Cercare di riassumere l’evoluzione continua di questa stagione per Miami con un articolo è assolutamente riduttivo; probabilmente le progressive e in un certo senso shockanti decisioni che hanno “ripulito” il roster di speranze nel presente hanno radici ben più profonde e attempate in periodi precedenti a questo.

Noi, per rispetto ai numerosi tifosi e ad un meraviglioso marchio poco vincente ma storicamente amato da tutti, ci asterremo dai giudizi, senza tuttavia allontanarci dal fare considerazioni che, volenti o nolenti, portano Chris Grier, Stephen Ross e tutte le menti dirigenziali ad essere assolutamente scagionate e giustificate dai ragionamenti messi in atto, sia se in futuro risultassero fallimentari che trionfanti.

Gli anni limitrofi a questo hanno posto i Dolphins nell’enorme calderone AFC, composto da team di seconda fascia, vicini alla media e a primati contigui al 50%, abili poi a qualificarsi pure in Wild Card, spingersi persino al Divisional e poi, dopo l’imbarcata di turno, riempirsi di pacche sulla spalla e di frasi alla “good job man”. Di speranze o aspettative da Superbowl manco a parlarne.

Nessuno può smentirci se nel momento in cui scriviamo Jets, Browns, Bengals, Titans, Jaguars e Broncos si trovano però in una condizione nettamente più deleteria di Miami, avvolti anch’essi in una compromettente e latente mediocrità, ma senza molti spiragli futuristici e con cap più gonfi che in Florida, roster costruiti per il vertice a suon di dollari ma rivelatisi privi di alchimia (Cleveland) e dimezzati da infortuni (Jets), giocatori che hanno fatto forse il loro tempo (Cincinnati), oppure aver raggiunto l’apice prima di scendere inesorabilmente di livello (Jags e Denver).

Inoltre Bills, Colts e Raiders, una volta individuate per qualità e fattore anagrafico come le eredi a fronteggiare il regno di Belichick, si sono prese delle pause dovute ad attacchi asettici, ritiri non preventivati oppure rivoluzioni tattiche esagerate.

New England e il suo GOAT sembrano ancora inarrestabili, ma dietro di loro gli stessi Chiefs hanno tutto per contendere, nonostante non paiono maestri di costanza, e la clamorosa esplosione di Deshaun Watson e Lamar Jackson, col primo a rasentare la perfezione una volta placati i bollenti spiriti e le bad decision degli anni passati, aggiunge due club alla lista dei papabili per il Grande Ballo, restando però in attesa delle prove del nove e dei tranelli che la postseason porta con sé!

Alla luce di questa disamina, fatta certamente anche da Ross e i suoi negli ultimi due anni, i Dolphins si sono chiamati fuori sin da subito, rinunciando in pratica a concorrere per questa e le prossime due annate, consci di non potersi avvicinare al livello competitor di Patriots, Chiefs e forse Ravens e Texans, ma di stare un gradino sotto pure a Steelers, Chargers e gli stessi Colts.

L’All in al contrario e susseguente a già note e recenti dipartite importanti, tipo Robert Quinn e Cameron Wake, a nostro avviso portava in essere differenti significati.

In primis tirare fuori da una stagione perdente il massimo da profili inediti o secondari, sicuri che la magnificenza NFL nello scoprire novità dal nulla avrebbe aiutato, ricostruire poi tabula rasa l’intera rosa proiettandosi verso un luminoso avvenire grazie alle numerose e allettanti pick futuristiche a disposizione che andremo più avanti ad analizzare, resettare inoltre il cap salariale, pronti perciò ad assaltare pure qualche asset in mid season (Talib), e infine performare un football senza alcun tipo di obbligo e pressione, a differenza delle sopracitacte rivali di centro classifica, dimostrando per di più che a queste condizioni di sottostima, il peggior team della lega non sono sicuramente loro!

Se il secondo giro per Josh Rosen stava a significare un tentativo estremo per testare le franchise expectations verso l’ex UCLA e dimostrare come le qualità del ragazzo siano ispezionate e attenzionate da molti – vedere dopo la scelta Cardinals e relativa trade qui in Florida anche il recente sondaggio Vikings –, e una volta appurato l’insuccesso si è deciso lo smottamento più completo, con lo scambio dell’ultima stella rimasta in secondaria, Fitzpatrick, preceduto fra gli altri da Tunsil nella linea, Kenny Stills sull’ampio iardaggio offensivo e il mitico Kiko Alonso, accasatosi a New Orleans per Vince Biegel, ottenendo dal baratto ulteriori pick redditizie e dando pieni poteri all’altro Fitzpatrick, Ryan, pervenuto all’ottavo club in 15 onorevoli campionati, personaggio genialoide e spettacolare regista impossibile da non amare, ma anche inverosimile da proporre per situazioni Top!

Il tutto in attesa del Big Splash 2020 in cabina di regia, tanto proclamato a Gennaio da Stephen Ross.

Gli epic fail iniziali per i ragazzi di Brian Flores, ennesimo good fellas di Belichick in giro per l’NFL, erano anch’essi preventivati ed avevano portato stampa e opinione pubblica a pronosticare i Dolphins come peggior team della storia, con 163 punti incassati e un clamoroso -137 di differenziale, mai così alto in passato, con Indianapolis del 1981, l’expansion team Buccaneers 1976 oppure i Rams 2009 a respirare per il sorpasso!

Il 7-9 del passato pareva la luna e le quote a Las Vegas salivano vertiginosamente ogni minuto che trascorreva, portando le odds di vittoria finale dal 500-1 al 2500-1 (oggi siamo arrivati a 5000 ma non per demeriti propri bensì a causa delle week inesorabilmente in diminuzione).

Per fortuna, e come ampiamente analizzato, la AFC momenti di respiro ne concede tanti, così pure sfide divisionali e non con team tutto tranne che imbattibili. Dalla – brutta – performance casalinga con Washington infatti un leggero assestamento ha portato Miami ad “entrare” in partita, perdendo di misura match equilibrati e provocando pure il “booing” casalingo a Pittsburgh per un 14-0 nel primordiale quarto di gioco, frutto – ripetiamo ancora – di un calendario benevolo per chi cerca rinascite nel raggruppamento American.

I (leggeri) miglioramenti hanno cominciato ad interessare le medie offensive, con le 4.3 yards a gioco e le 4.8 net yd per pass, mentre in copertura erano 6.5 quelle ad azione e 8.3 incassate al lancio. Lo stesso quarterback veterano, con più di 100 tentativi, era il terzo peggiore in adjusted yd a passaggio, avanti a Darnold e proprio Josh Rosen.

Ottenere le prime W ha avuto un sapore incredibile e i festeggiamenti finali parevano quelli di chi ha compiuto un’impresa apocalittica: essersi cioè scrollati di dosso un fardello insopportabile ed aver conseguito un’identità assolutamente non preventivabile ad inizio stagione. Browns, Jets, Giants e Bengals sono inoltre quattro partite sulla carta non impossibili, che potrebbero clamorosamente portare gli uomini di Forbes ad un primato non disprezzabile.

Fitzpatrick è l’uomo giusto per lavorare nelle condizioni attuali, traghettare cioè a fine stagione un gruppo di uomini da rivalutare, scoprire o in cerca di conferme, senza vincoli o responsabilità, rischiando pure qualche intercetto sanguinoso che ne ha oscurato la carriera, cedendo poi lo scettro all’uomo del futuro che verrà identificato nel prossimo draft.

Ciò infatti sta lasciando strascichi più positivi che negativi e il minimo di 16 punti segnati in 5 degli ultimi 6 match rende l’idea; finora soddisfazioni da cui ricominciare sono superiori alle delusioni, sia in attack mode che nella D-zone.

Lo stesso DeVante Parker, a 26 anni e alla probabile ultima chiamata, si sta mettendo in mostra ottimamente con 10+ fantasy pts in 7 gare consecutive, striscia più lunga in carriera, portandosi dietro anche Preston Williams, 22enne da Colorado St College, ora purtroppo in IR (ginocchio destro) e Allen Hurns, appena esteso per due anni; brillanti si possono pure definire le performance di Jakeem Grant da ritornatore e quelle di Mike Gesicki, TE major sophomore e già ampiamente sopra le medie dello scorso torneo. In retroguardia si ripartirà dal rookie Christian Wilkins, DT da quasi 35 placcaggi combinati, Raekwon McMillan, solamente 24 anni e recuperato dai problemi fisici pregressi, macchina da tackle insieme a Jerome Baker (23) e Taco Charlton (4 sack); da verificare la ripresa di Ledbetter, mentre nelle retrovie promuoviamo Bobby McCain ed Eric Rowe, che stanno superando l’iniziale epic shock.

Una linea offensiva già in crisi nelle epoche recenti e quest’anno quasi sguarnita, non ha permesso ai vari Kenyan Drake (poi ad Arizona nell’ormai classica trade con conditional pick), Kalen Ballage e Mark Walton di portare iardaggio via terra, col debuttante Michael Deiter e Daniel Kilgore fra i tanti O-men in crisi mistica. Tra le delusioni, rispetto alle aspettative, il non progredito Davon Godchaux, Xavien Howard e Reshad Jones, rallentati però da infortuni a ginocchio e pettorali.

Nella prossima primavera inizierà il vero campionato da questa parte di Florida e lì sì non si potrà fallire, in particolare alla luce dei sacrifici fatti per giungerci da veri favoriti; la rebuilding apocalittica, fatta di pregiate opzioni al vaglio, da studiare in quel periodo dell’anno venturo, sarà un mantra nel tanto atteso Draft 2020, da arrivarci con idee molto chiare per quel che concerne le picks dei primi tre turni, ad oggi ben 6.

I sogni odierni portano tutti ad Alabama e le tre scelte proprie (primo, secondo e terzo giro) più quelle di Steelers e Texans sempre al first round e quella dei Saints al second, non potranno far altro che sondare Tua Tagovailoa come desiderio prediletto, straordinario prospetto e play creator se ce ne è uno, lettore infallibile di difese altrui, braccio bionico e abile a performare under pressure. Attenzione però, l’attitudine del ragazzone ad infortunarsi costantemente comporterebbe una beffa tra le beffe se venisse poi ceduto lo scettro di franchise man a chi passasse più tempo in sideline che sul campo, arrivando così a rimpiangere il periodo Tannehill o il sicuro addio a Rosen, cercando poi un nuovo paracadute alla Ryan Fitzpatrick. L’ultimo serio problema all’anca, successivo a piede e caviglia, col quale il suo team ha forse concluso le speranze da titolo, lo terrà fuori a lungo ma non tanto da precludergli la top pick di aprile: se così fosse sarebbe comunque una decisione border line!

Le altre due opzioni (e che opzioni) in regia vengono nuovamente dalla SEC e prendono il nome dell’attuale favorito per l’Heisman Trophyi Joe Burrow (LSU) e Jake Fromm da Georgia, un pallino del vostro scriba.

Sempre i Crimson Tide possederebbero un’allettante seconda scelta in Henry Ruggs III, presumibilmente il fastest guy tra tutti i ricevitori papabili di Paradise, un playmaker con ovale tra le mani ed eccezionale e profondo ball tracker, la cui alchimia col “sano” Tua sarebbe manna dal cielo per i prossimi Dolphins.

E’ sempre dal guro Nick Saban che ci permettiamo di pronosticare la terza pick più conveniente per Miami, col mastodontico Jedrick Wills Jr, quasi 150 kg di potenza in linea offensiva ma ricco di flessibilità atletica, perfettamente in voga con le necessità odierne di Flores e i suoi, cioè creare spazi per le corse e rafforzare la protezione under center. Ironia della sorte, questa opportunità arriverebbe proprio da Houston, grazie alla cessione del mitico Laremy Tunsil.

Tra i running back al secondo giro si dovrebbe arrivare a chiamare un profilo alla Jonathan Taylor, dominante per i Badgers con 48 td e almeno 1000 yds acquisite in tre anni a Wisconsin da primo spot. Molta pazienza, visione di gioco, bilanciamento e velocità accentuata nelle sue 215 pounds sono le caratteristiche del ragazzo.

In secondaria Jeff Gladney (TCU) sarebbe l’uomo adatto da accostare a Xavien Howard, che ne diverrebbe chioccia, anche alla luce dei numerosi problemi fisici del cornerback attuale di cui abbiamo parlato. Giocatore ricco di istinto, è reduce da 5 intercetti e 32 pass breakups in 40 gare.

Chiudiamo tanto per cambiare con i Tide – incontrastati maghi del settore offensivo collegiale – nel sottolineare Devonta Smith come possibile ultima scelta – la sesta – al terzo turno: wide receiver altamente dinamico andato in netta progressione e dalle pregevoli performance in questa stagione.

Sarà questo il vero esame per Miami, indovinare le giuste opzioni per ricostruire da capo, portandosi dietro le (poche) certezze del campionato corrente e sacrificando almeno tre tornei per attendere la crescita dei suoi imminenti e nuovi prospetti, compresi quelli degli anni a venire, cercando di farsi trovare pronti se la dinastia Brady/Belichick cesserà e nessun altro sarà in grado di ereditarla. Ne vale la storia del club, che potrebbe così trovarsi di fronte ad una nuova e luminosa era oppure al cospetto di un fallimento epocale.

One thought on “I motivi della rivoluzione a Miami

  1. Dal 1999 (ultimo anno di Marino) a oggi, non ci sono dubbi che Miami sia stata una delle franchigie più perdenti e ridicole dell’intera Nfl. E lo dico da tifoso Dolphins da sempre. Dalla fine dell’era Shula-Marino, non c’è mai più stato un QB degno di questo nome e nemmeno una dirigenza lungimirante o capace. Però tra il 1971 ed il 1999 Miami è stata una delle squadre più forti e vincenti di sempre, perdendo 3 superbowl, vincendone 2 e centrando sistematicamente i playoffs quasi ad ogni stagione. I tifosi più giovani troveranno incredibile questa statistica, ma, ebbene sì, anche Miami ha avuto anni (ormai lontani) in cui sapeva programmare, gestire e vincere. E non sono stati pochi. Purtroppo le comiche dirigenziali, contrattuali e sul campo degli ultimi vent’anni ci hanno resi ridicoli giustamente e anche quest’anno la confusione mi pare regni sovrana. Ho seguito tutto quello che si può seguire in questa offseason e sono parzialmente d’accordo con l’ottimo articolo qui sopra. La dirigenza ha creato spazio salariale, ha mandato via tutti i senatori, ha ammassato picks per il draft 2020 e ha apertamente dimostrato l’intenzione di voler arrivare ultimi per poter scegliere col pick n. 1. Alla vigilia del campionato è stato cacciato l’allenatore della linea offensiva (poverino…), è stato mandato via Tunsil OT sinistro per una prima scelta 2020, poi anche la prima scelta al draft 2018 Minkah Fitzpatrick per un altro primo giro e poi sono stati presi solo rincalzi o giocatori pluri infortunati per il roster attuale. Insomma si è fatta tabula rasa in attesa del 2020 a discapito della stagione corrente. Tutto questo è stato digerito dai tifosi solo per il sogno di vedere finalmente rinascere qualcosa dalla cenere a partire dalla prossima stagione. Le prime partite sono state orribili come è ovvio che fosse, ma tutti (i pochi giocatori buoni rimasti, l’allenatore, lo staff, il Presidente e i tifosi) hanno incassato le risate mondiali per le prestazioni offerte in vista del 2020. Poi due vittorie davvero inconcepibili. Ammetto che sia orrendo parlare nello sport di voler perdere volontariamente (il buon “tanking”), ma se ti prefiggi di farlo….lo fai davvero!!!! Adesso davvero si rischia di arrivare col pick n. 3 o 4 per la prima scelta e questo non era l’obbiettivo. Inoltre si è di nuovo rotto il fenomeno universitario Tagovailoa che da sempre è il target n. 1 del prossimo draft come QB. Quindi? Quindi regna la confusione, come regna sempre quando lavori male e ti affidi alla sorte. Miami ha una montagna di scelte per il prossimo anno, ma ha anche una montagna di cose che non vanno e una squadra che non c’è più. La linea offensiva e la pass rush stanno a zero, così come il reparto running backs. Ci vorranno anni per trovare una minima quadra, perché la squadra è stata troppo depauperata nella speranza di trovare solo fenomeni al prossimo draft. Ma l’esperienza insegna che nessuno ha mai costruito da zero un team decente con un draft o due, soprattutto quando i rookie non hanno veterani validi al loro fianco. Bisogna saper innestare i giovani su un telaio consolidato, negli anni, nel tempo e confidando anche nell’esplosione di giocatori abbastanza anonimi a livello universitario. Il direttore generale Chris Grier ha voluto dare un segnale forte e passare da zero programmazione a cento in una sola stagione. Ha disintegrato il roster ed il (poco) talento che c’era per ammassare picks e speranze per l’anno prossimo. Ma a Miami non mancava il tempo, mancava un progetto serio, paziente, lungimirante e concreto da far finalmente partire dopo una vita. Non mi pare di vederlo neanche ora.

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