Come tutti gli appassionati, anche noi viviamo lo sport rapportandolo alle emozioni che ci regala, riempiendoci di gioia quando la nostra squadra del cuore vince, oppure facendoci soffrire quando una stagione è andata male e le sconfitte si sono accumulate così tanto da voler dimenticare tutto in fretta. Tutto è una ruota che gira, ad ognuno il proprio turno.

Quante volte il nostro umore del lunedì mattina ha trovato una connessione con il risultato della domenica sera, o notte, visto che parliamo di pomeriggi americani da traslare ad infausti orari italiani? Quante volte abbiamo insultato un giocatore dandogli dell’incapace o ne abbiamo glorificato un altro a seconda degli esiti di un’azione decisiva?

Si pensa sempre troppo poco al fatto che questi atleti, in particolar modo nel football americano, riescano in imprese che i comuni mortali si possono tranquillamente sognare, e mettano e repentaglio la loro salute molto più di quanto ci si possa immaginare. Basti pensare alle abnormi quantità di traumi inflitti al cervello di tanti dei moderni gladiatori che evoluiscono sul rettangolo verde numerato, dando tutto ciò che hanno per conquistare – o difendere – quella misera yarda in grado di fare la differenza.

Washington, 18 novembre 2018: la vita di Alex Smith sta per cambiare nel giro di pochi secondi.

Il football, si sa, è violento per natura, è lo sport di contatto per eccellenza. I danni alla testa possono essere evitati con un po’ di fortuna, ma allora subentrano possibili colpi ad un braccio, ad una mano, ad una gamba, ed il pericolo di un legamento spezzato è sempre dietro l’angolo. Stagione finita. Carriera finita. Si rischia permanentemente di cadere in uno spietato dimenticatoio, per quanto un giocatore abbia immolato il suo corpo alla causa dello spettacolo domenicale, per quanto si sia allenato con determinazione sia con il fisico che con la testa, perché ricordiamolo, il football vive di linguaggi a noi incomprensibili che ognuno degli undici giocatori in campo deve memorizzare in maniera ferrea, e guai a chi si fa trovare fuori posizione, perché allora ci rimettono gli altri dieci.

In questi giorni la Espn ha reso disponibile il documentario che parla del lungo e travagliato calvario di Alex Smith, quarterback dei Washington Redskins, ex-prima scelta assoluta dei 49ers nel draft 2005, ed ex-regista dei Kansas City Chiefs. Un autentico viaggio nel tormento e nella paura per il proprio futuro, per la propria salute, per il benessere di tutta una famiglia. Una potenziale tragedia fortunatamente risoltasi nel migliore dei modi, che offre enormi opportunità di riflessione sul come a volte si usano e si gettano gli eroi domenicali dimenticandosi di loro, pensando solo a chi potrà venire dopo per migliorare le fortune della propria squadra.

Era il 18 novembre del 2018, i Redskins ospitavano i Texans al Fed-Ex Field e la vita di Smith stava per essere definitivamente sconvolta.

Con Smith al comando offensivo i Redskins erano giunti a quota 6-3.

Giunto a Washington per offrire solidità ad un ruolo del tutto privo di stabilità ormai da anni, non stava certo giocando la sua miglior partita, ma il campionato dei Redskins, allora fermi a quota 6-3, poteva ritenersi tutt’altro che insoddisfacente se relazionato alla cronica incapacità di accumulare vittorie sofferta per la maggior parte degli ultimi vent’anni. Il primo tempo lo aveva visto siglare già due intercetti, evento inconsueto per un giocatore abituato alla precisione, molto più sostanzioso del game manager con cui troppe opinioni l’avevano fino a quel momento giudicato. Ma Smith era perfettamente abituato alle critiche in quanto figlio di un’attenzione spietata, uno scrutinio del tutto naturale quando si viene scelti per primi, poi appesantito dalla differente traiettoria di carriera vissuta rispetto ad Aaron Rodgers (scelto da Green Bay al numero 24). Aveva iniziato la sua esperienza professionistica in netta salita, giocando con poca costanza a causa di numerosi infortuni alla spalla e senza permettere a San Francisco quel salto di qualità che tutti pretendono sempre con immediatezza, in particolare quando si è una franchigia titolata ma stanca di perdere.

Ci volle parecchio tempo, ma sarebbe diventato uno dei protagonisti dei nuovi Niners, quelli plasmati e cresciuti da Jim Harbaugh, definendosi finalmente come uno dei quarterback più precisi di tutta la lega senza dare spettacolo, senza generare i numeri di un Peyton Manning, ma risultando sempre affidabile nella cura del pallone, tutto ciò che serviva per una squadra che possedeva un’ottimo gioco di corse ed una difesa semi-invalicabile. Quell’edizione di San Francisco fu la sorpresa della stagione 2011, con Smith a lanciare soli 5 intercetti totali e protagonista di una memorabile vittoria contro i Saints per 36-32 nei playoff, gara nella quale il regista mise a segno tre passaggi da touchdown – tra cui quello del definitivo sorpasso a nove secondi dalla fine, centrando le mani di Vernon Davis – aggiungendone uno personale su corsa, arrendendosi solamente ai Giants la settimana successiva, nel supplementare della finale della Nfc. San Francisco avrebbe giocato il Super Bowl di lì a poco, ma a seguito di un trauma cranico riportato in regular season Smith sarebbe stato relegato in panchina a favore di Colin Kaepernick, che lo soppiantò diventando protagonista assoluto del resto del campionato, compresa la finalissima poi persa contro i Ravens nel febbraio del 2013.

Il Divisional Playoff contro i Saints al vecchio Candlestick Park è uno dei momenti più memorabili della carriera di Smith.

La trama si sarebbe perfidamente ripetuta qualche anno dopo, con Smith a condurre i Chiefs a grandi vittorie di regular season e sonore cadute nei playoff, fino all’arrivo di Patrick Mahomes, fresco vincitore del più recente Super Bowl disputato. Quello che oggi è considerato il giocatore più forte della Nfl è difatti il motivo per cui Smith diventò sacrificabile, inducendo Kansas City a confezionare una trade che portò Alex nella capitale americana in cambio di un terzo giro 2018 e del cornerback Kendall Fuller, il quale è ironicamente appena stato ri-firmato proprio dai Redskins nella scorsa free agency.

18 novembre, secondo tempo. La protezione dei Redskins non tiene, J.J. Watt imperversa nel backfield e mette le mani su Smith contemporaneamente all’arrivo di Kareem Jackson, spedito in blitz per l’occasione. Il quarterback giace a terra, urla per il dolore. Solo i successivi replay avrebbero rivelato la gravità di un infortunio terrificante, inquadrando al rallentatore il piegamento innaturale della caviglia, andato a causare una frattura a spirale, che avrebbe purtroppo interessato anche tibia e perone. Stagione finita. Carriera probabilmente finita.

Smith avrebbe rischiato anche la vita, solo che doveva ancora scoprirlo.

Smith è sempre stato molto altruista e professionale, soprattutto verso chi gli avrebbe presto soffiato il posto. Un esempio per tutti.

Operato con la massima urgenza, il regista sarebbe dovuto restare in ospedale qualche giorno, per poi iniziare subito la riabilitazione. L’infortunio era brutto ma non insormontabile, l’obiettivo di Alex era uno, ed uno soltanto: riuscire a tornare in campo. Da quella camera non sarebbe invece uscito per settimane, perché una notte la febbre gli schizzò alle stelle, e solo dopo vari esami i medici capirono che un’infezione ha invaso il sangue del giocatore, ospitando un batterio che stava lentamente divorando la gamba infortunata. Urgeva fermare il processo di necrosi, perché non solo l’arto correva l’estremo rimedio dell’amputazione, si rischiava che l’infezione intaccasse anche gli organi vitali. La gamba diventò presto carne da macello, oramai svuotata da ogni muscolo, roba dura anche per quelli forti di stomaco.

Dopo aver valutato tutte le opzioni, Smith propendette per l’asportazione di una parte del quadricipite, in modo che il muscolo potesse donare le sue preziose funzioni a quella parte così devastata dall’infezione. Nuovi innesti di pelle, piastre in titanio inserite per stabilizzare il tutto, e molteplici interventi di chirurgia vascolare. Le operazioni sarebbero diventate 17 nel giro di 9 mesi.

Estate 2019. Con le stampelle, ma si cammina, ed è già un miracolo…

Dimenticarsi di lui, della sua presenza all’interno di un roster Nfl seppure così gravemente infortunato, non è stato poi così difficile. Lo show non si ferma davanti a nulla. A ricordarci della sua presenza è stato il web, con qualche video rilasciato pubblicamente a testimoniare la sua presenza al training camp nell’estate scorsa, ancora con il forzato ausilio delle stampelle, per poi guadagnarsi qualche inquadratura nei luxury box del Fed-Ex Field (in un’occasione in compagnia di Urban Meyer, suo allenatore all’università di Utah) durante la stagione regolare, ad osservare Case Keenum crollare sotto la complessiva inefficienza offensiva di squadra, Jay Gruden licenziato dalla posizione di head coach, ad attendere con curiosità l’esordio – molto difficoltoso – di Dwayne Haskins, al quale proprio Smith ha dedicato – come sempre in maniera estremamente professionale – molto del suo tempo in veste di mentore.

Nonostante abbia guardato la morte negli occhi non ha mai smesso di pensare al football. Difficile immaginare quanta forza di volontà possa essere necessaria per tornare a sognare di mettere piede in campo. Eppure Smith, da questo punto di vista, ha dato e sta ancora dando lezioni a tutti.

Nella sua testa non ha mai escluso di poter ricevere un altro snap all’interno di un campo di football professionistico. Un evento apparentemente impossibile vista la gravità di quanto occorso, ma non certo per il protagonista della vicenda. L’istinto porta a pensare che il rivederlo in campo non sia realistico, eppure qualcuno parla di training camp, semmai ci sarà, ed invita a non escluderlo dalla competizione. E’ un miracolo che sia vivo. E’ un miracolo che possa camminare ancora. Ma la testa dice solamente football. E così parte l’ennesimo giro speculativo, mettendosi nei panni di Ron Rivera e pensando sul da farsi qualora Smith si presentasse davvero in forma, pronto a giocarsela, dopo questa paurosa esperienza di vita.

Facile, ad esempio, pensare a Teddy Bridgewater oggi, fresco di un nuovo contratto con i Panthers del dopo-Newton senza riflettere seriamente su un altro infortunio potenzialmente devastante, su quanto sudore e sofferenza il suo ritorno è costato. Per Alex il tempo però corre, gli anni sono 36 e non depongono certo a favore dopo un’esperienza del genere, creando una situazione unica nel panorama sportivo professionistico.

Se davvero recupera, sarebbe il primo ad esserci riuscito vista l’inedita gravità della situazione.

In un video emerso di recente sul web, Smith dimostra di essere sulla strada giusta per il suo recupero fisico.

Proprio per questo fa piacere come Rivera, una volta assunto, abbia accuratamente sottolineato che qualora Smith dovesse tornare ad essere il giocatore di prima allora il ruolo di quarterback avrà seria competizione, al di là della recente acquisizione di Kyle Allen e della potenziale crescita di Haskins, giovane ed ancora molto acerbo, ma senz’altro più futuribile. Nel frattempo è stata giocata un’altra stagione e sembra passata un’eternità da quando il regista giaceva a terra nel mezzo di uno stadio letteralmente ghiacciato dalle circostanze, dolorante ed ignaro della pericolosità e della lunghezza del percorso che si apprestava a dover affrontare con l’indispensabile aiuto dell’equipe medica e della moglie, che per mesi lo ha fatto salire e scendere dal letto, lavato, accudito.

Pensarlo come potenziale concorrente per giocare suona assolutamente prematuro, ma incredibilmente reale. Se mai il miracolo dovesse poi completarsi, gli auguriamo di cuore di poter nuovamente trotterellare in campo, fare la sua prima chiamata, eseguire il suo primo lancio. In fondo le aspettative di vittoria dei Redskins per il 2020 non sono altissime, ed a stagione compromessa tutto diventa possibile, dando potenzialmente luogo ad un brivido che percorre la spina dorsale, a coronamento di un’impresa che andrebbe a rimediare anche ad un’altra stagione perdente.

In bocca al lupo, Alex. Non ci siamo dimenticati di te.

 

One thought on “Alex Smith, il calvario e la lotta per il ritorno alla normalità

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