Nel complesso quadro della National Football League gli automatismi funzionano poco, si sa. Per rendere vincente una squadra serve tanta costruzione, oculata e lungimirante, si necessita di giocatori adatti a trasporre sul campo le filosofie degli allenatori, e non sempre il nome di richiamo è utile a trasformare con immediatezza i destini di una franchigia. Tale tesi è ampiamente supportata dal deludente inizio di campionato dei Denver Broncos, che hanno effettuato una delle transazioni più chiacchierate dell’ultima offseason andando a chiudere la trattativa che ha conseguentemente portato Russell Wilson in Colorado.
Evidentemente la dirigenza coordinata da George Paton, il successore di John Elway nel principale ruolo gestionale del personale, aveva ritenuto che la soluzione all’annoso problema di un’organizzazione abituata a risultati di alti livelli potesse passare nuovamente da una figura catalizzante, un colpaccio in grado di mutare istantaneamente le carte apposte sul tavolo da gioco. Anni fa ciò era significato corteggiare Sua Maestà Peyton Manning puntando sul fascino di Elway e sulla possibilità – poi realizzata – di vincere un titolo, con l’idea di cogliere un egual fortuna attraverso l’acquisizione di Wilson, giunto in città la scorsa primavera per riportare il profumo dei playoff tra le prestigiose montagne rocciose di Denver. Una decisione necessaria, dal momento che l’alternanza dei vari Lock, Bridgewater, Siemian, Keenum e Flacco non aveva mai dato il minimo accenno di poter assicurare un florido dopo-Manning, lasciando una franchigia già in confusione per tutti i litigi seguiti alla successione del vecchio proprietario Pat Bowlen letteralmente a secco di rilevanza.
Nel football, come oramai in qualsiasi altra disciplina sportiva, conta vincere e conta farlo subito, in particolare quando ci si trova in una delle division più ostiche del panorama generale. La Afc West dei tempi più recenti aveva difatti testimoniato l’esplosione definitiva della macchina da guerra di Andy Reid grazie alla strepitosa ascesa di una superstar indiscussa come Patrick Mahomes, nonché la rinascita di Chargers e Raiders, con i primi sorprendentemente già pronti a concorrere grazie alla guida offensiva di un già maturo Justin Herbert, ed i secondi capaci di raggiungere di nuovo la postseason nonostante i disastri occorsi a seguito dello scandalo-Gruden. In questo contesto, con l’aggiunta del bisogno di dover tornare a vincere il più presto possibile per non scontentare un pubblico cresciuto a pane e playoff, era obbligatorio accorciare le distanze con delle decisioni che mettessero termine tanto all’assenza dalla postseason, quanto all’irrisolta questione quarterback, ruolo per il quale serviva un giocatore carismatico, vincente, e soprattutto ricco di talento. Quello che abbiamo osservato nelle prime cinque uscite di Denver non è però il solito Russell Wilson, piuttosto lontano dall’accordo del valore di 245 milioni di dollari che occuperà molto dello spazio nel flusso di cassa della squadra da qui ai prossimi quattro anni.
Le sembianze dello stato attuale delle cose ricordano l’anno del Super Bowl vinto nella stagione 2015, tuttavia con differenze di enorme spessore. In quell’annata Manning era meno efficiente e il dominio offensivo che Denver aveva esercitato nel triennio precedente era sostanzialmente sparito, lasciando alla difesa il compito di portare a casa tutte le partite che contavano. Anche oggi i Broncos posseggono un reparto difensivo molto consistente, il quale sta però offrendo un rendimento che oggi può tranquillamente essere visto come uno spreco totale di risorse. Questo accade perché l’attacco non funziona, provocando un grave sbilanciamento di rendimento rispetto a quanto offerto dalla controparte difensiva. Chiaro dunque che le colpe principali vadano poi a ricadere – per quanto non esclusivamente – sulla testa di un quarterback che avrebbe dovuto portare effetti completamente differenti alla mediocrità offensiva con la quale i Broncos hanno condiviso le sei stagioni precedenti all’attuale, che all’attualità si sta rivelando addirittura peggiore rispetto a queste.
Come abbinare la presenza sinora solo apparentemente rivitalizzante di Wilson e il penultimo posto attualmente detenuto in termini di punti segnati rimane un puzzle difficilissimo da concludere. Gli indizi si sono presentati sotto la forma di una scarsa consistenza della linea offensiva, situazione peraltro peggiorata dall’infortunio che ha terminato la stagione del tackle Garrett Bowles, dai drop dei ricevitori, dall’assenza di un gioco di corse produttivo, e dalla generica impossibilità di guadagnare consistentemente nei primi e nei secondi down, per non parlare delle pessime statistiche racimolate nelle vicinanze dell’area di meta, dove i drive finiscono troppo spesso con un calcio di Brandon McManus o, peggio, con un turnover. Ed è qui che l’effetto Wilson non riesce a manifestarsi come si presumeva dalle classiche considerazioni cartacee, perché finora non si è vista nemmeno l’ombra di un minimo di azione in profondità – responsabilità da condividere con chi chiama i giochi – così come latita la figura di quarterback mobile, improvvisatore e capace di evadere dalla tasca con magie di houdiniana memoria sembra essere totalmente sparita dal radar.
Conti alla mano, i Broncos hanno già perso tre partite, e ne hanno vinte altre due con enormi fatiche. Vista la difficoltà del calendario, una possibile imbattibilità sarebbe stata completamente a portata di mano, tuttavia la squadra si è imposta sui mediocri Texans con enormi difficoltà, ed ha vinto una gara orribile contro San Francisco (11-10) non certo per meriti offensivi. La sciagurata sconfitta dello scorso giovedì sera contro i Colts, un altro festival dell’anti-spettacolo del football con un Wilson negativamente decisivo, ha fatto ulteriormente precipitare le quotazioni e le prospettive di un collettivo che non solo non ha recuperato terreno nei confronti delle dirette avversarie divisionali, ma ne sta perdendo di prezioso rispetto a tutta la conference Afc. La pessima gestione dei possessi cresciuta sotto le direttive di Nathaniel Hackett, che sembra spaesato nel ruolo di capo allenatore Nfl, non ha fatto altro che alimentare quel senso di frustrazione attualmente presente, facendo pensare che l’operato del licenziato Vic Fangio, forse, non era stato così malvagio. La scena che ritrae KJ Hamler sbattere più volte il casco a terra al termine della gara contro Indianapolis, che egli stesso avrebbe potuto decidere se solo Wilson l’avesse visto libero in endzone decidendo invece per un lancio scellerato, rappresenta al meglio il simbolo dello stato d’animo dell’organizzazione e di chi si è presentato allo stadio con aspettative del tutto diverse da questa misera realtà.
Il rischio maggiore che i Broncos stanno correndo in questo preciso istante è la possibile spaccatura dello spogliatoio, un evento normale e comprensibile nel momento in cui emerge che un reparto sta costantemente mettendo in secondo piano i guai commessi dall’altro. Non c’è nulla di che lamentarsi di una difesa che sta giocando ad altissimi livelli, continuando a provocare fumble grazie alla capacità di pressione e che dispone di una batteria di defensive back affidabile in fase di copertura e abile nel raccattare qualche intercetto favorendo posizioni di campo poi non sfruttate dall’attacco. I Broncos sono quarti per punti e yard concesse, Bradley Chubb sta giocando un football difensivo sopraffino mantenendo medie di sack degne del top della lega, e persino le seconde linee – vedasi le eccellenti prestazioni di giocatori come Baron Browning e Caden Sterns – sanno come sopperire alle assenze di interpreti essenziali come Randy Gregory e l’intramontabile Justin Simmons.
Servono rimedi urgenti, ed il tempo per recuperare non è mai molto nella breve stagione Nfl. Per quanto tempo potrà resistere una difesa destinata ad accumulare maggiore stanchezza per via dell’eccessiva presenza in campo con gli acciacchi che il prosieguo del campionato sicuramente porterà? Quanti altri fumble si può permettere Melvin Gordon in sostituzione di Javonte Williams, la cui stagione è seriamente messa a rischio dal danneggiamento dei legamenti anteriore e laterale del ginocchio, in un gioco di corse inseribile tra le cause della troppa prevedibilità di questo attacco? In quante altre occasioni Wilson darà l’impressione di non riuscire a evadere l’enorme pressione che gli sta arrivando addosso e di essere l’ombra di ciò che è stato? Come farà la dirigenza a giustificare un contratto di tali somme per un quarterback che sta giocando molto male rispetto al suo status da Hall Of Famer scendendo a patti con una realtà che potrebbe aver male ipotecato il futuro della franchigia?
Troppi i quesiti rimasti senza risposta, a maggior ragione se si rende necessario risolverli tutti in un colpo, un passo obbligatorio per mantenere l’andamento delle altre concorrenti ai playoff. A tale proposito, la settimana prossima è già ora di affrontare i Chargers in una sfida che assapora già di vittoria obbligata. Se i Broncos non sono già con le spalle al muro poco ci manca, se non altro perché la difficoltà del calendario rimanente sarà sicuramente più alta rispetto a ciò che Denver ha già affrontato sinora.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.