L’approssimarsi dell’estate Nfl rappresenta un momento nel quale ciascun appassionato ha già abbondantemente ricaricato quelle pile usurate dalle scorpacciate di partite visionate nella stagione precedente, ed è un periodo nel quale le franchigie si sono già raggruppate per svolgere la prima fase di lavoro effettuando le prime valutazioni sulla futura composizione dei roster definitivi. In condizioni normali saremmo pienamente concentrati su ogni minimo dettaglio riguardante la squadra preferita o i team di maggior interesse, cercando di carpire ogni indicazione utile dai mini-camp per sopperire alla mancanza di football giocato, una necessità fisiologica comparabile alla soddisfazione della sete nel deserto arrivati a questo punto dell’anno, visti gli oramai cinque mesi del tutto privi di ebbrezze da pigskin.

Ci stiamo purtroppo accorgendo che tali condizioni di normale hanno oramai assai poco, in quanto la Nfl è assorbita da una costante ambientazione climatica intrisa di polemica, quasi ci fosse l’assoluto bisogno di riempire le semi-eterne pause con qualcosa di estremamente scenico. In passato toccò al Deflategate il compito di tenere altissima l’attenzione mediatica e del pubblico di affezionati al gioco, più recentemente l’occhio di bue si è spostato sull’ancor oggi clamorosa assenza d’impiego per Colin Kaepernick, erettosi nel frattempo a coraggiosa voce di una generazione di atleti, ed ora ecco pervenire un’ulteriore stretta nella morsa divisoria creata a puntino dall’amministrazione Trump, i cui dettami dittatoriali hanno visto propagarne gli effetti pure all’interno di importanti decisioni riguardanti lo statuto medesimo della National Football League, come ci ha spiegato molto bene il nostro Mattia Righetti in questo articolo, senza poi dimenticare l’elegante rescissione d’invito ai campioni in carica di Philadelphia.

La offseason di football non è più quindi solo una passeggiata che si svolge tra Draft, mini-camp, training camp e Hard Knocks, è divenuta anche una questione che sta dilagando su diritti civili, libertà espressiva, ed elementari giochini mentali perpetrati dal presidente di una delle nazioni più potenti che il pianeta conosca. Sono circostanze in cui la Nfl ha ossequiosamente abbassato la testa dinanzi agli ordini dall’alto accettando passivamente le indicazioni caldamente consigliate da un megalomane che ha dimostrato a più riprese di non rispettare le minoranze, le diversità e le penose condizioni di luoghi repressi e depressi che lui e gente ritagliata dalla sua stessa stoffa hanno contribuito a creare nel falsamente felice quadro rappresentato dalle stelle e dalle strisce.

L’annullamento dei i tradizionali festeggiamenti del titolo presso la Casa Bianca contro gli Eagles non è che l’ennesima conferma di un atteggiamento volutamente provocatorio, degno di un muso lungo a seguito di un litigio alla scuola materna, un pretesto per continuare a criticare in maniera distruttiva e proseguire nella cocciuta incomprensione della reale questione di fondo. Ci si continua a nascondere dietro al dito del mancato rispetto per l’inno, per la bandiera, per le vite che i militari americani sacrificano ogni giorno dimenticandosi che non è questo il reale motivo della protesta iniziata da Kaepernick a tempo debito, si continuano ad utilizzare false motivazioni per gettare ulteriore combustibile su un fuoco divenuto già troppo alto per essere domato con semplicità, creando danni che probabilmente andranno a ripercuotersi sulla discussione per prossimo contratto collettivo, e quindi, di conseguenza, anche su chi utilizza il football americano per trascorrere in serenità uno dei pochi momenti non lavorativi della propria vita, la domenica.

La offseason rappresenta un momento già di per sé duro da affrontare per il fan, e da qualche anno è diventato anche triste e frustrante. Non esistono difatti stati emotivi differenti da questi per meglio descrivere la situazione di Colin Kaepernick, passato dall’essere un quarterback da playoff ad uno scarto dell’umanità in maniera tanto indecorosa quanto ancor oggi misteriosa, corredando il tutto con pietosi articoli che andavano tecnicamente a spiegare come all’improvviso il numero 7 dei Niners fosse più brocco di Brandon Weeden una presa di mira costata cara anche al collega Eric Reid, non certo l’ultimo defensive back della Lega per rendimento, ma colpevole dello stesso presunto crimine ed oggi casualmente anch’egli a spasso. Quando verrà suonato l’inno della prima partita, quando verrà srotolata la prima bandiera americana a coprire l’intero campo di football, quando la gente si metterà la mano sul cuore, sarà bene pensare alla libertà che queste cose rappresentano, una libertà della quale Trump e tanti proprietari delle franchigie Nfl disconoscono continuamente attraverso le loro azioni.

Unione e libertà sono due concetti per cui molti giocatori stanno lottando in questo preciso momento nonostante i consigli (“stick to sports”, “shut up and dribble”) derivanti dai fieri rappresentanti dell’emittente Fox News, rete televisiva che ha preso l’ennesimo (e volontario, crediamo) granchio mostrando un’immagine di Zach Ertz ed alcuni compagni inginocchiati in preghiera spacciandola per protesta contro l’inno.

Unione e libertà sono altresì due concetti che ben raffigurano la decisione di Terrell Owens di non partecipare alla cerimonia d’induzione del medesimo alla Hall Of Fame di Canton, un evento del tutto privo di precedenti. Owens, come ogni essere umano, è certamente libero di prendere questa decisione, ci mancherebbe, con essa ci dovrà convivere lui e non certo noi, convinti come siamo che tale scelta vada, come da tipiche caratteristiche del personaggio in questione, contro l’unione che il football americano rappresenta. Football americano, a qualsiasi livello esso venga giocato, significa sincronia perfetta di movimenti, di esecuzione, di allineamento mentale. Significa sacrificare l’incolumità del proprio corpo per il compagno che sta vicino. Significa affrontare ciascuna azione tenendosi idealmente mano nella mano, lottando tutti assieme per un unico obiettivo comune.

Certo, Owens giocò il Super Bowl XXXIX con la casacca di Philadelphia contro ogni pronostico, contro ogni consiglio medico, e giocò una grande partita mettendo a rischio la sua stessa carriera dato che non aveva di certo recuperato appieno dalla rottura della gamba e del legamento della caviglia riportate solo sette settimane prima, ma conoscendo la storia del personaggio ci permettiamo comunque il beneficio del dubbio nel valutare se tale coraggio fosse giunto con l’ottica di raggiungere la gloria comune anteponendola a quella personale.

Owens ha certamente meritato considerazione per la costruzione del suo busto personale, stiamo parlando dell’autore del secondo numero più alto della storia di yard ricevute dietro al solo Jerry Rice, di multiple stagioni concluse con più di 1.000 yard, di cinque assegnazioni All-Pro (dei sei Pro-Bowl, visto quello che realmente valgono, preferiamo non parlare…), criteri che hanno portato i votanti ad includerlo dopo numerosi tentativi terminati con un nulla di fatto. La non partecipazione alla cerimonia è perfettamente in linea con l’egocentrismo di una persona annoverabile tra i peggiori compagni di squadra che siano mai esistiti, con la fanciullesca frustrazione per non essere stato indotto alla prima occasione disponibile come solo lui pensava di meritare, con la stessa rabbia di chi tuonava fragorosamente contro qualsiasi compagno di squadra o allenatore, perché tanto, a sbagliare, erano sempre e comunque gli altri.

Se l’occasione di presenziare alla cerimonia dovrebbe essere un modo per omaggiare se stessi ma anche tutti i grandi giocatori del passato eletti nel massimo circolo possibile in precedenza, allora la decisione di T.O. è pienamente coerente, data la sua personale convinzione di essere il miglior giocatore di ogni epoca. Resta tuttavia un’opportunità persa per dimostrare un minimo di maturità, la dimostrazione di un poco proficuo raggiungimento dell’età adulta, la conferma che il personaggio è questo e tale resterà.

Fossimo stati tra i votanti e ci fosse stata la possibilità di revocare il voto l’avremmo fatto volentieri. Tanto, un’effigie di bronzo ed una giacca color senape, in una delle sue presumibilmente molteplici proprietà, sicuramente ci saranno già da tempo. Le circostanze sarebbero risultate calzanti per scrivere un discorso farcito di pepe e togliersi con maggior intelligenza qualche sassolino dalla scarpa, ed invece la conclusione è sempre la stessa, mancando di rispetto a degli elettori che ne hanno riconosciuto il valore e dimostrando che la sovrabbondanza di stima verso se stessi può giocare davvero brutti scherzi.

Poi magari si scoprirà che è stata tutta una messinscena per attirare l’attenzione, ma nel caso di assenza confermata noi, nel nostro piccolo, la cerimonia non mancheremo di godercela comunque.

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