry: vi spiego. Silurato a maggio dai Giants in quanto esosa scoria dell’ancien regime, Bradberry è stato insistentemente corteggiato da Philadelphia che è riuscita a strapparlo alla concorrenza con un ben assestato contratto annuale da 7.5 milioni di dollari che ha permesso alla squadra di beneficiare (quasi) gratuitamente di un All-Pro voglioso di ribadire il proprio valore per assicurarsi, a breve, un contratto ben più lauto – quasi sicuramente altrove.
Questi Eagles aggrediscono lo spiraglio, se vedono un’opportunità non ci pensano due volte a premere il grilletto e prendersi un rischio calcolato. Lo hanno fatto con Brown, lo hanno fatto con Bradberry e precedentemente lo avevano fatto con l’iconico Fletcher Cox, rilasciato e rifirmato in pochissimi giorni a un prezzo ben più vantaggioso di quello che aveva costretto Roseman a metterlo alla porta.

Ripeto, guardate il roster. Potete giustamente farmi presente che la strada che li ha portati al Super Bowl non sia stata particolarmente tortuosa, i commoventi Giants e i 49ers senza quarterback non rappresentano sicuramente due banchi di prova chissà quanto proibitivi, ma fidatevi di me, c’è un motivo se con Jalen Hurts under center quest’autunno hanno perso solamente una partita.
Nessuno credeva in questi Philadelphia Eagles, a parte i Philadelphia Eagles stessi. Nella lucida e rassicurante autostima di Jalen Hurts troviamo incapsulata la consapevolezza nei propri mezzi di una squadra che, dopo essersi guardata allo specchio, si è resa conto di possedere il materiale umano per arrivare fino in fondo. È proprio quello che potrebbe succedere, infatti. Hanno dominato la conference con il pugno di ferro alimentati dalla peculiare miscela fra la leadership fornita dai veterani e il naturale entusiasmo dei giovani. Non si sono mai montati la testa da imbattuti. Non hanno avuto alcuna difficoltà a lasciarsi alle spalle la sorprendente sconfitta con i Commanders che ha portato all’evaporazione il sogno della stagione perfetta.

Parte di questi meriti, però, devono obbligatoriamente essere attribuiti a coach Sirianni, essere umano comprensivo ed empatico per il quale i propri giocatori sarebbero disposti a lanciarsi di testa contro un muro. Dialogo e sincerità sono due dei concetti su cui è stata fondata questa versione degli Eagles, finalmente libera dai drammi che hanno funestato gli ultimi giorni della tenuta di Doug Pederson. Istrionico e intelligente, Sirianni ha riunito i cocci di uno spogliatoio precedentemente infestato da disfunzionalità e paralizzato dal terrore di essere arrivato alla fine del proprio ciclo. Per fare ciò ha delegato parte della leadership ai vari Kelce, Cox e Johnson: i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

A Philadelphia, finalmente, si respira un clima sereno e scanzonato che non casualmente sta portando a risultati sensazionali e no, contrariamente a quanto affermato da Julian Love dei Giants, questi risultati non sarebbero arrivati con “qualsiasi allenatore”.
Il disastro della prima conferenza stampa da allenatore degli Eagles è servito a convincere la squadra della sua onestà intellettuale: Sirianni non ha paura a esprimere la propria opinione nemmeno quando facendolo può passare per cretino. In un mondo impostato e ricolmo di cliché, l’apparentemente ingenua genuinità di Sirianni è un’imprescindibile boccata d’aria fresca.
Il roster è indubbiamente di primissima qualità, profondo, ben assemblato e completo ma ciò di cui questa franchigia aveva disperatamente bisogno era proprio la serenità garantita da Sirianni.

Dopo aver atteso il Lombardi per più di mezzo secolo Philadelphia si trova davanti alla ghiottissima opportunità di mettere le mani sul secondo in un lustro, un Super Bowl che questa volta sarebbe fisiologico, in un certo senso dovuto anche se come abbiamo avuto modo di vedere nessuno poteva pronosticare una stagione del genere.
Questi Eagles sono stati costruiti proprio per un palcoscenico del genere e sono sempre più convinto che l’exploit di quest’anno non rappresenti un vero e proprio exploit ma, piuttosto, l’inizio di un nuovo ciclo vincente.

One thought on “Per questi Philadelphia Eagles il Super Bowl sarebbe fisiologico

  1. Gli Eagles di oggi mi sembrano anche più forti di quelli dei tempi di Wentz /Foles.
    Ho ancora impresso il murales con l’Aquila degli Eagles visti nella midtown di Phila.
    Tifo x loro, vediamo cosa accadrà

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