In questo periodo, nel mondo NFL, c’è chi si prepara all’ultimo atto della stagione, chi si lecca le ferite dopo sconfitte brucianti, chi presenta i nuovi head coach nella speranza che possano essere i condottieri di future annate vincenti e poi c’è chi semplicemente è rivolto verso il lavoro di offseason tra salary cap, free agent e programmazione futura.
Prendiamo i Dallas Cowboys ad esempio. Mancano al Super Bowl dal 1995, tanto, troppo tempo per chiunque, ancor più per l’America’s Team, e negli ultimi anni si trovano a vivere un continuo dejà-vu, come Bill Murray nel “Groundhog Day” e anche quando le cose sembrano cambiare e quando c’è la sensazione di poter fare il passo avanti per uscire da questo limbo finiscono per tornare al punto di partenza.
Si è già detto abbondantemente di come abbiano sostanzialmente sprecato stagioni su stagioni nell’era Tony Romo, nonostante in quegli anni siano passati da Dallas giocatori del calibro di Terrell Owens, Demarco Murray e Dez Bryant e nonostante una offensive line dominante che però, per quanto riuscisse a proteggere il suo QB come nessun altro reparto nella lega, non avrebbe potuto certo dotarlo del carattere adatto a rendere al meglio “in the clutch”.
Dopo i primi tre anni del nuovo corso, i Cowboys targati Elliott-Prescott per semplificare, si può trarre qualche bilancio con l’ovvia conclusione che dalla rookie season delle due stelle, a suo tempo lanciate verso il Super Bowl per poi schiantarsi al Divisional contro i Packers in versione “run the table”, non ci sia stato alcun miglioramento sostanziale per la franchigia texana.
La squadra ha un’età media molto bassa e nel frattempo ha aggiunto nelle ultime due stagioni altri talenti pescati al draft e diventati da subito protagonisti come Jourdan Lewis, Xavier Woods e soprattutto Leighton Vander Esch, diciannovesima scelta nel 2018 e autore di una stagione semplicemente clamorosa che gli è valsa il posto nel Second Team All-Pro. Con un roster giovane e di qualità potrebbe essere naturale parlare di pazienza, di processo, di costruire. Nulla di più sbagliato. Per quanto si possa aver stima delle capacità di Jerry Jones, una delle ragioni dell’incapacità di Dallas di uscire da questa spirale perdente è una certa tendenza di fondo, presente soprattutto nell’era Jason Garrett, ad aspettare se non a lasciar correre quando invece occorrerebbe un colpo di mano.
Da quando le redini tecniche della squadra sono in mano al triumvirato Garrett-Linehan-Marinelli, non c’è stagione in cui la vivace opinione pubblica della Cowboys Nation non reclami, e non necessariamente a torto, un cambiamento parziale o totale nel coaching staff. JJ ha sempre tenuto duro anche dopo il terribile 2017, quando i due top assistant sembravano ad un passo dal licenziamento. Ma se nell’annata appena conclusa la difesa ha mostrato degli upgrade importanti anche grazie al lavoro di Kris Richard, vero grande acquisto del 2018, l’attacco è rimasto ai costanti livelli di mediocrità soprattutto per quanto riguarda il passing game e perciò il front office ha (finalmente) deciso di silurare Scott Linehan.
Inoltre coach Garrett, che per i maligni è “The Clapper” ossia più bravo a battere le mani che come game-manager, assumerà il playcalling dei giochi offensivi in quello che sarà il suo ultimo anno di contratto con tutto ciò che ne consegue, affiancato da un OC che al 99% sarà una soluzione interna con Kellen Moore, attuale QB coach, ad oggi favorito sull’allenatore dei Tight End Nussmeier, il che può far pensare che a giocarsi tanto nel 2019 non sarà solo Garrett ma anche Dak Prescott.
A Dallas più che attendere la crescita delle varie “young guns” a roster c’è da puntare in alto da subito anche perché la situazione di cap non garantisce grande agibilità. Nel 2019 andranno a scadenza Jaylon Smith e Byron Jones che se replicheranno l’annata appena passata potranno pretendere contratti importanti e soprattutto bisognerà fare i conti con la questione quarterback e poco importa se il QB del futuro sarà Prescott o qualcun altro, di certo questo comporterà un impatto non da poco sul monte salari.
In virtù di tutto ciò saranno da valutare attentamente le posizioni di Demarcus Lawrence e Amari Cooper. Il primo potrebbe giocare un’altra stagione sotto franchise tag per rimandare all’anno prossimo l’eventuale negoziazione di un contratto che date le sue prestazioni andrebbe a occupare una parte sostanziosa del cap per le prossime stagioni, mentre per quanto riguarda il WR da Alabama la scelta potrebbe essere quella di non utilizzare la fifth year option da oltre 13 milioni per trattare un contratto pluriennale a cifre più sostenibili. E poi c’è Elliott che ha già esternato la sua volontà ad estendere il contratto. Sappiamo bene che Jerry Jones tende ad attendere la scadenza anziché estendere in anticipo ma sarebbe solo questione di tempo perché, parliamoci chiaro, per ragioni salariali si può rinunciare, a malincuore, a chiunque ma non a Zeke.
Nella prossima free agency i probabili sacrificati sull’altare del cap saranno Cole Beasley le cui pretese economiche non potranno, il linea di massima, essere soddisfatte e Sean Lee, cuore e anima della difesa da molti anni a questa parte, ma che per ragioni di età, infortuni ricorrenti e per l’esplosione di Vander Esch e Smith (anche se l’incompatibilità tecnica con le due rising star di fatto non esiste) potrà essere tagliato per liberare un po’ di spazio.
Come avrete capito, a Dallas non possono permettersi una programmazione troppo orientata al futuro, al contrario il focus della franchigia dovrà essere orientato a capitalizzare il potenziale di cui sono in possesso già dal 2019 per porre fine al digiuno e riportare il Lombardi Trophy in Texas. Perché Il tempo passa per e il rischio è quello di essere costretti ad assistere, almeno in parte, ad una diaspora del talento giovane attualmente a disposizione e di veder invecchiare Tyron Smith e Zack Martin col rimpianto di aver potuto fare tanto senza aver raccolto nulla.