1) I JAGUARS SONO PIU’ COMPLETI DI UN ANNO FA
Una rondine non fa primavera, quindi una vittoria contro i Patriots non deve necessariamente proiettare i Jaguars al Super Bowl, od innescare discorsi secondo i quali un possibile rematch ai playoff tra le due contendenti debba virare il suo esito positivo verso la Florida. Di questo è assai prematuro parlare e le incognite ad oggi presenti sono ancora troppe per poter affrontare degnamente il discorso, in ogni caso la franchigia diretta da Tom Coughlin sta gettando solide basi per traguardi importanti.
Ciò che diviene perfettamente sostenibile oggi è il senso di maggior completezza che Jacksonville riesce a fornire dopo sole due prove di campionato, e qui dobbiamo richiamare in causa i vari fattori che avevamo citato un anno fa per proclamare la squadra di Doug Marrone tra le più migliorate tra la stagione scorsa e quella ancor precedente. Anzitutto la difesa, la colonna di questa franchigia, zeppa di giocatori in grado di produrre turnover e cambi d’inerzia, un reparto che sulla carta può zittire chiunque ed in qualsiasi circostanza. Quindi un gioco di corse produttivo, lanciato lo scorso anno da un Leonard Fournette alle prese con un’annata da rookie dove aveva ampiamente dimostrato di possedere talento e maturità per essere il running back principale cui affidarsi, assecondando una filosofia che credeva molto nel possesso e nella gestione del cronometro.
Blake Bortles non faceva parte dell’equazione, anzi, era l’anello debole della catena, il neo che separava Jacksonville dal poter percorrere tutta la strada fino in fondo. L’affermazione contro New England non garantirà il Super Bowl, ma chiarisce con evidenza quali siano stati i progressi di squadra durante la offseason, un processo che parte dal miglioramento della gestione della gara – fatto attestato dall’epilogo della stessa e dalla non concessione di un’altra sanguinosa rimonta a seguito di una partita stellare – ma che continua proprio con Bortles, il quale ha offerto la miglior prestazione in carriera per coscienza dei suoi mezzi, aggressività e capacità decisionale. Numeri di quel tipo – leggasi 377 yard e 4 mete – ne aveva già scritti in precedenza ma non contro avversari di questo calibro, non contro la pressione di dover portare a casa un rematch di quest’intensità.
La prestazione del quarterback aumenta di rilevanza se consideriamo l’assenza di Fournette ed il conseguente traslarsi del peso di dover rendere proprio in direzione del gioco aereo, e se teniamo conto della mancanza di una vera superstar nel reparto ricevitori. Bortles ha semplicemente preso la decisione giusta con la necessaria costanza, dimostrando di aver abbandonato la sua dimensione di giocatore di forti doti atletiche ma ancora grezzo per eccellere tra i pro, e che ora può essere davvero pronto a misurarsi nei palcoscenici più importanti, permettendo a Marrone di essere meno conservativo nelle chiamate anche in situazioni di vantaggio.
Poi la difesa, quella c’è sempre. Se imbavagli Tom Brady in più di un’occasione non ci sono santi che tengano. Ora che c’è anche il quarterback, i Jaguars diventano i favoriti d’obbligo per quanto riguarda ogni discorso riguardante la Afc.
2) TAMPA BAY HA UNA LEGITTIMA QB-CONTROVERSY IN CORSO
Abbiamo riso e scherzato con Fitzmagic e ci sta, non si riuscirebbe a fare altrimenti dato il modo rocambolesco in cui il barba da Harvard si è impossessato del primato aereo statistico di Lega contro qualsiasi tipo di remota previsione, nonché per tutto ciò che sta attorno ad un personaggio unico, capace di presentarsi ai media con un look da Saturday Night Fever.
Ora, sappiamo tutti che non è Fitzpatrick l’investimento più grande che i Buccaneers hanno eseguito negli ultimi anni e che quel posto spetta di diritto a Jameis Winston se non altro per l’esborso di denari, con il giocatore oggi squalificato ancora per un turno a seguito dell’ennesima dimostrazione di immaturità e pressoché totale mancanza di responsabilità nel raffigurare la faccia di una franchigia professionistica come andrebbe invece richiesto. Nulla di perfettino alla Matt Ryan, per carità, certo che se almeno si evitassero le palpatine gratuite e tutto ciò che ha preceduto questa nuova disavventura a Tampa avrebbero certamente meno preoccupazioni di aver gettato via le proprie risorse.
Il fatto è che Winston non c’è, l’attacco funziona ed i Bucs sono 2-0 avendo battuto Saints ed Eagles (!!), una sentenza a dir poco intimidatoria nei confronti di una situazione molto difficile da sbrogliare, a meno che Fitzpatrick non torni se stesso nel corso della prossima gara e confezioni un turnover dietro l’altro. Però dobbiamo guardare la realtà dei fatti, ed il campo oggi ci dice che sono tutti felici e contenti di ricevere il pallone perché più spesso che no ci si trova a segnare sei punti più l’addizionale, che DeSean Jackson non è più l’oggetto misterioso della stagione scorsa e potrebbe seriamente pensare di riscrivere cifre che nessuno più gli attribuiva, che Mike Evans può siglare un numero molto maggiore di mete rispetto alle sole cinque del 2017, che O.J. Howard un freak atletico lo è davvero per giocare tight end, e potrebbe vedere il suo potenziale emergere con violenza se innescato nella giusta maniera. Tutto questo è accaduto in una sola volta, con Fitzpatrick in campo, per giunta senza alcun progresso in un gioco di corse nullo esattamente come lo era dodici mesi fa.
No, Fitz non proseguirà la stagione a questi ritmi perché è fisiologicamente impossibile, ma le sue clamorose prestazioni avranno senza dubbio aumentato i punti di domanda presenti nel cervello di Dirk Koetter, che grazie al barba è passato dall’essere il primo possibile coach silurato al rappresentare il timone di una possibile sorpresa stagionale. Il comportamento di Winston già non depone a suo favore ed il suo futuro in Florida – paragonando la sua ad altre circostanze simili, con l’aggravante che Winston andrà presto in tribunale e non sarà la prima volta – ci pare tutt’altro che scontato, e poi c’è da considerare un livello decisionale mai davvero progredito al punto di farne un franchise quarterback, pur non dimenticando tutti i lampi di genio di cui l’ex-Florida State è capace.
Ipotizziamo che Fitzpatrick giochi un’altra partita rilevante contro gli Steelers – la difesa di Pittsburgh ci suggerisce che non è impossibile – e Koetter entri nella settimana di ritorno di Winston con una patata più bollente del previsto: di sicuro la decisione non sarà automatica, non sarà facile togliere ritmo all’attacco ed abituarsi nuovamente – parliamo dal punto di vista dei ricevitori – allo stile di un altro quarterback, che ha già peraltro dimostrato in passato di non effettuare correttamente tutte le progressioni nelle letture dimenticandosi dei ricevitori aperti. E qualunque si la strada percorsa, la controversia è già in atto: Fitzpatrick fuori subito per far posto all’ex-prima scelta? Fitzpatrick di nuovo dentro alle prime difficoltà di Winston? Offseason da spendere cercando un nuovo quarterback del futuro, esigenza dettata tanto dai 36 anni di Fitz quanto dal tasso di maturità del presunto titolare?
Buon lavoro…
3) SENZA GIOCO DI CORSE I REDSKINS VALGONO POCO O NULLA
Ci scuserete se il paragrafo somiglia in maniera piuttosto sinistra a qualcosa che avevate già letto nelle prime settimane della scorsa stagione, ma a volte in Nfl ci sono aspetti che non cambiano. Cleveland ce lo insegna più o meno tutte le settimane vista la ferrea volontà nel non vincere le partite fattibili, a Washington la situazione non è così tragica, ma il senso di stantio che da anni pervade questa ex-gloria degli anni che furono sta oramai diventando insostenibile.
Qual è il problema? Bella domanda, tentiamo di fornire una risposta sensata attivando una sorta di concorso di colpe. Lungi da noi il voler essere eccessivamente ripetitivi, ma durante la breve presenza di Scot McCloughan come general manager qualcosa si stava incominciando a vedere, se non altro dal punto di vista della logica costruttiva del roster. La provvisorietà della situazione di Kirk Cousins, nonché le tempistiche di licenziamento di McCloughan (con la Scouting Combine alle porte) ha mostrato altri preoccupanti segni d’instabilità negli uffici della Capitale, non una novità. Jay Gruden è il coach più longevo dell’era Dan Snyder, ma i risultati parlano di una stagione su cinque con la qualificazione ai playoff, per il resto né carne né pesce, lo stesso tipo di sensazione che partite come quella di domenica scorsa contro i Colts sono in grado di evocare.
Nulla che sia in grado di sopire l’entusiasmo per la presenza di Alex Smith, nulla di così catastrofico, ma quando una storia la si è già letta così tante volte senza sostanziali variazioni d’epilogo, è chiaro che la noia prenda il sopravvento. La difesa appare tornata ai livelli di due o tre stagioni fa, ovvero un reparto in grado di adattarsi con rapidità all’avversario limitandone le caratteristiche migliori, fatto di giocatori dotati di rapidità d’intervento come Brown e Foster, delle secondarie giovani ma finora affidabili, una linea in grado di fornire spinta costante (anche se inefficiente contro le corse di Indianapolis, va detto). L’attacco continua invece imperterrito nei suoi non-progressi, lo si era già visto in Arizona nonostante la vittoria sonante, perché se i Redskins non impongono il loro gioco di corsa diventano irrimediabilmente improduttivi.
I motivi sono da distribuire un po’ dappertutto, ma la responsabilità primaria crediamo possa ricadere su un reparto ricevitori mediocre, che non vede la presenza di un giocatore in grado di fare veramente la differenza. Toglieremmo dal ragionamento Jamison Crowder per come si è prodigato verso la causa passando dall’essere un giocatore dalle possibilità limitate dal fisico al divenire il leader statistico del gruppo delle ultime due campagne, molte responsabilità vanno invece verso Josh Doctson, un oggetto misterioso che pare un draft bust sempre maggiore ogni partita che passa, un giocatore che ha patito l’aggravante degli infortuni ad inizio carriera ma che di certo la consistenza non l’ha mai mostrata, ed è lecito chiedersi se l’esplosione tanto attesa arriverà mai.
Se le speranze sono quelle di sempre, ovvero trasformare Chris Thompson nel ricevitore principale, nello sperare nelle giocate di Jordan Reed e nella sua salute, rivolgersi a Vernon Davis quando serve, oltre all’onta di vedere Crowder terminare una partita come miglior running back di squadra: a tali condizioni, poco conta chi c’è a ricevere lo snap dal centro. I problemi dei Redskins vanno molto più in profondità della resa di Cousins o Smith, e Gruden non può più permettersi di accampare scuse. Il prossimo ostacolo si chiama Aaron Rodgers, il che accentua le probabilità di vedere Washington a quota 1-2, con l’ennesimo campionato in salita.
Direzione cercasi, urgentemente.
4) QUALCOSA NON TORNA NELLE VALUTAZIONI DEI KICKER
Non siamo presenti al campo d’allenamento, non siamo coach di special team, non teniamo la contabilità di nessuna squadra. Tentiamo di capire, senza tuttavia riuscirci del tutto, i ragionamenti che le varie franchigie eseguono a livello tecnico ed economico, ma alcune valutazioni sono destinate a sfuggirci in ogni caso, e la perplessità lasciata dalla situazione-kicker di tante squadre Nfl non fa che aumentare la difficoltà dell’impresa.
Spesso un kicker veterano costa troppo, e gli viene preferito un collega più giovane e meno incisivo sul salary cap, in un ruolo che richiede esperienza ed una componente psicologica senz’altro più forte di qualsiasi altro settore si voglia parlare. Tenere a bada i battiti cardiaci ed il tremore degli arti, tenere a mente la perfezione del movimento da eseguire, calcolare forza e precisione con tutta la pressione del mondo addosso è davvero tra le cose più difficili da fare in Nfl, c’è il peso di un risultato da portare a casa, l’evitare la delusione di mandare a monte tutti gli sforzi dei compagni, la possibilità di giocarsi la carriera con un calcio decisivo nei playoff. Il kicker è nettamente il soggetto più teso a livello nervoso rispetto a qualsiasi altro compagno, ed ecco il motivo per cui l’esperienza e l’aver già calciato in determinate condizioni è spesso preferibile rispetto ad un rookie.
E qui torniamo alle valutazioni prettamente economiche, i kicker sono giocatori da giri bassissimi oppure ottenibili dalle matricole rimaste poi free agent, con vantaggi contrattuali a favore della squadra. Alcuni esempi ci suggeriscono che la gestione della faccenda non è però semplice come sembra, e la stagione ha già mietuto le prime due vittime, Zane Gonzales e Daniel Carlson, che seguiranno le prossime settimane di gioco dal divano di casa per aver influito piuttosto negativamente sulle sorti di Cleveland e Minnesota. Il primo ha fallito due calci decisivi – uno bloccato, va detto – in altrettante settimane, i quali avrebbero potuto modificare l’attuale computo dei Browns tra vittorie, sconfitte e pareggi assortiti (2/4 e due extra point mancati solo domenica…), il secondo ha offerto una prova indegna come da tempo non si vedeva fallendo ben tre opportunità, impedendo ai Vikings di battere i Packers in uno scontro divisionale che potrebbe avere seriamente a che fare con la futura griglia dei playoff.
Ciò rimette in pista Dan Bailey, secondo kikcer più preciso della storia del gioco e già in volo verso Minneapolis (nonché tra i tagli più clamorosi relativi alla discesa dei roster a 53 giocatori di Dallas, seppur consideratone il recente passato di problemi fisici ed un costo ben superiore rispetto a quello che i Cowboys debbono attualmente sopportare per Brett Maher) mentre a Cleveland è già arrivato Greg Joseph, che aveva perso la concorrenza estiva a Miami a vantaggio di Jason Sanders, e che al College ha tenuto una media di realizzazione leggermente inferiore al 70%, quando la Nfl richiede una precisione di gran lunga maggiore.
Questo modo di ragionare, quando in giro ci sono free agent come Nick Novak, Cairo Santos, Giorgio Tavecchio e Patrick Murray, ci sfugge giusto un pochino.
5) DOPO IL DEBUTTO DI JOSH ALLEN, SI AVVICINA ANCHE QUELLO DI JOSH ROSEN
La disastrosa performance di Nathan Peterman ha già spianato la strada a Josh Allen, e quanto visto nelle due domeniche d’apertura da parte dei Cardinals parrebbe indicare una simile sorte per Josh Rosen, che peggio di Sam Bradford non dovrebbe proprio fare. Bradford non va colpevolizzato al di là delle sue limitate responsabilità, i Cardinals di quest’anno sono una catastrofe apparentemente senza rimedio al punto che Steve Wilks sembra più confuso che altro sul prosieguo della sua esperienza nel deserto, considerato che la squadra non ha bisogno di ritocchi, ma di una vera ristrutturazione in tutti i reparti.
L’attacco ha ottenuto solamente cinque primi down nella gara nettamente persa contro i Rams, ha varcato la metà campo quand’era oramai l’ora di rientrare in spogliatoio per le interviste finali, ha segnato un totale di 6 punti stagionali ed una meta sembra oramai un’oasi illusoria. Il tutto mentre la difesa è andata a concedere più di 800 yard in due apparizioni, statistica certamente frutto della stanchezza e della frequenza con cui il reparto deve esibirsi a causa dell’impossibilità dei colleghi offensivi di creare una qualsiasi azione in grado di muovere le catene, una situazione per larghi tratti esplicabile attraverso le prestazioni di una linea offensiva che non riesce né a proteggere adeguatamente il quarterback, problema che con un Bradford oramai immobile a causa delle tante operazioni alle ginocchia diventa insormontabile, e né a creare gli spazi giusti per permettere a David Johnson di tornare ad essere se stesso, una crisi che non sembra destinata a risolversi nell’immediato, perché il gioco offensivo del reparto coordinato da Mike McCoy è asfittico e prevedibile, non si osa praticamente mai.
Ora resta da comprendere il come Wilks intenderà affrontare il resto della stagione, con l’amara sensazione di vedere il tutto già compromesso alla seconda giornata di campionato. E’ difficile raddrizzare una squadra pessima dal mattino alla sera, e se davvero i giocatori promossi al posto di altri dovessero essere più d’uno come si è fatto intendere in conferenza stampa, sarà doveroso mettere in preventivo un periodo di adattamento per tutti. Ed una di queste situazioni riguarderà presto Rosen, se non altro per costruirci un po’ di futuro sopra. Se poi tale futuro apparterrà anche a Wilks, questo è un altro discorso.
6) PATRICK MAHOMES E’ UN VIDEOGIOCO VIVENTE, MA SERVE ANCHE LA DIFESA
Fateci pure l’abitudine, perché il nome di Mahomes – continuando con tali ritmi – potreste vederlo settimanalmente su queste righe, con notevoli difficoltà per il sottoscritto nell’inventare altri quattordici titoli creativi per il paragrafo in questione. D’altro canto lasciar fuori Mahomes dall’attualità è impossibile, perché di tale realtà lui è il protagonista assoluto di questo inizio di campionato.
Che dire, dinanzi ad un ratio di 10 passaggi da touchdown (record Nfl per le prime due gare di campionato) contro nessun intercetto c’è solo da rimanere increduli e tentare di richiudersi la bocca prima di assumere troppo a lungo un’espressione stupita. I numeri sono da capogiro, parliamo di un’efficienza che vede un ragazzo praticamente senza esperienza leggere correttamente la gran parte delle situazioni che deve interpretare prima dello snap, che prende sempre la decisione giusta e non fa danni, e questo non fa che ricordarci tutte le dichiarazioni rilasciate da Andy Reid in un periodo estivo dove Mahomes veniva strettamente monitorato dai media, per capire quali potessero essere le conseguenze della consegna delle chiavi di squadra con quel livello di fiducia da parte del coaching staff. Allora Reid aveva spiegato più o meno a tutti che il processo sarebbe stato certamente accompagnato da una maturità da acquisire strada facendo, che avrebbe presentato un obbligatorio conto a livello di palle perse prima di raggiungere il livello desiderato.
Quindi le soluzioni sono due: o si trattava delle solite dichiarazioni di facciata che Reid aveva agevolmente confezionato per fornire un’opportuna misdirection ai giornalisti, ridendosela sotto i baffi mentre già godeva al pensiero di far vedere al mondo cosa avrebbe combinato il suo ragazzo-prodigio, oppure Patrick è davvero maturato con una tempistica davvero inaspettata, traslando in campo tutta l’annata passata ad imparare il professionismo sotto l’ala protettrice di Alex Smith (un segno di grande professionalità di quest’ultimo, che già sapeva di avere il futuro segnato), osservando, prendendo appunti, immaginando le varie situazioni e le decisioni da prendere. Il frutto di questo lavoro è già ben visibile, con il risultato di vedere i Chiefs come una macchina offensiva inarrestabile fino a prova contraria. Mahomes manovra i defensive back con lo sguardo per creare la separazione giusta al ricevitore designato, tutti sono felici e contenti di far parte di un reparto dove ognuno ha la possibilità di segnare spesso, ed armi letali come Tyreek Hill e Travis Kelce possono sfruttare il loro potenziale a pieni giri.
E’ come nel più classico dei videogiochi, parte lo snap, la palla va via subito, c’è sempre un ricevitore libero, ed è difficilissimo arrivare a mettere le mani addosso al quarterback, sembra di giocare a Madden 2000 con i St. Louis Rams. Poi però c’è anche la fase difensiva, e Kansas City ha già concesso più di 1.000 yard in due gare e 32 punti di media, statistiche francamente preoccupanti nonostante le avversarie siano state due ottime squadre offensive come Chargers e Steelers. A breve ne sapremo di più, perché incombono impegni consecutivi contro Jacksonville (il test per definizione nella Afc di quest’anno) e Denver, due difese che potrebbero mettere in difficoltà questa macchina dei divertimenti.
Prima di proclamare i Chiefs come contendenti assoluti, c’è da capire come la squadra reagirà alle prime fasi d’avversità. Stiamo a vedere, ma nel frattempo lo spettacolo visivo è garantito. E Mahomes è davvero un fenomeno.
7) A CHICAGO SI VEDE FINALMENTE LA LUCE
Il nuovo regime pare aver portato i suoi buoni frutti a Chicago, che senza un intercetto lasciato cadere a terra durante la prima di campionato oggi potrebbe comodamente vantare un bilancio di 2-0. L’aspetto più evidente non può che essere l’impatto difensivo avuto da Khalil Mack, che sta offrendo prestazioni da All-Pro devastando linee offensive assortite eseguendo giocate per sé ma soprattutto per i compagni, vestendo il ruolo della minaccia ad ogni santo snap, tanto da far sorridere nel vedere i Seahawks tentare di rallentarlo con una spintarella del tight end. Il reparto stava già crescendo degnamente prima del suo arrivo, ma oggi ne è addirittura galvanizzato, e la partenza è stata niente meno che bruciante. Akiem Hicks, Danny Trevathan, lo stesso Roquan Smith protagonista delle lunghe questioni contrattuali estive, sono tutti corresponsabili di un avvio di torneo che fa davvero ben sperare per la crescita progressiva di questa franchigia, che dopo quattro anni di totale buio comincia finalmente a trovare un corretto senso di marcia.
Ora il passo determinante lo deve compiere un attacco ancora acerbo ma molto promettente, più o meno le stesse qualità rivestite dal suo nuovo leader, Mitch Trubisky. La questione determinante riguarda Matt Nagy e tutti i benefici apportati allo sviluppo di un regista ancora giovanissimo ma dai certi margini di miglioramento, un atleta che si presta benissimo alle creative idee offensive dell’ex-coordinatore dei Chiefs, nonché la presenza di Mark Helfrich, il cui ultimo impiego l’aveva visto a capo delle operazioni dell’università di Oregon – un College dove l’inventiva non è mai mancata – il che ha creato i giusti presupposti per l’unione di idee che sta portando i Bears a formarsi in quello che propongono oggi sul campo.
Il che è certamente un bel vedere, tanto meglio se poi si vince pure. Trubisky è un quarterback assai mobile che permette quindi l’utilizzo di situazioni in option con tutte le conseguenze che ciò comporta per la preparazione difensiva, ed è diventato un passatore tutto sommato preciso quando nella possibilità di essere in ritmo con soluzioni di lanci non superiori alle 10/12 yard. Quanto fatto finora da un ragazzo di ventitré anni giunto in Nfl con pochissima esperienza collegiale da titolare non è affatto di poca rilevanza, in fin dei conti gli si sta chiedendo di non sbagliare ed interpretare correttamente le situazioni di gara mettendo a disposizione le gambe per tutte le emergenze possibili, e la risposta ci sembra senza dubbio positiva.
Chiaro, c’è da migliorare la fase sul profondo dove le percentuali di completi non sono ancora soddisfacenti ed il rischio di intercetto si alza, nel frattempo i Bears stanno cercando di imporsi come squadra bilanciata, in grado di correre bene il pallone creando i presupposti per i giochi in option con play-action abbinata al pacchetto, e per sviluppare un attacco ad alta densità pur non coprendo chissà quali spazi del campo, senza contare la buonissima efficienza in situazioni di goal line, dove la fantasia delle chiamate di Nagy comincia a fare la differenza. Corredando queste caratteristiche offensive ad una difesa che ha registrato 5 sack di media a gara e provocato valanghe di turnover in due sole esibizioni, la ricetta sembra proprio essere quella giusta.
Ed i Bears, prima o poi, potrebbero riprendersi il posto di loro spettanza all’interno di una Lega all’interno della quale hanno scritto tanta pagine leggendarie.
8) LE MOSSE DEI PATRIOTS DIMOSTRANO L’URGENZA DI RIAVERE EDELMAN
L’attacco dei Patriots è in flessione rispetto alle straordinarietà a cui la squadra ci ha abituati negli ultimi anni, e la questione è evidentemente supportata dalle statistiche. Qualsiasi head coach firmerebbe con il sangue per avere i risultati di Bill Belichick con il materiale attualmente a disposizione, sia chiaro, ma le opzioni a disposizione di Brady che non portino il nome Gronkowski cucito sulla maglia non sembrano un qualcosa di esattamente eclatante.
Si rischia quindi di dover rinunciare all’abitudine di leggere il nome Patriots abbinato ai numeri uno, due e tre nelle statistiche di produzione offensiva, e seppure Tom Brady abbia fatto letterali miracoli in passato in condizioni simili a queste, le perdite di offseason tra i ricevitori stanno rivestendo un’importanza capitale, tanto da creare una situazione di emergenza assodata dai continui (e talvolta confusi) movimenti di mercato che la dirigenza di New England sta cercando d’imbastire. L’urgenza di riavere i servigi di Julian Edelman è toccabile con mano, perché le partenze di Brandin Cooks e Danny Amendola, il cui contributo a New England è stato probabilmente sottostimato, non sono rimpiazzabili con un nucleo di secondi tentativi, ed il pur concreto Chris Hogan non rientra esattamente nella lista delle prime venti o trenta migliori possibilità che il ruolo possa offrire.
Si intravede qualche timido segnale di speranza da Philip Dorsett, una speranza a cui i Colts hanno rinunciato dopo sole due stagioni abbondantemente sotto il par per quello che doveva essere un importante pezzo del meccanismo offensivo di Indianapolis, sul quale Belichick è piombato come un falco per vedere di raddrizzarne le prospettive e trovare il modo di sfruttarne appieno le potenzialità. Per qualche giorno ci hanno provato anche con Corey Coleman, ma qui c’era solo puzza di causa persa, e la cosa è decaduta in tutta velocità. Oggi c’è Josh Gordon, reduce dall’ennesimo episodio di inaffidabilità che ne ha macchiato la carriera, un giocatore che continua a ricevere possibilità ben oltre i suoi meriti proprio perché possiede un talento che raramente si vede, tanto da investirci una scelta di quinto giro e vedere che nasce.
Gordon porta con sé più dubbi che certezze, e non dobbiamo certo dimostrarlo con esempi noti a tutti. Dovrà sottoporsi ad un regime ben più ferreo rispetto a quanto trovato a Cleveland, dove aveva goduto del lusso di saltare parte del training camp per risolvere i suoi vizi ed i problemi di testa in un processo che dura oramai da anni, ed anche in questo caso ci si prova, perché poi l’esito può andare in una qualsiasi delle due direzioni possibili. Rimane in ogni caso una firma che dimostra la scarsa profondità nella batteria di ricevitori dei Patriots e giustifica la furia di Brady sulla sideline, ma soprattutto che Edelman è atteso come l’acqua nel deserto.
Chissà che le prossime due settimane, le ultime che Julian dovrà scontare per squalifica, passino molto velocemente.
9) LE SCONFITTE DEI BROWNS SONO FERITE AUTO-INFLITTE
Di Zane Gonzales abbiamo già parlato sopra, ed è persino troppo ovvio come il kicker sia diventato il capro espiatorio per una situazione le cui problematiche vanno molto in profondità di un calcio spedito a lato. Questo lo sosteniamo perché va giudicato il contesto nel suo complesso considerando le opportunità che la squadra ha gettato al vento supportata da una difesa davvero competitiva, situazioni che, se finalizzate nella maniera corretta, non avrebbero fatto pesare i calci mancati da Gonzales nello stesso modo in cui pesano oggi.
E’ vero che Cleveland poteva essere 2-0 per una questione di centimetri, ma questo ci racconta solamente una parte della verità. Se l’attacco avesse messo in campo la grinta che serve dopo un turnover recuperato dalla propria difesa, quale sarebbe stato il risultato finale della partita? Se la gestione delle chiamate fosse stata consona alla situazione di gioco, sarebbe stato necessario affidarsi ad un calcio risolutore quando c’era la possibilità di gestire un vantaggio in maniera del tutto differente? Sono domande pesanti a cui rispondere per un coaching staff, per cui la logica va molto al di là dell’operato di Gonzales, si tratta – ancora una volta – del mancato cambiamento di una cultura generale che ha reso questo ambiente ridicolo per troppi anni.
Pittsburgh prima e New Orleans poi hanno tentato di tutto per perdere la partita, ma Cleveland è rimasta impassibile a guardare cosa succedeva, sperando nel meno peggio. Gli Steelers hanno commesso una marea di turnover e fazzoletti gialli, i Saints hanno perso due fumble nel solo primo quarto ed hanno giocato un primo tempo stranamente conservativo, sbagliando l’approccio alla gara. Nella Nfl questi errori non vengono perdonati dall’avversario, il cinismo è d’obbligo in queste situazioni, in parecchi altri casi sarebbe bastato eseguire un esercizio tra i più logici richiesti dal football americano, il saper convertire in punti gli errori degli altri. Si chiamano fondamentali ed i Browns ancora non li sanno applicare, perlomeno in fase offensiva. Le squadre come i Saints possono giocare malissimo a portarla a casa lo stesso, applicando la lezione al contrario.
Quindi, Gonzales è parte di questi discorsi senza alcun dubbio, però se Hue Jackson vanta 1-31-1 nella sua esperienza marrone – c’è chi è stato silurato avendo fatto molto meglio di così – un motivo ci deve pur essere.
10) I COLTS POSSONO VINCERE ANCHE NELLE CATTIVE GIORNATE DI LUCK
Quale miglior novella per una squadra in ricostruzione che ha appena recuperato il suo tassello più importante? La prova di Washington è stata determinante nell’attestare che Indianapolis è una squadra possibilmente migliore del previsto, e che non servono necessariamente 400 yard di Luck per avere una flebile speranza di vittoria. Si può vincere anche nelle giornate storte, con il numero 12 fermo a quota 200 yard e responsabile di due cattive letture conseguite in altrettanti intercetti nel secondo tempo, e lo si può fare esponendo la merce che i Colts hanno recentemente assemblato per tentare di diventare nuovamente una squadra rispettabile.
Non ci sono grandi nomi di cui prendere nota, ma nel football serve più l’efficienza che il resto. E serve giocare bene di squadra. Per questo i Redskins sono stati presi in contropiede dalla funzionalità di un attacco di corse che non è mai stato davvero pericoloso in questi ultimi anni, merito della sintonia esistente tra la fisicità della linea offensiva e la capacità dei vari running back coinvolti di leggere correttamente i varchi, nonché dalla capacità dei cinque davanti di tenere lontana la pressione da una spalla che deve subire il minor numero di colpi possibile. La’Raven Clark e Joe Haeg dovrete probabilmente cercarli nei più minuziosi dettagli del roster, ma sono stati proprio loro tra i protagonisti maggiori di una gara dove – senza Anthony Castonzo – Ryan Kerrigan è stato letteralmente cancellato dal campo, e che hanno spinto con forza e costanza imponendo il gioco di corse nelle prime serie offensive dei Colts, facendo passare molto tempo prima che Washington potesse capirci davvero qualcosa e limitare le 4.75 yard per portata combinate da un Marlon Mack ancora acciaccato ed un Jordan Wilkins molto determinato.
Belle notizie giungono anche dalla difesa, grazie alla prova-monstre di Darius Leonard, sdoppiatosi in più punti del campo mettendo assieme la rara bellezza di 18 placcaggi, fornendo il cuore del reparto di una macchina da guerra come da tempo in loco non se ne vedevano. Se poi due tackle, uno dei quali un sack, a livello statistico dicono giusto qualcosina, è consigliabile rivedere la partita di Margus Hunt, un moto perpetuo che ha creato scompiglio ovunque, una vera forza emergente che il nome è destinato a farselo in Nfl, a patto che applichi la costanza necessaria (la grinta di certo non manca) e che la salute lo preservi a dovere. Lui è uno di quelli che fanno cose che non si leggono nelle statistiche, occhio a non sottovalutarne l’impatto.
In questo, ed in tanti altri settori, i Colts sembrano finalmente cresciuti.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.