Ogni record è fatto per essere battuto, si dice. Anche quelli in negativo.
La NFC East ci sta provando in tutti i modi, e solo le partite che ci separano dalla calda fase di playoff ci potranno svelare la definitiva verità. L’obiettivo è l’emulazione (o il miglioramento) dei Seattle Seahawks dell’edizione 2010, squadra che andò ad aggiudicarsi il proprio raggruppamento con il record di 7-9 ottenendo il diritto di giocare in casa la partita di Wild Card contro New Orleans, manifestazione ricordata per due motivi: il primo, per il fatto che i Saints detenevano un record di 11-5 e si trovavano ingiustamente costretti dal regolamento ad impacchettare armi e bagagli viaggiando verso l’infernale CenturyLink Field di Seattle; il secondo, la corsa di 67 yard con cui Marshawn Lynch sgominò l’intera difesa avversaria segnando il touchdown del game, set & match.
L’affermazione ottenuta domenica scorsa dai Washington Redskins contro i New York Giants ha contribuito a dipingere una situazione del tutto simile rispetto a quella NFC West di cinque anni fa, cambiando una volta in più le carte in tavola quando sembrava che la compagine allenata da Tom Coughlin fosse pronta ad approfittare di una straordinaria occasione fornita dall’estrema debolezza delle altre contendenti del gruppo, tirandosi tuttavia la zappa sui piedi in un momento assai poco consono.
Anche in questo caso, l’imbarazzo della scelta è alto. Quale figura farà la squadra di queste quattro che riuscirà a qualificarsi quando andrà a scontrarsi con una delle potenze supreme della National Football Conference? L’attuale grande differenza di record con le prime della classe è da attribuire al tipo di calendario affrontato, al differente momento di forma attuale e passato, oppure a qualche altro dei mille fattori che possono intervenire a modificare i destini di una stagione di football?
Ognuna delle appartenenti alla NFC East ha dimostrato fino a questo momento di non poter essere competitiva per fare tanta strada nel mese di gennaio. Ed ognuna ha delle motivazioni ben precise, leggermente differenti tra loro.
Partiamo da quelli che sarebbero dovuti essere i favoriti del lotto, i Dallas Cowboys, che hanno semplicemente dovuto fare i conti con la sfortuna. Tutti prima o poi durante il campionato subiscono degli infortuni, ma quest’anno il destino si è davvero accanito contro la squadra di Jerry Jones. In questo caso le coincidenze contano davvero molto. Dallas è attualmente ferma ad un assai poco preventivabile record di 3-8, e non è assolutamente un caso se tutte le vittorie accumulate sono pervenute in presenza del pezzo più importante dell’attacco, Tony Romo. Il reparto offensivo ha sofferto per lungo tempo l’assenza sua e di Dez Bryant, rispettivamente per infortuni a clavicola e piede, togliendo dall’equazione i due elementi portanti di questa struttura offensiva, mentre il terzo, DeMarco Murray, se n’era già andato altrove durante la offseason. Possiamo abbastanza tranquillamente asserire che i Cowboys mai e poi mai sarebbero stati il ventinovesimo attacco sui passaggi con Romo al suo posto nelle undici partite fino a qui disputate, tanto alta è sempre stata l’efficienza che questo reparto è riuscita ad esprimere con costanza invidiabile in tutti questi anni di maturazione.
Doveva essere l’anno della definitiva consacrazione, doveva essere l’anno dove Dallas tentava l’assalto al Super Bowl essendone perfettamente attrezzata, dato che i progressi difensivi richiesti per il salto di qualità si sono fatti effettivamente registrare con particolare riferimento al contrasto verso il gioco aereo altrui, il buon Tony aveva già dimostrato un anno fa di aver messo da parte alcune problematiche legate al lanciare intercetti in momenti troppo delicati delle partite, ed il backfield era stato adeguatamente rimpinzato per sopperire all’assenza di Murray.
Il vero problema dei texani è stato il non possedere un regista di riserva in grado di trasportare la squadra in questo momento dove il sostegno di cui essa necessitava era ai massimi livelli di emergenza, senza il buon Tony è calato a picco anche il rendimento di alcune figure chiave di un attacco che ha visto letteralmente sparire dalla circolazione giocatori come Jason Witten e Terrance Williams. Demerito della presenza di Brandon Weeden prima e Matt Cassel poi, due alternative che non avevano un grande curriculum alle spalle e che hanno confermato tutti i timori di chi avrebbe preferito non vederli in campo per parecchie gare consecutive con l’obiettivo playoff da mantenere, impossibilitati nel far muovere l’attacco con la costanza richiesta. Affidarsi alle corse del pur volenteroso Darren McFadden, diventato titolare a pieno diritto dopo il taglio di Joseph Randle, non ha pagato dazio a causa dell’inefficacia del gioco aereo, un aspetto che un veterano come Romo poteva altrimenti gestire ad occhi chiusi.
Il destino con Dallas è stato addirittura beffardo, infilando ulteriormente il suo coltello nella già grave ferita dei Cowboys attraverso il nuovo infortunio del quarterback titolare, dopo solo una partita dall’atteso rientro. Psicologicamente è stato un colpo devastante, basti pensare ad una squadra che bene o male era riuscita, grazie anche alla concorrenza di basso livello, a barcamenarsi fino a questo punto del campionato mantenendo intatte le proprie speranze proprio in vista dell’illustre rientro, ed ora si ricomincia tutto daccapo. Il bello è che nonostante il 3-8 Dallas è a sole due partite di distanza dalla vetta della Division, con entrambe le gare contro i Redskins ancora da disputare.
A Washington nessuno dava troppo credito, e le motivazioni non erano poi così misteriose. Una situazione gestionale ai limiti dell’imbarazzante, la vicenda di Robert Griffin III poco prima del kickoff quale conferma di un ambiente molto poco sano, l’ennesima partenza perdente a quota 2-4 e fondo della Division assicurato, senza che mai fosse in realtà cambiato qualcosa rispetto alle stagioni precedenti a questa.
I risultati ottenuti fino a questo momento ci raccontano di una compagine che può misurarsi ad armi pari con la fascia medio-bassa della NFL odierna, ma che contro le squadre più forti perde sistematicamente. I Redskins sono stati poco interpretabili finora, hanno alternato prestazioni vergognose a vittorie esaltanti, Kirk Cousins è cresciuto strada facendo e nelle gare casalinghe ha scritto ottime cifre, l’attacco non è tra i più eccitanti ma i miglioramenti difensivi sono stati evidenti, e sufficienti a salvare qualche particolare situazione. A volte la squadra non è riuscita offensivamente a capitalizzare sui numerosi turnover provocati dalla difesa, che in alcune situazioni è rimasta in campo troppo a lungo a causa delle secche offensive, in altri casi è stato l’attacco a perdere palloni in quantità industriali con tutte le conseguenze negative del caso.
Washington non è una squadra malvagia, ma ancora non riesce a chiudere le partite quando deve, la mancanza di cattiveria agonistica e di sete insaziabile di vittoria sembra essere ciò che fa la differenza tra questa e molte altre franchigie mentalmente più stabili. Cousins, un quarterback dal 68% abbondante di completi, ha visto la sicurezza in sé crescere durante questo percorso a volte accidentato, nonostante i dieci intercetti registrati sinora ha dato prova di essere maturato anche sotto quel punto di vista, e lo staff ha saputo inserire nel playbook dei giochi sul corto che potessero permettere dei guadagni a lunga gittata sfruttando le qualità delle sorprese Matt Jones e Jamison Crowder, in attesa di riaccogliere l’oggi rientrato DeSean Jackson.
Ed oggi, con Washington al comando alla pari dei Giants, ci si chiede se Cousins sia l’uomo giusto per il futuro a breve termine di questo attacco, se i Redskins siano pronti ad affrontare il resto della stagione senza più farsi ridicolizzare da qualcuno, se siano pronti a mantenere delle aspettative completamente rinnovate rispetto alle disastrose premesse, quando si pensava che la vicenda Griffin avesse automaticamente decretato la fine dell’era Gruden, rispetto al quale ci si chiede se lo stesso sia stato in grado di vedere qualcosa di sconosciuto ai più, oppure se tutto questo sia solo frutto del primo ottimo anno di gestione del GM Scot McCloughan, i cui innesti avevano solo bisogno di tempo prima di plasmarsi assieme.
A New York tira aria pesante, e Tom Coughlin negli ultimi anni è sempre stato in discussione. La società gli è certamente grata per i due Super Bowl vinti, ma non è felice di continuare a vedere assente la propria franchigia dai playoff per più stagioni consecutive, una striscia di stagioni arrivata a quota tre. Di fatto, da quando vinsero l’anello alla fine del campionato 2011, di postseason non se n’è più parlato.
E dire che nel quadro complessivo sembravano proprio i Big Blue ad avere le carte giuste per vincere questa maratona. La loro, una volta aggiustata una partenza problematica, è stata una stagione vissuta sempre all’insegna dell’equilibrio: dopo aver collezionato due sconfitte per iniziare il campionato i Giants hanno annientato proprio i Redskins nella terza settimana di gioco, per poi navigare costantemente attorno al 50% di vittorie. Oggi sono a quota 1-1 contro tutte le rivali divisionali con l’eccezione di Philadelphia, che andrà nuovamente affrontata all’ultima di regular season dopo il netto passo falso dello scorso 19 ottobre.
New York non sembra aver risolto alcuni problematiche insite negli insuccessi delle annate recenti, l’attacco è molto produttivo in fase aerea ma è rimasto stabilmente lacunoso nel mostrare un backfield credibile, e la difesa è tra le peggiori della NFL, ancora priva di un playmaker nel settore linebacker e sensibilmente regredita nelle secondarie, come testimonia la sconfitta più dolorosa patita in questa stagione, contro dei Saints autori di 608 yard totali e 52 punti a referto. Eli Manning ha mantenuto un rapporto tra mete ed intercetti di 23 a 9, molto soddisfacente se paragonato ai disastri dello scorso anno, ma pesa l’assenza di un buon running back e quella di un ricevitore secondario credibile, dato che la soluzione vincente è spesso quella di lanciarla al funambolico Odell Beckham Jr e stare lì a vedere che accade, mandando giù la delusione per il mancato sviluppo di giovani come Reuben Randle e per la più che prolungata assenza di Victor Cruz, uno che la differenza l’avrebbe fatta di sicuro.
Sprecare un così buon vantaggio non è stata una grande idea, perché ora i Giants dovranno affidarsi alle sconfitte degli altri ed attendere la loro sorte, dato che a loro manca solo una partita divisionale da disputare, ed in caso di parità con terzi non sono messi molto bene dato il 2-3 interno alla NFC East.
Di Philadelphia non si sa più che dire. Oggi Chip Kelly sembra lo straordinario innovatore che doveva rivoluzionare il concetto di attacco professionistico, domani si discute di un suo possibile licenziamento mentre escono allo scoperto voci su un suo probabile prolungamento di contratto. In un mondo normale, il 4-7 attualmente detenuto dagli Eagles sarebbe già stato sufficiente a decretare il saluto alla stagione ed il probabile licenziamento del head coach, ma le dinamiche di questa poco interpretabile Division permette anche agli uomini in verde di continuare a vedere inalterate le speranze di una qualificazione ai playoff che un anno fa sfuggì per un soffio, nonostante le 10 vittorie complessive e tutta la frustrazione derivante, ironia della sorte, nel vedere i Panthers promossi con il loro 7-8-1 solo perché vincitori della debole NFC South.
Ma quella era una squadra diversa, e Kelly lo sa bene. Il restyling primaverile voluto dall’ex-allenatore dell’Università di Oregon fino a questo momento non ha sortito gli effetti desiderati. Sam Bradford non è stato migliore di Nick Foles, di Mark Sanchez meglio neanche parlarne. DeMarco Murray corre per 3.5 yard di media e non ha la possente linea offensiva di Dallas davanti a sé, mentre LeSean McCoy sta tentando di terminare la lunghissima striscia negativa di Buffalo in termini di mancate partecipazioni ai playoff. La difesa fa acqua, soprattutto nelle retrovie.
Senza un gioco di corse in grado di produrre, idee filosofiche come quelle di Kelly sono destinate a non funzionare. Non è passato molto tempo da quando in pochi riuscivano a contrastare un attacco ad alto ritmo in grado di nascondere il pallone e tirarlo fuori all’ultimo secondo, ma oggi le cose sono drasticamente cambiate. Bradford di per sé sarebbe stato sufficientemente preciso nella media distanza, come di suo solito, ma non detiene un rapporto ottimale tra touchdown ed intercetti, 11 contro 10. L’ex-Rams pareva aver trovato un ritmo ideale tra la terza e la sesta settimana di gioco, fino a questo momento il vertice massimo toccato dall’attacco, ma il rendimento complessivamente offerto è sempre stato altalenante. L’infortunio alla spalla non ha aiutato, l’assenza di Jason Peters non ha giovato ed il supporting cast è sparito. Salutato Jeremy Maclin manca un ricevitore primario, che oggi il pur buon Jordan Matthews non è, Riley Cooper è stato fallimentare e Zach Ertz non ha ancora segnato una meta in stagione.
La difesa aerea è la trentunesima della Lega per touchdown concessi su passaggio, e nella striscia perdente di tre partite attualmente in corso il reparto ha elargito 36 punti di media, perdendo contro squadre non irresistibili come Miami, Tampa Bay e Detroit, arrivando a subire 412 yard per gara sommando l’ultimo mese di gioco.
Il calendario degli Eagles è quello più perfido di tutti, il che rende la strada per la vittoria della Division molto più impervia del previsto. Con tutte le occasioni sinora sprecate, leggasi partite che Philadelphia avrebbe dovuto vincere per meglio posizionarsi nella corsa, ci sarà da fare i conti con Patriots e Cardinals, che ad oggi hanno perso un totale di tre gare, quindi con i Bills dell’ex McCoy che ci terrà sicuramente a fare bella figura contro il coach che l’ha scambiato, ed una doppia sfida contro Giants e Redskins, le dirette concorrenti divisionali.
Per tutte e quattro le squadre della NFC East ci sono ancora ampi margini di sconfitta, data la qualità di football messa in campo finora. Tutto è ancora possibile, e con questa discontinuità raggiungere la fatidica settima vittoria di quei Seattle Seahawks sembra ad oggi un’impresa tutt’altro che facile. Magari Dallas ha in serbo un miracolo, o i Giants hanno ancora qualcosa nel carburante. Forse gli Eagles possono riprendersi, o probabilmente i Redskins hanno infilato il filotto giusto. Chissà.
L’unica cosa certa è che, chiunque vincerà questa scadente Division, di sicuro non sarà protagonista dei playoff. Le candidate al Super Bowl provenienti dal resto della NFC sono fatte di tutt’altra pasta.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.