Il football americano è fatto di uomini, e di conseguenza di storie umane. Uomini che compiono grandi imprese, possenti gladiatori che sottopongono corpo e cervello a colpi insostenibili per la vecchiaia, diretti da istinto ed allenatori che spendono la maggior parte della loro vita dormendo tre ore per notte sulla scomodità del divanetto del loro ufficio, studiando filmati in maniera maniacale, cercando attentamente quel dettaglio che potrebbe sfuggire a qualcun altro e che potrebbe fare la differenza nella prossima partita.
Andy Reid di minuziosi dettagli ne ha studiati tanti, e per questo è uno degli allenatori più affermati e longevi della storia del gioco, tanto da risiedere al settimo posto di ogni epoca per vittorie riportate in carriera. La differenza è che da domenica sera in poi nessuno parlerà mai più di quel fondamentale record relazionandolo alla totale assenza di anelli in vetrina, perché quel lungo sogno si è oggi realizzato e quelle infinite ore trascorse ad arrossarsi gli occhi davanti al video fermando ogni azione e riavvolgendola chissà quante volte hanno finalmente fruttato il risultato meritato.
A noi piace tanto chiamarla poetic justice, perché trattasi di quegli eventi in grado di rimettere a posto tutta una serie di ingiustizie morali, e soprattutto di calibrare meglio valutazioni a nostro avviso completamente errate. La tendenza non cambia mai, il giudizio sportivo è sempre determinato dal numero di titoli vinti spingendo a mettere troppo in secondo piano quanto altrimenti ottenuto, giudicando vincente chi ha avuto l’occasione di schierarsi o allenare una super-squadra o perdente chi ha in ogni caso scritto pagine sportive memorabili (vengono in mente Marino e Kelly, ma altrove anche Stockton e Malone…), ma che per un motivo o per l’altro non è mai riuscito a conquistare il trofeo maggiormente ambito.
Reid era un allenatore da Hall Of Fame anche prima del suo fresco bacio al Vince Lombardi Trophy. Quel puntargli il dito addosso cucendogli addosso definizioni poco adatte è sempre stato un esercizio troppo facile e persino scorretto, perché a Philadelphia non si sono certo dimenticati – nonostante il Super Bowl l’abbiano vinto di recente pure loro peraltro con un suo discepolo, Doug Pederson – di quei gloriosi anni in grado di produrre cinque finali di Conference, un numero che ricorda così tanto un’egemonia bostoniana che tutti ben conosciamo e che campa sullo stesso livello di quelle otto regular season su quattordici concluse con successi in doppia cifra, un segno del piccolo dominio esercitato sulla Nfc di quegli anni grazie a personaggi come McNabb, Owens, Dawkins, Westbrook, e chi più ne ha, più ne metta. Quell’esperienza era terminata altrettanto ingiustamente, ma comprensibilmente, perché la Nfl – come ormai tutto ciò che ci circonda – è semplicemente un business, un giro d’affari che impone di vincere subito. Gli Eagles avevano determinato che quel ciclo fosse terminato per sempre accompagnando il baffuto head coach verso i saluti finali senza tanti riguardi, chi paga è sempre chi sta al comando delle operazioni anche se non mette piede in campo, lasciando Andy a ruminare sui motivi dei suoi insuccessi personali in un’annata davvero disgraziata, che oltre a quel licenziamento seguito ad un’incredibile persistenza su quella sideline portava con sé gli effetti devastanti della perdita del figlio Garrett, che nell’agosto precedente aveva perso definitivamente la guerra contro la sua personale dipendenza dalla droga proprio in una stanza all’interno del training camp degli Eagles, trasformando potenzialmente il football in una vera malefica condanna.
Reid ha invece utilizzato la sua devozione per la palla ovale come cura. Com’era ampiamente prevedibile non è rimasto sulla piazza a lungo, giusto il tempo di una settimana, trovando l’accordo per cominciare a costruire il progetto che avrebbe dovuto portare i Kansas City Chiefs esattamente dove sono atterrati domenica sera, nel palcoscenico più importante della Nfl. Così come in Pennsylvania, pure l’esperienza nel Missouri è stata contraddistinta da una lunga serie di risultati molto più che soddisfacenti in regular season ma avari di particolari soddisfazioni nei playoff, ma non per questo Andy ha mai smesso di incoraggiare tutti i suoi giocatori nel credere nell’occasione successiva, sicuro che il coaching staff, il dipartimento di scouting e la profondità di tutti i roster costruiti prima o poi avrebbero condotto alla terra promessa.
Nonostante le 11 vittorie di media ottenute nelle sette stagioni allenate presso la franchigia della famiglia Hunt, la critica si è concentrata più spesso sulle deludenti prestazioni post-stagionali di una squadra che sotto l’educata guida di Alex Smith non era mai riuscita ad approdare al di là dell’insormontabile scoglio dei Divisional Playoff. Qualche lume di ragione c’era senz’altro, basti rimembrare la dolorosissima Wild Card del campionato 2013 con il 45-44 beffardamente subito dai Colts di Andrew Luck dopo aver sprecato un vantaggio di diciassette lunghezze fissato a quattro minuti dal termine del terzo quarto, molto simile alla rimonta sul foto-finish orchestrata dai Titans di Mariota, capaci due anni fa di demolire il 21-3 di fine primo tempo tenendo all’asciutto i Chiefs per tutta la ripresa, segnando il ventiduesimo e decisivo punto a sei minuti dal termine, dipingendo l’ennesima figura da choker dell’allenatore e della sua intera organizzazione.
Correva l’anno 2017 e Patrick Mahomes aveva trascorso l’intero anno a prendere appunti dalla linea laterale, giocando solo l’ultima di regular season ed osservando un eccellente professionista come Alex Smith, determinante nel trasmettere preziosi insegnamenti ad un ragazzo del quale nessuno – se non Reid stesso – in quel momento poteva nemmeno immaginare il futuro status di prodigio del football. Nell’aprile precedente i Chiefs se l’erano andati a prendere al decimo posto assoluto scambiando due prime scelte ed una terza con i Buffalo Bills nella stessa tornata di scelte ricordata per la trade-Trubisky, preso otto chiamate prima dagli Chicago Bears oggi derisi per quella costosa e poco redditizia decisione. Sarebbero trascorsi diversi altri mesi, ma Reid ed il suo staff sapevano esattamente cos’avevano per le mani ed avevano fatto di tutto per nascondere il loro interesse per il quarterback da Texas Tech prima di quel Draft, che si era curiosamente svolto proprio a Philadelphia, manco fosse uno scherzo del destino. Alex Smith sarebbe presto stato spedito a Washington in cambio di un terzo giro e del cornerback Kendall Fuller – peraltro autore di un intercetto nel quarto periodo del Super Bowl – promuovendo un ragazzo completamente privo di esperienza sul campo che avrebbe demolito ogni più rosea aspettativa, sorpassando le 5.000 yard e distribuendo qualcosa come 50 passaggi da touchdown.
Un chiaro segno che Brett Veach, allora impiegato come scout nel medesimo periodo in cui John Dorsey ricopriva la responsabilità di general manager, ci aveva proprio visto giusto nel definire Mahomes come il più grande quarterback che avesse mai analizzato su film, riempiendo adeguatamente di materiale la scrivania di Reid fino a convincerlo del suo stesso pensiero. L’esplosione totale del nuovo fenomeno della Nfl aveva portato i Chiefs a contendere lo scettro della Afc ai Patriots in una serratissima lotta conclusa solamente dal touchdown di Rex Burkhead al supplementare, definendo la più amara sconfitta di Reid giusto ad un passo dal traguardo, rimandando ulteriormente il sogno di ritornare nella massima competizione del football a 15 anni di distanza da quel Super Bowl disputato dagli Eagles, e ricordato per quel tentativo di rimonta troppo calmo nella gestione del cronometro e tardivo nella tempistica.
Quel Championship perso senza poter fruire di un possesso offensivo a causa di un regolamento effimero aveva involontariamente mostrato una delle migliori qualità di questa edizione di Kansas City, quella di poter recuperare un risultato parzialmente negativo nel minor tempo possibile. Frutto, questo, della capacità di aggiustamento a gara in corso derivata dall’attento studio delle reazioni difensive avversarie nei drive meno produttivi mostrata dal buon Andy, una peculiarità che si è rivelata utilissima proprio nel corso di questa cavalcata vincente ed appena terminata, nella quale la squadra ha rimontato uno svantaggio in doppia cifra in tutte e tre le gare disputate nei playoff. Determinante è stata pure la cura nel costruire – dopo aver già allestito un reparto offensivo di primissima qualità – una difesa in grado di fare la differenza, tutto quello che separava Kansas City da sogni di gloria distanti oramai cinquant’anni. Vincente è stata dunque la decisione di assumere Steve Spagnuolo per coordinare un reparto cresciuto grazie ad acquisti di free agency e scelte assai oculate al Draft, e proprio nei momenti di maggior difficoltà di un attacco altrimenti incontenibile è stata proprio la difesa ad effettuare tutti quei cosiddetti big play che non pervenivano dodici mesi fa su queste stesse frequenze, compreso quello che domenica ha definitivamente dato il via alla tradizionale doccia di Gatorade riservata al capo allenatore.
L’andamento della finalissima è la chiara testimonianza dell’audacia e sagacia tattica di Reid, che ha continuato a recitare il suo credo anche nel primo drive offensivo del Super Bowl nonostante la differente tensione, chiamando una corsa di Damien Williams in un quarto ed uno anziché accontentarsi del field goal, una mossa che alla fine dei giochi ha fatto la differenza. E’ restato aggressivo anche nella serie successiva, chiamando ancora in causa il suo running back con un’azione differente, ma di ugual risultato: primo down. Ha studiato le tendenze della fortissima difesa dei 49ers trovando i matchup giusti per le due giocate-chiave della rimonta, ovvero le ricezioni di Tyreek Hill e Sammy Watkins, giunte proprio mentre l’inerzia stava per sfuggire di mano ed il peso della gestione dello svantaggio stava sensibilmente aumentando, pescando – tra le altre cose – un gioco disegnato proprio da Kyle Shanahan ai tempi di Washington, un’abile utilizzo di una sua stessa arma ai danni dell’avversario, mossa in grado di liberare Hill dalla marcatura di Jimmie Ward grazie ad un rapido cambio di direzione.
Finisce così, una volta per tutte, la criminale sottovalutazione di Andy Reid ed un’attesa persino troppo lunga se proporzionata alle capacità tecnico/tattiche del personaggio in questione, la cui immensa stima nei circoli Nfl è attestata dalla ferrea volontà dei suoi giocatori di conquistare il Vince Lombardi Trophy per lui ancor prima che per se stessi, nonché da tutto l’amore incondizionato giunto dal luogo della sua precedente esperienza professionistica, quella stessa Philadelphia che egli fece sognare prima di capitolare sul più bello, ma che non ha mai dimenticato la grandezza di quei longevi risultati che avevano resuscitato gli Eagles dopo un biennio di buio pressoché totale.
The Big Red alla fine ha vinto grazie ai suoi uomini in rosso, straordinaria coincidenza che arriva a coronare con puntualità una carriera stellare, che ai nostri occhi sarebbe comunque stata di successo. Ed ora la questione potrebbe addirittura espandersi: con un quarterback fenomenale di soli 24 anni che sarà presto titolare del rinnovo più ricco nella storia del gioco, un attacco fantascientifico dove chiunque può contribuire ed una difesa in costante progresso i Kansas City Chiefs sono qui per restare.
Sarà anche il primo Super Bowl vinto da Reid. Ma potrebbe anche non essere l’ultimo.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.
Sinceramente non ricordo altri personaggi sportivi così amati da tutti.
Solitamente gli sportivi sono divisivi: chi li ama alla follia e chi li odia profondamente.
Domenica sera, il 99% delle persone (tranne gli abitanti di San Francisco) tifava Kansas City, ma non tanto per i Chiefs in sé, quanto per Reid.
E in queste ore stiamo tutti godendo: ma non per i Chiefs, godiamo per Reid.
Davvero, non ricordo altri sportivi capaci di mettere tutti così d’accordo.
Be’, quando uno è bravo è bravo, non c’è niente da fare. E se sei bravo per 20 anni diventa difficile non accorgersene.
La bellezza del football è principalmente in questo: chi vince se lo è sempre meritato per il percorso seguito. Reid se lo meritava da tempo e ce l’ha fatta. Mahomes è il diamante sulla sua corona.
Nemmeno ai 49ers dispiacerà più di tanto (al di là del fatto personale di aver sfiorato il traguardo): Kansas City è stata la seconda casa di Montana e tutto sommato…