Il kickoff della stagione regolare 2018 non è stato ricco di punti e sorprendente nel suo esito come invece accadde un anno fa, quando i Kansas City Chiefs seppellirono i Patriots sotto gli attoniti sguardi dell’intero mondo del football americano.

Quella tra Philadelphia ed Atlanta non è stata una partita spettacolare per azioni offensive, lo si evince da una semplice lettura di un 18-12 finale che racconta di una gara giocata particolarmente bene dalle difese e costellata di penalità, segno che molti meccanismi necessitano con tutta probabilità di un’altra passata d’olio prima di poter girare al meglio. Ed attenzione, non parliamo certo di Julio Jones e Devonta Freeman, stelle tenute a riposo per tutta la preseason evitando accuratamente loro qualsiasi tipo di problema fisico in vista dell’ufficialità del campionato vero, dato che l’asso con numero 11 ha letteralmente banchettato contro le secondarie dei campioni in carica collezionando le prime 169 yard di quello che si profila come l’ennesimo percorso a quattro cifre, e di un runningback sostanzialmente ingiudicabile per come il piano partita abbia visto lo staff dei Falcons evitare le corse come fosse la peste nera a seguito del problema al ginocchio destro patito da Freeman medesimo.

La squadra meno cosparsa d’olio è invece parsa essere la stessa che ha festeggiato la sua prima apparizione al Lincoln Financial Field dopo la conquista del Super Bowl, se non altro perché i protagonisti della gloriosa cavalcata sono sembrati ancora lontani dall’impresa compiuta lo scorso febbraio nel terreno neutro di Minneapolis, occasione nel quale lo stesso reparto offensivo – oltre ad Alshon Jeffery, oggi non ancora pronto a scendere in campo, causa spalla – aveva messo in atto uno spettacolo decisamente differente da quello visto in questo giovedì notte d’apertura.

Si può criticare finché lo si desidera, si può far tranquillamente notare l’inefficienza della prestazione di un Nick Foley sotto le 4 yard di media per passaggio completato ed i numerosi drop di un Zach Ertz molto in difficoltà anche nei bloccaggi, ma alla fine dei conti l’aspetto determinante della questione è vincere, e chi lo fa ha sempre ragione. Siamo comunque in principio di ostilità e la cosiddetta ugly win depone tutta a favore di Philadelphia, perché Doug Pederson avrà ora una decina di giorni per far riposare i suoi giocatori, analizzare in profondità i filmati, aggiustare e pensare ai prossimi avversari, i Buccaneers, e farà tutto questo dall’alto di una vittoria ottenuta contro una delle squadre comunque più attrezzate per fare strada nella Nfc, a patto che vengano risolte alcune problematiche determinanti. E, particolare da non tralasciare, potrà nuovamente interagire con lo staff medico e capire i progressi di Carson Wentz senza la pressione di dover rimediare ad una brutta partenza, con tre giorni di calendario in più rispetto al normale.

Un lusso, quindi.

In un clima di immobilità offensiva e di scarsa concretezza nella finalizzazione dei drive, Pederson ha estratto il classico coniglio dal cappello. Di nuovo. “I plead the fifth” aveva detto ai microfoni della Espn nel corso di un’intervista precedente alla gara, a chi gli chiedeva semmai avesse mai seriamente pensato di ripetere l’esperimento “Philly Special” in questo opener, una domanda sicuramente pertinente ma non così del tutto scontata, dal momento che già uno schema normale viene immediatamente cestinato dopo essere stato chiamato, ed a maggior ragione sarebbe venuto da pensare per un gioco-trucco che resterà per sempre raffigurato negli annali della storia sportiva della città dell’amore fraterno.

Lo schema “Philly Philly”, più simile a quello che aveva visto Tom Brady droppare il pallone al Super Bowl che non a quello poi vincente escogitato dagli Eagles, ha avuto il merito da rompere la mediocrità della partita, di iniettare un minimo di fiducia nelle possibilità di riuscire a scalfire la valida difesa avversaria – attrezzata di un leader mica da scherzare, Deion Jones – di accendere un pubblico che prima di allora era rimasto silente, persino in difficoltà nel tentare di riconoscere i propri beniamini. Una delle chiavi di lettura del confronto è proprio qui, inserita nel primo di soli tre drive dove le contendenti sono riuscite a produrre una meta, due dei quali hanno visto Jay Ajayi esibirsi in festa dentro l’area di meta meritandosi le prime segnature personali dell’anno, proprio lui che attraverso le sue 15 portate era stato l’unico a dimostrare di poter smuovere tutta la passività dimostrata dai padroni di casa fornendo un punto di correzione alle numerose sviste di Foles.

L’impressione principale rimane sempre la stessa, comunque si volga la questione: è stata una gara persa da Atlanta, più che il contrario, e questo lo sosteniamo senza venir meno a tutti gli evidenti meriti difensivi di un reparto che ha vinto tantissime battaglie sulla linea di scrimmage atterrando e colpendo Matt Ryan più volte, e facendolo man mano che la stanchezza si accumulava e le azioni diventavano decisive, sguinzagliando la furia di protagonisti assoluti come Chris Long e Fletcher Cox, realizzando giocate perfette al momento giusto (ottime le chiamate di Jim Schwartz nei terzi down) grazie al contributo, su tutti, di un Ronald Darby magari non sempre impeccabile ma appunto pronto ad annullare Jones in tutte quelle azioni in cui i Falcons avrebbero avuto bisogno di una disperata conversione per rinnovare le dieci yard.

Atlanta è ripartita esattamente dal medesimo punto in cui si era inchiodata la sua stagione, proseguendo nel coltivare la sua personale maledizione nelle ultime 20 yard. Una macchina pronta a funzionare meravigliosamente una volta scrollatasi un po’ di polvere di dosso grazie alla connessione Ryan-Jones, fenomenale nel racimolare yard in qualunque circostanza non riguardasse quei dannati ultimi metri ma di fatto inutile nel fornire attenuanti per il 26% di terzi down convertiti, per un intercetto in redzone che Ryan ha davvero calibrato male, e per i numerosi tentativi di cui i Falcons hanno fruito negli ultimi secondi per vincere, sbagliando a ripetizione a causa di imprecisione e mancato contenimento della pass rush avversaria.

Tanto lavoro ancora da svolgere per Dan Quinn dunque, ed il persistente dubbio che forse sia già giunto il momento di allarmarsi se non altro perché si ha per le mani una squadra che sulla carta può produrre tantissimo e competere con il meglio della sua Conference, una storia che la realtà – per quanto prematuro sia emettere sentenze – racconta in maniera del tutto differente.

Nel mentre Pederson ha cucinato un’altra succulenta pietanza per stupire la sua gente, quasi più saporita della leggendaria Philly Steak. Continuando su questa strada, oltre che ad un coach già in possesso di un anello assai vistoso, potremmo anche ritrovarci davanti ad un vero e proprio chef del football, in grado di vincere con costanza grazie ad un coraggio e ad una creatività che non scopriamo di certo oggi.

 

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