Con i tredici miliardi fatturati nel 2015, la NFL è con ampio margine la lega sportiva professionistica più ricca al mondo e non è difficile immaginare il perché: il football americano riesce a coniugare bruto atletismo alla più sofisticata strategia, andando ad inscenare ogni domenica una storia che a volte riesce a farsi confondere con una vera e propria battaglia, il tutto inserito in un contesto pubblicitario tanto assillante quanto importante.
Tuttavia una macchia, simile all’irremovibile macchia di sangue che troviamo in “The Canterville Ghost“, da anni minaccia il funzionamento di questa perfetta macchina da soldi: sto ovviamente parlando delle concussions, dei traumi cranici, per lunghi anni piaga tenuta quanto più possibile nascosta anche se, meglio tardi che mai, finalmente c’è stata una presa di coscienza da parte della lega.
Vediamo insieme quali sono state le tappe fondamentali che hanno portato questo problema ad essere sulla bocca di tutti ed anche sul grande schermo.
Dopo anni di omertà, nel 1994 l’allora commissioner Paul Tagliabue creò il Mild Traumatic Brain Injury committee, meglio conosciuto con l’acronimo MTBI Committee e già lì, seppur la creazione di questa istituzione fu una significativa presa di coscienza, il primo passo falso: a capo di tutto ciò venne messo il Dr. Elliot Pellman, medico di squadra dei New York Jets e rinomato reumatologo ma con nessuna esperienza nello studio del cervello e delle conseguenze del suo danneggiamento, come suggerito da “Pensiamo che ginocchia, droghe, steroidi e alcool siano problemi molto più seri” con cui commentò il tutto.
Ventitré anni dopo, possiamo dire che si sbagliava di grosso.
NFC Championship Game del 1994, San Francisco 49ers contro Dallas Cowboys, negli anni ’90 ciò era quanto di meglio la NFL potesse offrire ed ovviamente tutti i riflettori erano lì puntati.
Secondo e quattordici per Dallas, ovviamente Aikman dovrà lanciare: snap, five steps drop back ed Aikman si trova già a dover affrontare la pressione di Dana Stubblefield, a cui riesce a scampare con qualche breve passo a sinistra ma ormai è troppo tardi, la tasca è collassata ed il sack appare inevitabile, tanto che da buon veterano Troy inizia a rannicchiarsi su se stesso per evitare un fumble che avrebbe dato a San Francisco l’opportunità di segnare. Purtroppo in quel momento, puntuale sull’elmetto del quarterback dei Cowboys arriva il ginocchio di Dennis Brown: concussion.
Ecco qua il primo caso per il MTBI Committee, costretto ad analizzare l’infortunio di una delle stelle più brillanti dell’intero panorama NFL.
Se chiedete ad Aikman cosa ricorda di quella partita o di quell’infortunio, candidamente vi dirà: “Nulla”.
Ottobre 1994: a soli 29 anni Merril Hoge, runningback/fullback dei Chicago Bears, getta la spugna, ritirandosi a seguito di un trauma cranico patito due settimane prima: “This is messing with your brain” dirà di lì a breve a Sport News, la seconda concussion in due settimane lo porterà a non essere in grado di riconoscere la moglie, l’allora figlioletta di 14 mesi e nemmeno il fratello, ma sarà un’altra sua dichiarazione a mio avviso ad essere fondamentale. Motivando la ragione del suo ritiro ammise che la parte più frustrante di questo tipo di infortunio è data dal fatto che non si può fare nulla per velocizzarne il recupero, e disse
“I’am at the mercy of time“, frase che suona particolarmente attuale pensando alla recente notizia per la quale Dwight Clark, co-protagonista della leggendaria “The Catch”, è malato di SLA, malattia in cui inizia un conto alla rovescia che porterà alla progressiva perdita di ogni nostra singola funzione che ci rende esseri umani, vivi.
La risposta della lega? Arriverà solo due mesi, e questo polverone sollevato dal ritiro di Hoge verrà bollato da Tagliabue come “problema creato dai giornalisti”.
Passano con una forzata tranquillità degli anni, ma nell’aprile 1999 Mike Webster, probabilmente il più grande centro di ogni tempo, afferma che l’artefice della demenza è stata proprio la sua splendida carriera: morirà d’attacco cardiaco nel 2002 a soli 50 anni dopo una lunga agonia, ma la sua stella non si spegnerà nemmeno dopo la morte.
L’allora 34enne Dr. Bennet Omalu viene incaricato a eseguire l’autopsia dell’ex numero 52, e questa autopsia cambierà per sempre la storia della National Football League: per la prima volta ad un giocatore di football americano viene trovata la CTE, ovvero Chronic Traumatic Encephalopathy, fino a quel momento riscontrata solo nei pugili. Spiegare la causa di questa malattia è terribilmente semplice: più colpi alla testa ricevi, più è probabile che soffrirai di questa malattia.
I risultati di questa ricerca vengono pubblicati sul giornale Neurosurgery, con la convinzione che tutto ciò sarebbe potuto tornare utile alla lega: non scherziamo, tutto ciò viene frettolosamente bollato come “fallimento”, qualcosa di “completamente sbagliato”.
Nel frattempo, nel settembre 2004 morì in un incidente stradale l’ex Steeler Justin Strzelczyk a soli 36 anni, e ad eseguire l’autopsia è sempre il Dr. Omalu: CTE.
In ciò che ormai sembra essere un crudele scherzo del destino, un altro ex Pittsburgh Steeler muore: a soli 45 anni Terry Long si suicida bevendo liquido antigelo. Autopsia effettuata dal Dr. Omalu: CTE.
Fra una dichiarazione imbarazzante del MTBI Committee (“Tanti giocatori recuperano velocemente dai traumi cranici!”) e l’altra (“Ritornare in campo immediatamente dopo una concussion non aumenta il rischio di infortuni”), arriviamo al 2007, ed a diventare commissioner è il nostro Roger Goodell, che è lesto a ritrattare quanto detto finora sul rientro in campo immediatamente dopo l’infortunio. Di lì a poco il Dr. Pellman si dimetterà ed a capo del MTBI Committee sale “Dr. No”, Ira Casson, che in una celebre intervista concessa alla HBO nega con convinti “no” ogni correlazione fra infortuni alla testa e depressione, demenza o ogni altra malattia riguardante il cervello.
Gennaio 2009, Super Bowl Weekend, ovvero quella settimana in cui a sei giorni di parole segue una partita di football, a rovinare la festa ci pensano due dottori: Ann McKee e Chris Nowinski ed un team di scienziati a loro collegato espongono ed elencano nuovi casi di CTE, trovata anche in un ragazzo di soli 18 anni morto dieci giorni prima dopo aver sofferto il quarto trauma cranico. Di lì a pochi mesi, nel maggio 2009, la dottoressa McKee incontra i membri del MTBI Committee, i quali non presero sul serio quanto detto dalla scienziata in quanto parlava di un problema di cui non si sapeva l’inizio da cosa fosse causato: denial mode ON.
Ma a quanto stava per succedere di lì a poco, a settembre, la NFL non era pronta: il New York Times pubblica uno studio che vede i giocatori 19, diciannove, volte più esposti alla possibilità di ammalarsi di demenza, Alzheimer o altre malattie legate alla memoria. Ovviamente la lega sarà veloce a negare il tutto, ma ormai è troppo tardi, l’argomento è sulla bocca di tutti.
A novembre, due mesi dopo l’articolo del Times, si ha uno scossone nelle gerarchie del “fu” MTBI Committee, che nel frattempo cambia nome passando a “Head, Neck and Spine Committee”: Dr. “No” Casson lascia il posto ai neurochirurgi Batjer e Ellenbogen, facendo arrivare così la lega a riconoscere i danni a lungo termine causati dai traumi cranici.
Dal 2009 in poi, dopo aver riconosciuto il problema, oltre a finanziare pesantemente studi e ricerche sull’argomento, la lega si sta impegnando a rendere il gioco più sicuro, dapprima avvicinando il kickoff in modo da generare più touchback, poi eliminando i blocchi “helmet-to-helmet”, anche se, nell’agosto 2013 con una mossa alquanto controversa, la NFL ha accettato di pagare 765 milioni di dollari a vari giocatori ritirati con un accordo che prevedeva una NON ammissione di colpa da parte della lega: curioso.
Ritornando ai giorni nostri e al drammatico annuncio di Dwight Clark, è necessario fare il nome di Kevin Turner, ex giocatore morto a soli 46 anni poco più di un anno fa, creduto malato di SLA ma in realtà ucciso da CTE: in alcune zone del cervello questa seconda malattia può causare effetti simili alla Sclerosi Laterale Amiotrofica.
Su 91 cervelli di ex giocatori studiati, in ben 87 è stata trovata CTE, e questo studio sembra esser riuscito a generare abbastanza clamore, tanto che un sondaggio condotto da Public Religion Research Institute ha trovato che sui 1009 adulti intervistati, ben il 31% non lascerebbe giocare il proprio figlio a football.
Com’è la situazione dal punto di vista numerico in questi ultimi anni? Non buona, in quanto le 244 concussions sofferte nella stagione 2016 denotano un miglioramento rispetto alle 275 registrate la stagione prima, ma non possono sicuramente essere viste come numero confortante: sono sempre più delle 206 e 229 delle stagioni 2014 e 2013.
Sarà possibile fermare questa carneficina?
Al tempo l’ardua risposta.
Mattia, 27 anni.
Scrivo e parlo di football americano per diventare famoso sull’Internet e non dover più lavorare.
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