L’inizio di stagione altalenante dei Dallas Cowboys ha creato, comprensibilmente, un clima di incertezza e insoddisfazione intorno alla franchigia texana. Qualcuno si è spinto oltre e con uno slancio spregiudicato ha lanciato sul popolare sito Change.org una petizione per chiedere il ritorno di Tony Romo in maglia white, silver and blue raccogliendo oltre mille adesioni.
Ovviamente la proposta è da considerarsi poco più che una burla e Romo continuerà a fare, splendidamente, il commentatore per la CBS ma il punto vero è che Dak Prescott si trova nuovamente ad essere additato come il responsabile numero uno di ciò che non va per l’America’s Team.
La relazione tra il quarterback da Mississippi State e i fan dei Cowboys è sempre stata meno solida di quella con l’altra stella Ezekiel Elliott. Già due anni fa, al tempo della memorabile rookie season di Dak&Zeke, era bastata qualche incertezza nel finale di stagione per far sì che buona parte dei tifosi affiancati dalla supposta autorevole stampa sportiva domandassero il ritorno di Romo nel ruolo di titolare per i playoff.
Dopo una seconda stagione deprimente, pienamente in linea con quella della franchigia, Prescott ha iniziato il 2018 in maniera complicata, 5 TD e 4 intercetti nelle prime cinque partite e un misero 81.4 di rating. Detto ciò, non ha alcun senso nella maniera più assoluta indicarlo come il principale responsabile delle difficoltà dei texani.
Sappiamo tutti che giocare per i Cowboys per giunta come quarterback vuol dire avere i riflettori costantemente puntati addosso, un po’ come per chi gioca per i Giants o per i Lakers o i Knicks nella NBA, e a finire nel tritacarne mediatico, social compresi, ci si mette un attimo. Dare adito a determinate tendenze magari potrà essere redditizio per scopi “giornalistici” ma non aiuta affatto a delineare una visione chiara e obiettiva delle cose. E proprio questo è il caso.
Di certo il rendimento di Prescott non sta migliorando le sorti della squadra ma incanalare le critiche in modo sproporzionato verso di lui porta a trascurare la globalità dei problemi che affliggono Dallas.
Il pacchetto ricevitori dei ‘Boys è poverissimo e produce davvero poco, Allen Hurns sta deludendo le aspettative, forse eccessive, nei suoi confronti e la telenovela Dez Bryant, tra polemiche continue sull’addio e tentazioni nostalgiche, prosegue ancora e di certo non porta alcun beneficio. Inoltre la mancanza di una valvola di sfogo per il gioco aereo come Jason Witten è evidente e pesante e la linea non è più la macchina da guerra degli anni scorsi, anzi fatica molto a garantire la giusta protezione al QB, il quale solo nell’ultima gara ha evitato almeno cinque sack esclusivamente grazie alle sue doti atletiche. E poi non si possono ignorare le carenze della guida tecnica.
Dopo la scorsa stagione tutto il coaching staff era sulla graticola ma alla fine Garrett e i suoi top assistants sono stati confermati. Ma se in difesa il lavoro di Marinelli in collaborazione con il nuovo arrivato Kris Richard sembra stia portando ad un percorso virtuoso di crescita lo stesso non si può dire dell’attacco, ancora afflitto dalle stesse criticità dell’ultimo anno. L’offensive coordinator Linehan persevera nel portare avanti un playbook ristretto e prevedibile facendo sì che gran parte del peso del gioco ricada in buona sostanza su un Ezekiel Elliott caricato di responsabilità insostenibili anche per un fenomeno del suo calibro.
Se contro Detroit si erano visti sprazzi di novità nelle chiamate offensive, nell’ultimo incontro perso con Houston il play calling è stato indubbiamente concausa della sconfitta. Certamente gli errori di timing e di esecuzione di Prescott ci sono stati e sono anche evidenti, il QB ha lanciato due intercetti e chiuso con 66.4 di rating ma come si può sparare a zero su di lui e nel contempo trascurare o sottostimare la cattiva gestione offensiva di Garrett e dell’OC oltre allo scarso rendimento del resto dell’attacco?
Criticare la produzione di Prescott è giusto e necessario per ripartire su un altro trend ma non si può negare ciò che è davanti agli occhi di tutti ossia che il suo rendimento è in linea quello del resto dell’attacco e che le le ragioni delle difficoltà della squadra vanno senz’altro oltre il numero 4.
Finora la sua carriera NFL ci dice che in un contesto performante riesce a brillare, viceversa quando le cose non vanno fatica ad andare oltre la mediocrità. Questo è un punto su cui a Dallas dovrebbero lavorare seriamente al fine di aiutarlo ad essere più trascinatore per il suo team accettando allo stesso tempo l’idea che Dak non possiede le doti taumaturgiche di un Rodgers a caso, ossia la capacità di rendere competitiva una squadra povera di talento e che perciò la franchigia vada costruita di conseguenza esclusivamente attorno a lui.
Fare ciò anziché biasimare Prescott per i problemi che derivano dagli errori di un front office che non è stato in grado di portare a Dallas dei ricevitori performanti, di colmare le carenze del coaching staff e di alzare il deficitario livello medio dei compagni aiuterà la franchigia a rimettersi in carreggiata per provare a raggiungere l’obiettivo dei playoff.