La pausa stagionale che si prospetta ha già vissuto movimenti inusualmente tellurici per il prestigioso ruolo di quarterback, e le transazioni non sono certo terminate qui. Non è difatti usuale poter testimoniare la variazione d’indirizzo di residenza sportiva da parte di un così gran numero di registi nel giro di così poco tempo, d’altro canto la posizione è notoriamente considerata la più importante di tutto il roster e proprio lì si decidono i destini della squadre Nfl e dei loro pesanti investimenti, una corsa all’oro che si insinua all’interno di ogni singola edizione del draft nella speranza di reperire il prossimo appartenente alla Hall Of Fame. La situazione è talmente bizzarra da far presumere che possa ormai accadere di tutto: lo star power è tale da poter permettere a giovani giocatori-franchigia come Deshaun Watson di giostrare il futuro esponendo il proprio disappunto, la fretta di vincere è così pressante da arrivare a deteriorare rapporti (Carson Wentz), rendere liberi gli ostaggi (Matthew Stafford), e valutare di cambiare strada a pochi anni da una scelta altissima al draft (Jared Goff, Sam Darnold, per quanto quest’ultimo potrebbe restare ai Jets), per non parlare del polverone alzato nella Emerald City, laddove stanno tenendo banco infinite ipotesi su ciò che deciderà di fare l’amato Russell Wilson tra qui ed il termine del prossimo campionato.
A Pittsburgh non c’è nessuna fretta di eseguire scelte rischiose per il futuro, più che altro per motivi legati alla cultura storica di una delle franchigie più rispettate di tutta la lega, somma esemplificazione della conduzione di un team professionistico tanto dal punto di vista dei valori umani quanto in ottica dirigenziale, addizione di fattori la quale non può che tradursi in una solida reputazione vincente. Quanto appena asserito, unito all’emblematica continuità di un’organizzazione che negli ultimi cinquant’anni ha visto avvicendarsi sulla linea laterale solamente tre head coach, non garantisce tuttavia automatismo alcuno costringendo gli Steelers a vivere in ogni caso i loro periodi di ricambio generazionale, fatto che costituisce il maggior ostacolo tra l’attualità e l’auspicabile inizio del prossimo ciclo vincente.
Ben Roethlisberger non è Tom Brady, e mai come ora sta soccombendo all’inevitabile avanzare del tempo: la dimostrazione giunge da un’ultima parte di campionato che ha fatto emergere tutti i limiti – soprattutto offensivi – di una squadra che aveva fornito inesatte interpretazioni sul suo possibile cammino ai playoff, passando da imbattuta a bluff nel giro di poche settimane, fino alla cocente eliminazione contro i Browns in occasione del turno di Wild Card in una gara iniziata scendendo con il piede sbagliato dal letto. Le valutazioni dirigenziali sul futuro di un giocatore storico, che avrà la soddisfazione di poter vedere il proprio busto annoverato nell’elenco dei presenti a Canton, Ohio, partono esattamente da quel drastico calo di rendimento invernale legato ad età ed acciacchi assortiti, dalla consapevolezza di poter schierare un reparto offensivo impostato su una mono-dimensionalità troppo rischiosa per sopravvivere nella Nfl di questi tempi, e da tutti i freni che la sola presenza di Big Ben – frase che suona oscena solamente nel batterla nella tastiera, ma tant’è – rischia di generare in quella che, a meno di colpi di scena che in cuor nostro non ci sentiamo di poter realisticamente prevedere, sarà l’ultima tappa dell’entusiasmante viaggio di un quarterback con il numero 7, legato a doppio filo alla già ampia storia di una delle franchigie più titolate di sempre.
Le indicazioni del ritorno di Ben al timone dell’attacco giallo e nero sono solamente implicite, ma tanto basta per far inalare una congrua dose di tranquillità tanto all’insieme dell’organizzazione della Pennsylvania quanto alla nutrita base di tifosi, i quali mai hanno vissuto un campionato dal bilancio perdente da quando il regista proveniente dal college di Miami (Ohio) è approdato al livello superiore contribuendo a regalare due titoli in un totale di tre partecipazioni al Super Bowl. E’ proprio tale curriculum a suggerire alla famiglia Rooney un approccio rispettoso nei confronti di un giocatore giunto agli sgoccioli di carriera ma che non ha nessuna necessità di essere gettato nel reparto ferro vecchio di una qualsiasi isola ecologica. Quindi, del futuro di Big Ben a Pittsburgh si è opportunamente discusso tra le parti e si è sostanzialmente già stabilito che il medesimo non farà parte della girandola di quarterback sopra menzionata, a patto che si trovi un accordo per ristrutturare l’attuale accordo biennale del valore di 68 milioni di dollari complessivi, che avrà scadenza al termine del prossimo campionato.
Per quanto gigantesco possa essere lo status del giocatore, gli Steelers si ritrovano comunque obbligati ad affrontare la situazione in maniera meno sentimentale e più analitica. Le decisioni stanno avvenendo in maniera indiscutibilmente matura, tenendo conto dei limiti della situazione e della gratitudine per quanto svolto negli ultimi diciassette anni utilizzando un corretto criterio di equità. Il management sta usando delicatezza estrema nel portare un messaggio pesante per un giocatore che sa di essere prossimo al termine della carriera, sottolineando dati del tutto oggettivi quali il drastico calo di rendimento personale vissuto al tramonto della scorsa regular season, accaduto per motivazioni non certo legate al recupero dall’operazione al gomito – di azioni che hanno messo nuovamente in mostra il braccio ce ne sono innegabilmente state – ma per ragioni più che altro relazionabili alla parte tattica di tutta la questione, che si scontra spesso e volentieri con le predilezioni di un veterano al quale è sempre molto difficoltoso togliere le proprie abitudini, in particolar modo quando si è vinto tanto proprio come in questo caso specifico.
La del tutto probabile permanenza di Roethlisberger, che ha tempo fino al prossimo 17 marzo per trovare un nuovo accordo secondo quanto dettato dalla presidenza della franchigia, rende necessaria la più classica delle mediazioni, cercando di tenere coinvolto il giocatore e di fare contemporaneamente il bene della squadra. Non è chiarissima dunque la direzione da intraprendere nell’avvicendamento di offensive coordinator che ha avuto luogo tra il licenziato Randy Fichtner ed il neo-promosso Matt Canada – ex coach dei quarterback – se l’esigenza primaria è effettivamente quella di rendere gli Steelers meno prevedibili in attacco. Sotto le direttive di Fichtner è difatti noto che non si è mai manifestata la determinante presenza di un running back in grado di produrre almeno un migliaio di yard stagionali, una responsabilità additabile sia alla mancanza di un elemento in possesso della necessaria accelerazione ma anche ad un quarterback intestarditosi nel voler giocare il 94% degli snap in formazione shotgun, modalità che senza un regista di spiccate doti atletiche rende improponibile lo svolgimento di una qualsiasi run-pass option mettendo in difficoltà chiunque vada a schierarsi nel backfield. Vista la conformazione attuale dell’attacco e la rinnovata presenza di Big Ben distante dal centro, è lecito dunque aspettarsi un altro anno di schieramenti a quattro ricevitori con Eric Ebron a fungere da quinta opzione, togliendo di fatto un tight end dal quadro generale – Ebron è utilizzato per le doti in ricezione, non certo per bloccare a favore delle corse – cercando di comprendere il come poter aggiustare tutta la fretta che Roethlisberger ha mostrato nel cercare il suo bersaglio di turno, anticipando il lancio tanto da rompere il tempismo del destinatario pur di non trovarsi troppi difensori nei paraggi, un pensiero del tutto normale per un giocatore che al prossimo infortunio grave vedrà abbassarsi la saracinesca per sempre.
Probabilmente gli Steelers, nella loro signorilità, preferiscono digerire un’altra stagione di critiche al reparto offensivo piuttosto che rompere i rapporti con modalità poco ortodosse verso una delle loro bandiere, privandosi del tutto di quelle dichiarazioni esterne che spesso vedono sorgere le lamentele del singolo da fonti legate alla stampa. Non è ancora giunto il momento di voltare pagina ma quell’incontro ha certo sottolineato la necessità della squadra di farlo non appena possibile, lasciando la macchina offensiva per un altro anno in mano ad un trentanovenne che pur detenendo un paio di trofei di quelli grossi non può più permettersi di portare via eccessive porzioni di salary cap per una stagione che a questo punto si prospetta essere un glorioso giro di addio, dato che per quanto sia grande il desiderio di vincere ancora è difficile pensare di poter raddrizzare in un solo colpo tutti i problemi legati ai principali ruoli dell’attacco, linea offensiva compresa.
Certo, il tempo di Ben Roethlisberger nella Nfl è quasi scaduto: l’unica cosa ufficiosamente certa, oltre al fatto che è stato un campione di quelli forti per davvero e non per l’odierno abuso del termine, è che l’avventura finirà nello stesso luogo dove tutto è cominciato nel lontano 2004, la prima di quelle undici stagioni con almeno dieci vittorie in saccoccia. Onore dunque ad una franchigia che ha dimostrato ancora una volta tatto nel trattare con i suoi dipendenti, e che non deve certo prendere scorciatoie di nessun genere per arrivare a vincere calpestando l’onore di chi in loco ha dato tantissimo e che merita più di ogni altro quest’ultimo giro di campo, a patto che lo stipendio sia adeguatamente proporzionato al differente valore di una delle icone più riconoscibili degli ultimi diciassette anni di Nfl.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.
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