Ci ho pensato settimane, ho stilato liste di pro e contro -riguardo la nascita di questo articolo- nelle quali per trovare dei pro dovevo chiedere aiuto alla mia fantasia più che durante una verifica di storia dell’arte alle superiori, ma alla fine non ho potuto resistere: parliamo un po’ della nuova policy NFL sulla condotta da tenere durante l’inno americano.
Premessa prima di partire: che una lega con una miriade di problemi come la NFL indirizzi nel giro di una offseason un “problema” del genere è alquanto enigmatico, dato che per avere una definizione -nemmeno troppo chiara- di catch ci sono voluti anni di proteste e di Dez Bryant sull’orlo di una crisi di nervi a bordocampo.
In sostanza, come già tutti sapete, i giocatori ora possono decidere se prendere parte o meno all’inno prima di entrare in campo: nel caso questi decidano di uscire dal tunnel saranno obbligati a stare in piedi a rispettare l’inno e la bandiera, in caso contrario ad essere multata sarà la squadra, non il singolo giocatore.
Premesso che a me qualsiasi tipo di nazionalismo rabbrividisce, frasi come “rispettare l’inno e la bandiera” oltre che ad appartenere a qualche secolo fa, sono pure fuori contesto: in nessun caso questa protesta era indirizzata contro l’inno, la bandiera, i veterani o Eisenhower, ma era un modo per indirizzare l’attenzione pubblica ad un problema reale, attuale ed assolutamente raccapricciante, ovvero la condizione dell’uomo nero davanti alle forze dell’ordine.
Un lettore può assolutamente vedere questa vicenda nel modo che più gli aggrada, ma negare che ci sia una netta disparità di trattamento fra bianchi e neri è diventato impossibile: il caso del cestista Sterling Brown è l’esempio più lampante di questo periodo.
La vicenda inno si è trasformata in un preoccupante grattacapo da risolvere il prima possibile nel momento in cui il sommo POTUS Donald Trump ha incominciato a puntare il dito contro questo tipo di protesta con assoluta veemenza; ovviamente non stiamo parlando della persona più illuminata di questo mondo, dopo tutto non dimentichiamoci delle sue dichiarazioni post-Charlottesville -dove un suprematista bianco si lanciò in macchina contro i partecipanti ad un corteo anti-razzista uccidendo una giovane ragazza-:“We condemn in the strongest possible terms this egregious display of hatred, bigotry and violence, on many sides. On many sides.”
On many sides. Ovvero cari amici afroamericani, un po’ ve la cercate se andate a protestare contro gente che letteralmente vorrebbe estirparvi dalla faccia della Terra considerandovi una razza -termine orribile- inferiore: ciò però non c’entra, torniamo all’inno.
Come potete vedere la questione inno è esplosa nel momento in cui Trump ha aperto bocca: i franchise players della NBA tipo Curry, LeBron, Kerr o Popovich criticano spesso e senza nessun timore l’operato e le dichiarazioni del presidente da reality show e nonostante ciò il commissioner Silver non ha mai imposto ai suoi uomini di tacere o di andare a visitare la Casa Bianca.
Certo, non ci si può inginocchiare durante l’inno, però se non altro un giocatore può esprimere la propria opinione senza temer di perdere il proprio lavoro.
Direi che tutto questo paragrafo si può riassumere con poco più di due minuti di intervista a Steve Kerr, nei quali ribadisce il fatto che il caos è nato per colpa di Trump, di colui che teoricamente dovrebbe tenere il paese il più unito possibile.
https://www.youtube.com/watch?v=OA1-TXuw-PQ
Oltre alla questione ideologica, però, c’è un problema forse più grave, ovvero il fatto che l’operato di Goodell e dei vari owners NFL è incostituzionale: a dirlo non è il vostro amato Mattia, ventiduenne da Verona, Italia, ma Benjamin Sachs, professore alla scuola di legge di Harvard.
Questo magnifico documento che trasmetteremo con orgoglio alle generazioni future è stato infatti redatto alle spalle della NFLPA, quella stessa associazione dei giocatori con la quale la lega fra un paio di anni dovrà negoziare il nuovo collective bargaining agreement e gettare ulteriore benzina su un rogo già vivo non è sicuramente la migliore delle idee.
In sostanza, in una lega composta per il 70% da giocatori di colore, i presidenti -più che datori di lavoro, direttori del carcere– ed il commissioner si sono arrogati il diritto di mettere i paletti alla libertà di espressione dei giocatori: qua non si parla del rapporto datore di lavoro-impiegato, ma di diritti umani garantiti da quella costituzione che l’americano medio continua fieramente a tirare in ballo ogni qualvolta venga messa in questione la sua moralità.
Parere mio, ovvio, ma non mi sembra la mossa più intelligente mancare di rispetto così tanto ai veri responsabili del benessere della lega, perché cari lettori non dimentichiamoci che a rendere spettacolare il football americano sono… i giocatori!
Ovvietà a parte, oltre che a compiacere il presidente Trump questa mossa serve anche a riaccattivarsi le simpatie dei tifosi -prevalentemente bianchi- che gravemente turbati da tale mancanza di rispetto -gente strana gli americani- all’inno, alla bandiera et cetera et cetera hanno deciso di investire le loro domeniche in modi diversi: posso capire che per la NFL arginare la costante perdita di pubblico sia prioritario, ma così facendo la lega non ha altro che ribadito il punto dell’intera protesta, ovvero la disparità fra bianchi e neri, perché di fatto tappando la bocca a questi neri ingrati ha fatto intendere a tutti gli afroamericani fuori dalla lega che la loro quest per l’uguaglianza non vale sicuramente qualche punto di share in meno.
Spesso quando parlo di quarterback -in realtà parlo ben di più di WR, ma non importa- esordisco sempre con un obbligatorio “Il football americano è LO sport di squadra e bla bla bla Rodgers MVP”: lasciate perdere le ultime parole, concentriamoci sull’ovvio concetto di football come sport di squadra.
Domanda molto semplice: si addice allo sport di squadra il fatto che una compagine potenzialmente entrerà in due diversi momenti in campo? Siamo sicuri che questa nuova policy serva ad unire e non a dividere un ambiente vulcanico come uno spogliatoio NFL?
Non credo proprio, anzi, sono convinto che già dalla prima settimana di preseason inizieranno ad accumularsi malumori nei vari spogliatoi a causa delle scelte che i vari giocatori faranno riguardo il momento nel quale scendere in campo: non a caso questa orgia di regole senza senso è già odiata, oltre che dai giocatori, pure dagli allenatori e dai membri degli staff in quanto potrebbe portare al caos ed a insanabili rotture nello spogliatoio, luogo nel quale -ripeto- trovare un equilibrio può anche richiedere anni.
Pure in questo caso, attribuire un senso logico a tutto ciò è complicato.
Analizziamo un altro aspetto, forse il più suggestivo: avrà quest’accozzaglia di ordini ripercussioni sul processo di free agency?
Credo di sì, lasciatemi spiegare il perché.
Ipotizziamo che un individuo sensibile alla questione riceva un’offerta simile da un team disposto a supportare i propri giocatori anche in caso di genuflessione e da un team chiaramente contrario ad ogni genere di protesta: chiamiamo la prima squadra New York Jets e la seconda Dallas Cowboys o Houston Texans, nomi puramente casuali.
Indubbiamente questo giocatore data la similarità delle offerte sarà spinto ad esplorare motivi extra-sportivi per giustificare la propria scelta: probabilmente firmerà con i New York Jets, team nel quale la sua libertà di espressione ed il suo essere afroamericano saranno più rispettati che nelle due franchigie texane.
Può dunque la posizione di un team in merito all’anthem policy diventare un qualcosa per sedurre giocatori, strumentalizzando una vicenda nata per nobili cause? Assolutamente sì ed è tanto, tanto triste e degradante.
In tutto ciò, oltre che a reprimere i tumulti, cosa ha fatto la lega per dare ai giocatori sempre meno motivi per protestare?
Ha provato a sfruttare la propria posizione di lega più ricca al mondo per creare occasioni di dialogo fra forze dell’ordine e comunità afroamericana? Sta patrocinando iniziative per favorire lo sviluppo delle comunità nere, oltre che all’inutile Play60? No e no.
Cara NFL, qualche mese fa avevo espresso la mia frustrazione su quanto amarti possa essere per me fonte di vergogna, ora lo ribadisco: non fai nulla per mettere un tifoso medio che si guarda attorno nelle condizioni di volerti bene senza sentirsi minimamente in colpa.
Mattia, 27 anni.
Scrivo e parlo di football americano per diventare famoso sull’Internet e non dover più lavorare.
Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango male. Ora mi trovate su https://matiofubol.substack.com/
Ciao, approfitto di questo post (grazie di scrivere durante la sempre troppo lunga offseason!) per segnalare che la foto di Richard Sherman, con la maglia dei Seahawks a corredo della pagina NFL del sito è ormai datata, ahimè :)
Dico subito a chi di dovere ;)
:)