Nella National Football League il clima è in perenne cambiamento, sono difatti pochissime le realtà che riescono a concorrere non solo per il Super Bowl ma anche solo per una presenza quantomeno costante nei playoff, una continuità che costituisce una vera e propria impresa. Nelle valutazioni che si possono eseguire tra un anno ed il successivo occorre ricordare che la strada per il ritorno verso i piani più alti è tutt’altro che scontata. Non sono più gli anni ottanta ed il nucleo di una determinata squadra è destinato a sciogliersi in tempi più brevi rispetto a quello che la mente può immaginare, rendendo la corsa la titolo un qualcosa di temporaneo ed assolutamente frenetico. Se una franchigia raggiunge il Super Bowl in una specifica stagione non è detto che tale percorso si possa ripetere dodici mesi dopo – a meno che non ci si possa fregiare del vanto di chiamarsi Tom Brady o Bill Belichick – così come è necessario fare attenzione allo sparare troppo in alto realtà in crescita che hanno raggiunto risultati che intere generazioni di tifosi non hanno più potuto testimoniare, perché giungere ad una finale di Conference dopo venticinque anni non equivale ad un’automatica partecipazione al Grande Ballo solo per una semplice logica progressiva che nella Nfl semplicemente non sta in piedi.

I Philadelphia Eagles rappresentano l’esemplificazione più evidente della temporaneità delle vicende che avvolgono la lega. In fondo non sono che trascorsi soli tre anni da quando la compagine allora diretta da Doug Pederson aveva dato un nuovo significato alla parola shock scrivendo una narrativa del tutto imprevedibile, se non altro per la portata dell’avversario da fronteggiare – proveniente, tanto per cambiare, dalle parti di Boston – e per lo snodo che il percorso poi terminato sul podio con il Vince Lombardi Trophy in bella evidenza aveva dovuto vivere per giungere a quel bellissimo epilogo. Ci si volta un momento indietro e sembra davvero ieri nel ricordare Pederson raggiante per quel titolo giunto solamente al suo secondo anno da capo allenatore dopo una ricostruzione brevissima nel post-Chip Kelly, nel leggere e rileggere la bellissima storia di Nick Foles, che con Kelly c’era e per un attimo era sembrato anche un automa di cifre straordinarie anziché un normale quarterback poi riemerso dalle sue stesse oscurità per prendere in mano la situazione dopo l’infortunio occorso a Carson Wentz nel momento più entusiasmante del cammino, contribuendo nel mantenere salda la proiezione degli Eagles quale figura di spicco nel quadro complessivo di quei playoff.

Ci ritroviamo oggi a ragionare sulle ceneri di quel Philly Special, l’azione che costituirà per sempre il simbolo primario di quel primo Super Bowl di sempre finalmente targato Eagles, perché altrettanto inaspettatamente la franchigia ha visto chiudersi quel ciclo in maniera inesorabilmente rapida, vedendosi figurativamente mancare il saldo appoggio del terreno da sotto i piedi. In sede di pronostici per l’annata da poco conclusa non ci sarebbe stato un singolo esperto in grado di prevedere che al termine della campagna a Philadelphia non ci sarebbero più stati né Wentz né Pederson, un tempo promessi sposi quando Carson era rimasto pazientemente a guardare i compagni vincere durante una durissima riabilitazione dalla rottura del crociato, quando sembrava che il destino fosse semplicemente quello di tornare pochi mesi dopo nello stesso palcoscenico, schierando stavolta lo sfortunato giocatore-franchigia e non l’eroe del momento, una prospettiva che avrebbe reso giustizia ad un regista che prima di quell’infortunio grave stava raccogliendo consensi per il premio di Mvp stagionale.

Oggi, invece, Doug Pederson ha già deciso che si penderà un anno sabbatico per ripristinare la tranquillità della mente così alterata dall’enorme stress di essere un capo allenatore professionista. Starà con la famiglia, la domenica sera il televisore sarà sicuramente acceso per osservare con occhio diverso quanto vissuto nell’ultimo quadriennio, cercando di riordinare i pensieri prima di rimettersi inevitabilmente in gioco, una mossa non certo difficile da predire e che sicuramente gli porterà ulteriore successo, magari tornando ad essere un coordinatore offensivo brillante come già fu, o ricevendo la sua seconda opportunità per la posizione più alta che un coaching staff possa offrire. Il suo licenziamento, che a parere del tutto personale rimane ancora oggi una profonda sorpresa se non altro perché dopo un Super Bowl conquistato una seconda possibilità non la si nega a nessuno, pareva seguire il filo logico del ragionamento di una franchigia che ha sempre protetto il suo quarterback, un investimento costoso e prezioso per l’importanza dettata dal ruolo. In fondo gli Eagles non avevano mai messo in discussione il ruolo di titolare di Wentz, nemmeno dopo che Foles aveva riscritto le pagine di storia del football locale, neanche dopo quell’infortunio alla schiena che aveva gettato ulteriori ombre sull’affidabilità nella tenuta fisica dell’ex-North Dakota State, ed infine nemmeno dinanzi a quella sfortuna che sembrava perseguitare Carson persino con cattiveria, estromettendolo dalla sua prima apparizione di sempre ai playoff dopo soli nove snap a causa di un trauma cranico che lo mise fuori gioco prima ancora che potesse dimostrare il suo valore in un contesto di pressione differente dal solito.

Il 4-11-1 con cui Philadelphia ha chiuso il 2020 deriva da un misto di ragioni, che di certo non includono la sola regressione di Wentz. La piaga della disgrazia – sportiva, chiaro – si è diffusa sin dalla porzione dell’anno dedicata alla meticolosa preparazione in vista del kickoff, periodo quando gli infortuni avevano già beffardamente sgretolato una buona parte della linea offensiva togliendo dalla scena il determinante Brandon Brooks, creando una situazione di reparto che si è dovuto nuovamente rivolgere all’esperienza di Jason Peters, longevo ed epico finché si vuole ma non più eccellente. Altri infortuni e pecche dirigenziali hanno inoltre creato uno scenario ai limiti del farsesco nella batteria dei wide receiver, da tempo lacunosa in termini di velocità e dinamicità, mancanze che nemmeno le selezioni di Jalen Reagor e John Hightower hanno saputo colmare. Ci si è quindi dovuti rivolgere agli exploit del tutto temporanei di Travis Fulgham, che ha capeggiato il ruolo con sole 539 yard su ricezione, ed accontentarsi dei 6 touchdown segnati da Greg Ward, non certo il punto di riferimento primario su cui fare normalmente affidamento, ed attendere con pazienza il rientro di De’Sean Jackson ed Alshon Jeffery, presenti in 12 partite totali se si sommano i timbri dei rispettivi cartellini. Nonostante le chiare esigenze, nulla è stato fatto nei draft precedenti al 2020 per rimpolpare il roster nello specifico settore.

Niente di quanto appena elencato funge da scusante per un quarterback che per sua stessa ammissione ha tentato in più di qualche circostanza di risolvere con testardaggine numerose situazioni tentando di fare troppo rispetto al dovuto, che tradotto nel linguaggio del football equivale a decisioni prese di fretta senza quindi effettuare la lettura nella sua completezza o cercare di forzare lanci su coperture troppo strette, quando non addirittura doppie, tentando di infilare l’ovale in corridoi inesistenti. Sono queste le ragioni per l’involuzione di Wentz nell’efficacia generica, mortificata dai 15 intercetti scagliati – peggiorativi dei 14 dell’anno da rookie – quando nei tre anni precedenti erano stati 21 totali, e le sole 2.620 yard in 12 partite giocate, inferiori alle 3.074 della stagione 2018 pur avendo disputato una gara in meno.

La pressione apportata dalla presenza di Jalen Hurts, accostato dal general manager Howie Roseman ad una polizza assicurativa e nulla più, si è insinuata nella testa del titolare più del necessario penetrando con maggior vigore man mano che le sconfitte si accumulavano, rendendo un lontano ricordo le rassicurazioni primaverili che Wentz aveva ricevuto appena dopo la chiusura del draft, quando la sua organizzazione gli aveva dato l’ennesimo segnale di fiducia rassicurandolo sull’inesistente pericolo di perdere il posto. Ad un mese dal termine della regular season Pederson ha preso una decisione controversa, che il suo regista non ha certo apprezzato creando lievi spaccature all’interno di uno spogliatoio diviso tra chi lo aveva supportato incondizionatamente per tutto l’anno e chi appoggiava favorevolmente l’ingresso in campo di Hurts. La vicenda ha creato la frattura definitiva al di là del rapporto Wentz-Pederson, dato che dalle voci emerse dalle profondità degli spogliatoi pare che il quarterback avesse parecchie difficoltà a relazionarsi anche con alcuni compagni, senza dimostrarsi caratterialmente leader vista la chiara frustrazione per la retrocessione in panchina.

Di quella magica notte datata 5 febbraio 2018 restano oramai solamente le fotografie più belle. Nessuna storyline ha portato Wentz a giocare un Super Bowl da protagonista potendo dirigere un attacco creativo e pieno di talento per gli anni a venire, Doug Pederson fa già parte del passato, e tra breve altri due protagonisti delle epiche imprese degli Eagles, Zach Ertz ed Alshon Jeffery, non faranno nemmeno loro più parte del quadro per ragioni legate allo svecchiamento generale del reparto offensivo e dall’alto salario percepito da entrambi in relazione a futuribilità e acciacchi fisici. La storia di Nick Foles è inoltre nota a tutti, ed insegna che giocare il ruolo dell’eroe non significa garantirsi una carriera di successo come testimoniato in seguito dalle mediocri esperienze a Jacksonville e Chicago.

Si riparte da Nick Sirianni, che in qualche modo è legato a tutta la vicenda essendo stato l’offensive coordinator di Indianapolis proprio alle dipendenze di quello stesso Frank Reich che chiamava i giochi degli Eagles in quella gelida serata vincente di Minneapolis, che accoglierà Carson Wentz tentando di rimettere sui binari un treno di grandi potenzialità, ma letteralmente deragliato. Con Sirianni potrebbe arrivare anche il quarterback del futuro qualora la dirigenza decidesse di investire in quella direzione il possesso della sesta scelta assoluta, la stessa che Philadelphia ha ottenuto grazie all’ultima mossa di un Pederson in stato di confusione tale da mandare in campo Nate Sudfield al posto di Jalen Hurts nell’ultima gara di regular season, proprio il momento esatto nel quale quel Philly Special ha salutato per sempre la città dell’amore fraterno.

2 thoughts on “Philadelphia Eagles, il Philly Special è solo un ricordo

  1. Un grande ricordo quel SBowl. Pederson che mette nel sacco il maestro Belichick e come manifesto, Brady che droppa il lancio su di lui e Foles che invece riceve e va in touchdown.

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