Se c’è una lezione che il mondo del football ha certamente imparato a seguito della cinquantaduesima edizione del Super Bowl, è che Doug Pederson non ha paura di niente. E’ inevitabile sentire la pressione dell’occasione di tutta una vita, di una gioia che ogni praticante di tale disciplina sportiva sogna sin dai primi passi nel campetto, ma il capo allenatore dei neo-campioni Eagles ha sempre scelto di aggredire per primo, senza dare al suo avversario il modo di tirare la prima zampata. Lo ha fatto con l’atmosfera psicologicamente schiacciante della Finalissima, trasmettendo calma e gioia ai suoi giocatori di fronte ad un impegno che potrebbe anche non ripresentarsi più, così come ha svolto lo stesso identico esercizio mostrando a Belichick e Brady di che pasta è fatto, quali sono gli attributi a sua disposizione, attaccando ferocemente prima di farsi brutalizzare da un avversario abituato a macinare tutti con cattiveria.

“To be the best, you’ve got to beat the best”. Quante volte abbiamo sentito questa utilizzatissima frase? Ecco, Pederson pare averla cucita addosso ed è pronto a sfornarla in ogni circostanza utile, ha rappresentato il mantra di una stagione giocata alzando le aspettative più logiche e proseguita con mancanze di rispetto più che evidenti, con la coscienza di aver costruito in maniera vincente, del vero valore del materiale a propria disposizione, senza farsi scalfire da tutte quelle difficoltà che ogni head coach di football americano dev’essere preparato ad affrontare tenendo sempre a mente la natura stessa del gioco, dove l’imprevisto caratterizzato dall’infortunio è perennemente dietro l’angolo e rischia di mutare gli equilibri di una squadra, di una stagione, di una possibile dinastia.

Pederson, prima di ieri notte, non è mai stato un protagonista di alto profilo nella National Football League, ma ciò che ha potuto osservare nella sua lunga carriera di backup quarterback, unito alle persone che ha potuto conoscere e con le quali ha dialogato in occasione di infinite sessioni di filmati, di allenamenti, di partite passate a tenere una significativa lavagnetta in mano e ad assistere il suo titolare sulla linea laterale, evidentemente l’ha studiato molto bene. Ed il Super Bowl conquistato poche ore fa non può essere che il simbolo più significativo atto a ricompensare tutte quelle ore di lavoro solo apparentemente inutili dati i pochi snap ufficiali ricevuti in carriera, una laurea di football americano applicato sul campo guadagnata con il massimo dei voti, esaltando tutti i meriti derivanti da un’audacia che definiremmo sensata, controllata, ma fuori dalle righe giusto quel tanto da riuscire a scavare il solco che rappresenta la differenza tra il suo operato e quello di altri.

Doug Pederson è un mix delle persone attraverso le quali ha nutrito la sua fame di conoscenza del gioco fino ad arrivare a plasmare la propria identità. Quelli di Brett Favre e di Andy Reid sono i nomi che d’istinto saltano fuori con immediatezza, perché dal primo – suo titolare a Green Bay – ha sicuramente mutuato quel certo grado di spavalderia in grado di generare tutte quelle giocate normalmente considerate rischiose ma che una volta realizzate sanno tanto di meraviglioso, mentre dal secondo, dopo averne ottenuto più volte la fiducia in varie vesti, ha attinto per creare la sua personale filosofia offensiva e capire come si gestisce una partita di football, aggiungendoci però quel pizzico di pepe in più. Rischiando coscienziosamente, giocando con un attacco sapientemente produttivo e senza cadere nella trappola dell’eccessiva cautela che spesso le partite le fa perdere, Pederson ha ottenuto il massimo dei risultati nel giro di soli due anni.

Per divenire degli allenatori efficaci si sa, non è sufficiente essere tecnici e all’avanguardia, è strettamente necessario riuscire a proporre al gruppo una psicologia utile a motivare la squadra, a gestire lo spogliatoio. Ed il football è fatto di tanti giocatori, tante teste che pensano diversamente l’una dall’altra, tanti caratteri che reagiscono diversamente agli avvenimenti, ed uno dei compiti più determinanti del capo allenatore è proprio quello di riunire tutte le differenze sotto un unico tetto, mostrare un obiettivo, e convincere ogni elemento del roster che quel traguardo è raggiungibile.

La sua filosofia è quella del faceless opponent, che pratica con passione sin dai recenti tempi in cui era semplicemente un allenatore di High School, non importa quanto forte sia una determinata squadra, se possegga giocatori di elevate qualità o meno, o se il loro allenatore abbia una storia vincente alle spalle, ci si prepara per tutti allo stesso modo, con lo stesso impegno, ogni pezzettino del meccanismo deve semplicemente eseguire il suo compito per sessanta minuti, sia esso bloccare, lanciare, correre, vincere un uno contro uno, o placcare con la massima precisione. Il nemico senza volto, in questo caso i grandi e grossi New England Patriots, hanno ricevuto lo stesso trattamento riservato ad altre quindici avversarie di stagione, superate con una continuità invidiabile, che ha sparato gli Eagles in orbita fino al momento fatidico, il più volte citato infortunio occorso a Carson Wentz.

La linea che divide la certezza nei propri mezzi dalla mancanza di rispetto è sottilissima, e Pederson ha sempre avuto la massima cura nel non superarla. Ha sempre detto ai suoi giocatori di scendere in campo rilassati, ed eseguire gli schemi alla perfezione con la sicurezza matematica di un risultato finale positivo. Si gioca senza pressione, prendendosi i rischi che vanno presi e calcolandoli in base al preciso momento. Uno dei motivi per i quali ciascun elemento del roster ha giocato come un assatanato per tutta l’ultima parte di stagione, nel momento in cui giornalisti ed esperti avevano capovolto la penna e cominciato a cancellare il nome di Philadelphia dal’elenco delle pretendenti al Super Bowl, è stata la reazione all’insulto idealmente propagato in direzione del loro capo allenatore, che attraverso la collaborazione del general manager Howie Roseman aveva invece assemblato una squadra completa, si era attorniato di coordinatori di ottime capacità per ogni fase del gioco, ed aveva quindi in mano uno strumento totalmente in grado di funzionare anche in assenza della testa offensiva principale.

Allo stesso modo con cui aveva convinto Carson Wentz che sarebbe diventato una superstar dopo un anno da rookie passato a ballare tra esaltazione e difficoltà, Pederson ha cambiato anche la mentalità di Nick Foles, riuscendo ad entrare molto bene nella sua testa, probabilmente aiutato da quella affinità impercettibile a mano nuda ma dannatamente concreta, quella di averne condiviso la sensazione di essere sottovalutato, di essere una riserva poco utile alla causa, di possedere dei chiari limiti. L’ha aiutato tecnicamente, apportando le opportune modifiche al playbook per aiutarlo ad inserirsi sfruttando il poco tempo rimanente negli sgoccioli della regular season, per evitargli una pressione eccessiva, per agevolarlo nel prendere dimestichezza con il football attivamente giocato dopo tanta polvere accumulata. L’ha aiutato mentalmente, plasmando quel meraviglioso cigno ora in grado di aprire le sue maestose ali, di sparare palloni di millimetrica precisione in endzone, di far viaggiare ovali per cinquanta o più yard facendo restare gli scettici a mascella spalancata, trasformando in realtà un percorso che ha portato Foles a vestire dei panni certamente più adatti Tom Brady, quelli di Most Valuable Player della partita più importante dell’anno.

Infine, gli attributi. Senza essi, non è possibile inventarsi un gioco incredibile sul finire del primo tempo valutando il contesto attorno al quale è stata effettuata la chiamata, un touchdown nato da un quarto tentativo convertito alla mano passando sopra alla sicurezza di un comodo field goal che avrebbe posto sei lunghezze alla differenza tra le due squadre, un inimmaginabile snap diretto per Corey Clement giunto mentre Foles era impegnato a fingere un segnale alla linea offensiva, con susseguente consegna nelle mani del tight end Trey Burton e lancio vincente in direzione del quarterback, un gioco che se non realizzato avrebbe comportato una ripresa da cominciare difendendo soli tre punti di vantaggio con la palla in mano a Brady e tutta l’inerzia del mondo pronta a spostarsi verso il Massachusets.

E non sarebbe altresì possibile sovvertire i consigli forniti dalle regole non scritte del football americano, dove la maggior parte degli allenatori, con cinque e trentanove da giocare in un Super Bowl, avrebbe effettuato scelte drasticamente differenti rispetto all’altra conversione alla mano che ha deciso la gara, realizzata grazie ad una ricezione corta dello stesso Zach Ertz che qualche minuto dopo avrebbe siglato il touchdown dell’allungo definitivo.

Con tutta probabilità la lezione derivante dalla mancata chiusura di partita da parte dei Falcons di un anno fa ha dato i suoi frutti, ma Doug Pederson è così, aggredisce prima di essere aggredito, non importa se ti chiami Hue Jackson, Bill Belichick, Jimmy Garoppolo o Tom Brady. E’ perfettamente inutile creare un volto all’avversario e generare inutili timori reverenziali ai propri giocatori, si scende in campo, si combatte, si fa il proprio sporco dovere per il tempo richiesto.

Si può quindi vincere anche contro un’avversaria assai titolata e capace di far registrare 613 yard di total offense, portando a casa il primo Super Bowl che la città di Philadelphia abbia mai potuto stringere forte tra le braccia, aggiungendolo ad una bacheca che piangeva dalla stagione 1960, quando il Super Bowl ancora non era stato inventato ma gli Eagles di trofei ne avevano già incassati tre.

Pederson ha indissolubilmente legato il suo nome a quello di leggende come Steve Van Buren e Norm Van Brocklin, arrivando a vette dove il suo maestro Andy Reid ancora non è riuscito a giungere. Non sarebbe dovuto riuscire a compiere una tale impresa con così poca esperienza, non era scritto nei pronostici ma si sa, certe cose sono fatte apposta per essere smentite, e gli Eagles di questa stagione hanno dimostrato di essere appositamente tagliati per riuscire in questo particolare intento.

Per questo e per tanti altri motivi, Philadelphia non è mai stata così orgogliosa di loro.

4 thoughts on “Doug Pederson, il nemico senza volto e gli attributi d’acciaio

  1. Bel pezzo, congrats.

    E Pederson dopo questa ha superato Zimmer come COY.
    Finché la partita è viva, i quarti down si giocano. Li hanno inventati apposta, che diamine.
    Parola di Doug.

  2. Bravo Dave:
    Condivido la lettura al 100%. C’e Davvero molto Doug Pederson in questa vittoria.
    Per come ha gestito la squadra per tutta la stagione rimodellandola ad ogni infortunio fino alla trasformazione del playbook per consentire a Foles di esprimersi al meglio.
    A soprattutto in quei due quarti down chiamati contro ogni manuale del perfetto HC, rinunciando a un FG sicuro e deciderò poi di gioì il SB inn un solo geco anzichéanda al punt.
    Se non osi non vinci contro Brady e soci (chiedere a Kyle Shanahan)
    Evidentemente fare il backup di un grande QB X tutta la vita aiuta proprio a essere un grande HC (come e stato per Kubiac)
    Ciao

    • Gli eagles hanno giocato senza timore, risposto colpo su colpo, vincendo una partita spettacolare. Onore a un sistema ed ai giocatori che lo compongono e che li ha resi vincenti laddove erano dati pet perdenti

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