Nella vita di ognuno di noi esiste una sorta di codice d’onore che ci detta la via da seguire, come una sorta di regole autoindotte che ci imponiamo di rispettare lungo tutto il percorso, vuoi per l’educazione ricevuta, vuoi per le persone con cui abbiamo condiviso una parte del nostro cammino, vuoi per la semplicissima sensazione di farci sentire bene con noi stessi, ma in ogni caso, qualsiasi sia la ragione di questa scelta l’obiettivo che perseguiamo è uno, ed uno soltanto, cercare di essere delle persone migliori.
Nel caso di Lee Roy Jordan, nato in Alabama il 27 Aprile 1941, il trittico che scandiva ogni istante delle sue giornate era composto da tre semplici parole, tre parole accomunate da un’unica lettera iniziale, tre parole da pronunciare in rigoroso ordine alfabetico, Famiglia, Fede, e Football; all’inizio furono solo le prime due ad entrare nella testa e nel cuore del piccolo, diviso tra la scuola, il lavoro nella fattoria di famiglia e la dura educazione intrisa di valori cristiani trasmessagli dalla madre Cleo e dal padre Walter Sr.
Quinto di sette tra fratelli e sorelle Lee Roy passa le sue giornate equamente divise tra compiti dettati dai genitori e dai professori fino a quando un giorno, per puro caso, si ferma ad osservare gli allenamenti della squadra di Football della Excel High School e coach WC Majors, conscio del fatto che con soli 21 giocatori sarebbe stato difficile affrontare un campionato, lo inviata a provare nel ruolo di safety; pochi minuti sul campo gli sono sufficienti per comprendere le dinamiche del gioco e anche senza casco e shoulder si fionda a fermare il runningback che in quel preciso momento stava viaggiando verso l’endzone.
Dalla pratica alla partita vera e propria passano pochi mesi, giusto quelli necessari a far si che Jordan si senta a proprio agio nel doppio ruolo di fullback e linebacker, le due posizioni che ricoprirà nei Panthers fino al diploma, 1959, prima di scegliere di giocare per l’università dell’Alabama, dopo aver rifiutato le altre borse di studio offertegli da Auburn e Mississippi State; arrivato a Tuscaloosa si troverà di fronte il secondo allenatore che cambierà il corso della sua carriera e della sua vita, quello che oltre al padre lo instraderà sulla via per diventare uomo, Bear Bryant.
L’ex coach di Texas A&M ha traportato dagli Aggies ai Crimson Tide i suoi famosi sistemi d’allenamento e in breve tempo conquista le attenzioni della matricola Lee Roy, che passa l’intero primo anno a ‘Bama ad allenarsi, senza mai vedere il campo, “E’ stato un lavoro duro, coach Bryant quando è arrivato qui aveva molti ragazzi disposti a lavorare sodo, è stato come avere una nuova edizione degli Junction Boys a Tuscaloosa. Mi ricordo che al primo allenamento della stagione entrammo nel nostro campo, circondato da una recinzione altissima, poi chiusero il cancello e lavorò con noi fino a quando non scoprì chi voleva giocare per lui, chi era disposto a dare il 110 percento ad ogni singola azione”.
Inutile dire che Jordan fu uno di questi e nel triennio successivo, tra il 1960 e il 1962, diventò il cuore e l’anima della difesa dei Tide mettendo a segno una marea di placcaggi e incidendo in ogni singola azione, “cercavo di essere sempre dove si sviluppava il gioco, di farmi trovare nel posto giusto al momento giusto”; gioca da protagonista il Bluebonnet Bowl con cui si conclude la sua prima stagione da starter, conquistandosi il titolo di MVP dell’incontro, e sempre in prima linea, continuando a dividersi tra i ruoli di centro e linebacker, vive la season 1961, quella che porta Alabama guidata dal giovane quarterback Joe Namath a vincere il titolo nazionale dopo essere stata imbattuta per tutto il torneo, Sugar Bowl contro Arkansas compreso.
Traguardo che il team cerca di raggiungere anche nell’ultimo anno di carriera universitaria di Lee Roy, il 1962, quando a fermarne la corsa è la sola sconfitta rimediata con Georgia Tech in regular season e i ragazzi di coach Bryant sono costretti ad accontentarsi di partecipare al Gator Bowl, in cui si troveranno di fronte Oklahoma; quel giorno, il 1 Gennaio 1963, il giovane cresciuto in una sperduta fattoria dell’Alabama offre una delle migliori prestazioni di sempre nella storia del College Football, mettendo a segno ben 31 tackles con i quali consente ai suoi di aver facilmente ragione dei Sooners, la partita terminerà 17-0, e deliziare tutti i 72.000 spettatori presenti, tra i quali spicca il Presidente John Fitzgerald Kennedy.
“Probabilmente mi sono stati assegnati più placcaggi di quanti effettivamente ne abbia realizzati” racconterà anni dopo Jordan, “ma indubbiamente quel giorno giocai una gran partita, sfruttando anche la collaborazione di molti compagni che fermarono diversi bloccatori permettendomi di fare molti tackles”, che ancora oggi custodisce il dollaro d’argento lanciato in aria da JFK e che ottenne quale vincitore del sorteggio e capitano dei Crimson Tide, “tengo a quella moneta in modo particolare, l’ho conservata per sempre e credo che sarà l’ultima cosa di cui mi disferò prima di incontrare il creatore”.
Nominato miglior giocatore dell’incontro viene selezionato sia da Dallas nel Draft della National Football League che dai Boston Patriots nell’evento medesimo dell’American Football League ma decide di spostarsi in Texas e vestire la divisa dei Cowboys, “non riuscivo a vedere un ragazzo di Excel, un ragazzo dell’Alabama trasferirsi a Boston… ho pensato che sarei morto congelato se fossi andato a Boston”, così rimane nel sud degli States, nel suo ambiente naturale, al caldo e con in tasca il suo primo contratto da giocatore professionista, 5000 dollari e una macchina nuova.
Quell’auto che lui non guidò mai perché il dirigente dei texani Gill Brandt che doveva consegnargliela personalmente decise di avere un incontro ravvicinato con una mucca in una sperduta stradina del Mississippi, un ricordo che ancora oggi strappa un sorriso a Lee Roy, e che forse sarebbe stata destinata ad un suo familiare, come quella usata passata in quel periodo alla sorella minore, perché nonostante la fama e i soldi che stavano per arrivare nella sua testa, nel suo cuore, nella sua anima, quello che conta più di ogni altra cosa è la famiglia.
E un ambiente familiare lo ritrova ancora una volta nel Football e soprattutto nella figura di Tom Landry, head coach che lo accoglie a braccia aperte a Dallas e che non esita a promuoverlo tra i titolari già nella rookie season, schierandolo come weakside linebacker nella sua “flex defense” che più tardi e nel corso degli anni sarebbe passata ai posteri come la famigerata “Doomsday D” dei Cowboys; spostato al ruolo di middle linebacker nel 1965 Jordan, cui nel frattempo è stato attribuito il nickname di “Killer” da parte di quei stessi compagni di squadra che lo hanno eletto a loro capitano dopo appena due stagioni in NFL, divide minutaggio e down con Jerry Tubbs per qualche partita prima di diventare un all-down LB a tutti gli effetti e costituire uno dei più temibili linebacker corps che la lega ricordi con i teammate Chuck Howley e Dave Edwards.
Convocato cinque volte al Pro Bowl, tre volte consecutive nel triennio 1967-69 e due nel biennio 1973-74, in un periodo in cui il suo status di undersized, 185 centimetri per 100 chilogrammi, lo rendeva decisamente diverso dai linebacker che dominavano sui campi del Football professionistico come Dick Butkus e Ray Nitschke, Lee Roy riuscì comunque ad emergere ed attestarsi con una certa costanza ai primi posti dei ranking difensivi della NFL, punto fermo di una difesa che risultò la migliore sulle corse per cinque volte in sette stagioni nel periodo compreso tra il 1966 e il 1972, e leader difensivo indiscusso del team che vinse il Super Bowl VI, nella cornice del Tulane Stadium a New Orleans, Louisiana, in cui i Cowboys superarono per 24 a 3 i Miami Dolphins.
Nominato NFC Defensive Player of The Year l’anno successivo Jordan continua a guidare la difesa di Dallas fino al termine della stagione 1976, quando si ritira dalle scene come leader all-time della franchigia texana con all’attivo 1,236 placcaggi, 743 dei quali messi a segno in solitaria, 32 intercetti, 3 riportati in endzone, 2 fumbles forzati e 18 fumbles recuperati; leggendarie alcune sue prestazioni che lo resero celebre tra i tifosi dei Cowboys, come i 21 stops fatti registrare contro Philadelphia nel 1971, i 3 palloni pizzicati al QB dei Bengals Ken Anderson nel giro di cinque minuti nel 1973 e l’episodio che lo rese inviso per sempre ai fans degli Eagles e che per molti segna l’inizio dell’odio sportivo tra le due franchigie, ovvero il colpo violentissimo che costò ben nove denti al RB avversario Timmy Brown in un match della regular season 1967.
Ancora oggi ai primi posti dei vari ranking difensivi della franchigia texana, una discussione cotnrattuale con il GM Tex Schramm nell’estate del 1973 gli costò per anni l’inserimento nella Ring of Honor dell’America’s Team, arrivata solo a quasi tre lustri di distanza dal suo ritiro, nel 1989, nonostante coach e compagni spesero sempre parole di profonda ammirazione nei suoi confronti; “Avrebbe placcato pure suo fratello, se suo fratello indossasse la maglia di un colore sbagliato” disse di lui un giorno il compagno di squadra Obert Logan, “quando attraversavi il suo territorio, lo facevi a tuo rischio e pericolo” spiegò in un’occasione il già citato Howley, “Era un grande lavoratore. Non aveva il fisico per giocare nel mezzo, ma grazie alla sua competitività è stato in grado di farlo e di giocare un buon football. La sua leadership era lì davanti a tutti e con il suo modo di fare ha richiesto un impegno maggiore alle persone che gli stavano intorno, il medesimo impegno che ha richiesto a se stesso” raccontò in un’intervista coach Landry.
Le parole migliori su Lee Roy le pronunciò però un altro allenatore leggendario, Bear Bryant, che nella sua autobiografia descrisse esattamente Jordan “È una meraviglia che non lo abbia incasinato, perché l’ho provato in due, tre posizioni diverse come sophomore, inclusa quella di offensive tackle prima che diventasse un linebacker, il miglior linebacker nel college football. Se non gli avessimo messo qualche limite avrebbe messo a segno placcaggi in ogni down giocato. Non riesco a ricordare nulla di brutto su d lui: primo ad entrare sul campo, ogni down giocato a mille, nessun modo per convincerlo a prendersela comoda. Non ho ricordi che sia mancato ad un allenamento, o che sia stato fermo per infortuni. Non ne ho mai avuto un altro come Lee Roy Jordan.”, perché lui era semplicemente così, affidabile, sempre presente, pronto a dare tutto per i compagni e la famiglia.
Sposato ancora oggi con la ragazza conosciuta proprio ai tempi di Alabama, Mary Banks, continua a seguire il college football, perché come ammette lui stesso “In NCAA è sopravvissuto il vecchio concetto di squadra, la NFL sembra ormai essere orientata più sui risultati individuali”, e gli insegnamenti di Bear Bryant, l’allenatore cui è rimasto probabilmente più affezionato “Coach Bryant ha sempre detto – non ti sto insegnando il gioco del calcio, ti sto insegnando il gioco della vita. Se usi queste cose, indipendentemente dal campo in cui vai, avrai successo. – senza che lo sapessi ci ha insegnato a lavorare duramente, ad aver rispetto e fiducia nei tuoi dipendenti e come trattare i tuoi clienti in modo giusto e corretto. Ho scoperto che quelle regole funzionano nella vita e nel mondo degli affari, indipendentemente dal contesto.”
Folgorato sulla via del football dai vecchi Guerin Sportivo negli anni ’80, ho riscoperto la NFL nel mio sperduto angolo tra le Langhe piemontesi tramite Telepiù, prima, e SKY, poi; fans dei Minnesota Vikings e della gloriosa Notre Dame ho conosciuto il mondo di Playitusa, con cui ho l’onore di collaborare dal 2004, in un freddo giorno dell’inverno 2003. Da allora non faccio altro che ringraziare Max GIordan…