Nonostante siano ben tredici le stagioni in cui coach Marvin Lewis ha comandato le operazioni dalla sideline dei Bengals, vedere la squadra effettuare la sua miglior partenza di quest’epoca moderna non sortisce effetti così entusiasmanti se poi si pensa al mai sfatato tabù dei playoff dell’ultimo quadriennio. Mai Lewis era partito 5-0 da quando si trova a Cincinnati, anche se questo non significa che il capo allenatore non avesse già ottenuto ottimi progressi per una franchigia che aveva registrato una sola qualificazione alla postseason fin dai gloriosi tempi di Boomer Esiason, interrompendo una delle astinenze più lunghe nel panorama del football americano (1990-2005), tuttavia il destino del team dell’Ohio non sarà visto in maniera ottimistica fino a che non si sarà dimostrato qualcosa anche nel decisivo mese di gennaio.
Oggi la cultura perdente che aveva contraddistinto i Bengals per quel quindicennio non sembra più avere diritto di cittadinanza da queste parti, ed il nuovo corso che ha visto avvicendarsi Carson Palmer e Andy Dalton ha portato quattro presenze ai playoff consecutive, un evento inedito nella storia della squadra dall’inconfondibile casco tigrato. Ci sarebbe già materiale sufficiente per promuovere queste edizioni di squadra tra i migliori Tigrotti mai assemblati su un campo di football – pur non lasciando passare inosservato quando ottenuto da una leggenda della sideline come Sam Wyche e di un ricevitore significativo come Cris Collinsworth, due nomi cui sono legate le uniche due partecipazioni al Super Bowl della franchigia – ma per quanto buono e costante sia risultato il lavoro di coach Lewis, i Bengals non potranno definirsi vincenti fino a che non avranno scacciato il loro personale incubo dei playoff.
Tanto scetticismo non può che essere riconducibile ad una misteriosa mutazione che porta una delle squadre più puntuali della regular season a cambiare inspiegabilmente facciata quando il gioco si fa duro, ovvero nel momento in cui i grandi giocatori vengono ricordati per le loro imprese e per la lunghezza della strada che gli stessi riescono a far percorrere ai loro colori nei mesi più freddi dell’anno. Per cui, seppure imbattuti, i Bengals sono sempre attesi alla prova della definitiva consacrazione, diretta conseguenza di un numero consecutivo di fallimenti di postseason che se da un lato costituiscono una chiara mortificazione dall’altro dovrebbero fornire una motivazione fortissima per fare meglio, e questa seconda visione può senza dubbio riconducibile ad una partenza niente meno che furiosa..
Non gira tutto attorno ad Andy Dalton, non sarebbe corretto sostenere tale tesi sia nei confronti del quarterback e sia nel rispetto dei compagni che assieme a lui hanno costruito quella che oggi pare essersi stabilita come una potenza della AFC, tuttavia il ruolo del regista propone sempre delle letture interessanti da cui si possono capire tante cose, ed il Rosso non fa certo eccezione. Che ci siano degli attributi è innegabile, almeno limitatamente alla regular season, territorio nel quale Dalton ha inscenato per undici volte in carriera una rimonta nel quarto periodo, non facendosi intimidire neppure da rookie e non facendosi affossare da statistiche a volte deprimenti, spesso fatte dimenticare da una gestione impeccabile del drive decisivo.
Nonostante ciò, è fin troppo inevitabile che l’occhio vada ad osservare le grandi differenze tra l’Andy delle canoniche sedici gare di campionato e quello che non riesce ad acclimatarsi nei playoff, dove nel primo caso le cifre parlano di un ragazzo che in quattro anni e spiccioli di NFL detiene una media completi del 62%, 110 passaggi da touchdown contro 68 intercetti e 7.2 yard guadagnate per ogni lancio tentato, numeri che in postseason tendono ad essere stravolti. Passi il 55.7% di completi e passino le 5.5 yard medie per passaggio, ma come reagire di fronte ad un record di 0-4 con un solo lancio da touchdown corrisposto da 6 intercetti?
I fan dei Bengals, nonostante l’approdo alla postseason sia diventata oggi una piacevole abitudine, hanno risposto picche. Si sa, la pazienza è una virtù per pochi eletti, la modernità impone sempre più risultati immediati e non si capisce che talvolta per ambire ad un grande traguardo è necessario soffrire, incassare, riprovare più e più volte. Quindi capita anche di sentire fischiato il proprio quarterback franchigia durante il primo simbolico lancio di una partita di baseball dei locali Reds (evidentemente un colore che è nei destini della città…) solo per ritrovarselo pochi mesi dopo nelle prime posizioni in quasi tutte le categorie statistiche offensive della Lega, un segno che seppur soggetto ad un giudizio solo parziale rappresenta un qualcosa di tangibile.
Il lavoro svolto durante la lunga pausa tra un campionato e l’altro è davanti agli occhi di tutti. Andy Dalton è un quarterback migliorato a livello decisionale, più preciso, tecnicamente più affinato, migliorato sotto tutti i punti di vista. Il sistema offensivo coordinato da Hue Jackson gli permette di lanciare per più di 300 yard a partita senza che questo attacco sia giudicabile come limitato o mono-dimensionale, perché i Bengals sanno pure correre molto bene. Le armi offensive sono così tante che la franchigia non ha nulla da invidiare a livello di talento alle migliori squadre NFL.
I meriti vanno riversati pure verso una linea offensiva che riesce a mantenere la tasca molto pulita e ordinata con soli 6 sack subiti in 177 dropback del quarterback, Andre Whitworth è uno dei tackle sinistri meno conosciuti della NFL ma nonostante i 34 anni è ancora tra quei giocatori in grado di mantenere un rendimento sicuro ed affidabile in un ruolo delicatissimo, una presenza che ben si mescola con tutta la solidità fornita da compagni più giovani come Kevin Zeitler e Clint Boling, i quali sono stati fino a questo momento vicini ad un’efficienza impeccabile.
Uno degli aspetti che ha maggiormente fatto la differenza è probabilmente riconducibile al fatto che A.J. Green, uno dei migliori tre ricevitori contemporanei, non sia la sola soluzione praticabile per fare danni alle difese, e su questo risvolto Cincinnati ha ottenuto dei progressi di non poco conto. Il campione proveniente da Georgia è sempre in grado di prendere qualsiasi cosa gli venga recapitata appresso trasformandola in guadagni e mete, con la differenza che oggi non è più così agevole raddoppiarlo, perché contrariamente al passato si rischia di lasciare troppo spazio alle numerose alternative che l’attacco possiede. Marvin Jones e Mohamed Sanu sono due ricevitori secondari ma che possono rivelarsi molto pericolosi nei big play profondi, ma la grande scoperta di questa stagione è il tight end Tyler Eifert, finalmente lontano dagli infortuni e pronto a mettere in campo tutte le qualità che ne fecero una prima scelta nel 2013 in uscita da Notre Dame. Se Eifert proseguisse con questo ritmo di marcia, che oggi parla di oltre 300 yard e 5 mete dopo poco più di un mese di campionato, si potrebbe tranquillamente proiettare una stagione vicina alle 1.000 yard con touchdown in doppia cifra, un significativo progresso rispetto a quanto apportato nelle stagioni precedenti da Jermaine Gresham.
Ad un attacco versatile, che contrappone all’efficienza dei passaggi un gioco di corse imperniato sulla combo formata da Jeremy Hill e dal prezioso e duttile Giovani Bernard, un backfield che produce complessivamente 4 yard per chiamata, si abbina una difesa che si è dimostrata profonda in vari settori del roster, e che senza particolari aggiunte è riuscita ad eseguire le giocate che servivano nei momenti giusti delle partite, con un rendimento particolarmente elevato nei quarti periodi.
Si è semplicemente trattato di ritrovare dei vecchi protagonisti di un reparto che Marvin Lewis aveva più volte reso credibile in carriera (in parte con la collaborazione dell’attuale head coach dei Vikings, Mike Zimmer, suo vecchio defensive coordinator), un conseguimento non troppo sorprendente data la sua storica vocazione difensiva. Uno dei fattori positivi più riconoscibili è senza dubbio Geno Atkins, uno dei migliori defensive tackle della Lega fino al 2013, anno in cui si ruppe il crociato anteriore in quello che probabilmente è stato il momento più alto della sua carriera. Il che non significa un suo possibile ritorno a quel tipo di rendimento, anzi, per come ha iniziato il presente torneo si può dire che dopo un comprensibile anno di alti e bassi passato più che altro a ritrovare l’esplosività la strada imboccata sia senza dubbio quella giusta. Metà dei suoi placcaggi si sono tradotti in un sack, c’è a referto un fumble forzato ma soprattutto tanta spinta che non compare a statistica, ma aiuta i compagni a creare i big play. Di questo beneficia un altro elemento ritrovato come Rey Maualuga, linebacker che sembrava essere sul piede di partenza non molto tempo fa e che ora si ritrova ad essere uno dei giocatori più incisivi del reparto, grazie alla possibilità di usufruire di uno schema che prevede di colpire con violenza i buchi creati dalla linea difensiva, arrivando nella tasca con immediatezza.
E’ un reparto che sa incidere anche senza la “bestia” Vontaze Burfict, ancora fermo per infortunio, la cui assenza non si è assolutamente fatta sentire grazie all’eccellente rendimento di Vincent Rey, un linebacker originariamente mai scelto che si è fatto le ossa in NFL rimanendo appeso al suo sogno professionistico attraverso un filo sottile, passando per le practice squad attendendo con pazienza la sua occasione. Rey non è solamente il miglior placcatore numerico di squadra, una statistica che lascia il tempo che trova se non si individua correttamente l’area di intervento, è diventato il maggior responsabile di una difesa che lo vede chiamare gli audible, ovvero tutti quegli aggiustamenti che si intuiscono una volta osservato attentamente lo schieramento offensivo, un peso che grava normalmente sull’elemento più esperto.
Il tutto è completato da una secondaria che vede i veterani molto più solidi rispetto ai giocatori più giovani, non sono difatti poche le circostanze nelle quali Dre Kirkpatrick e Darqueze Dennard hanno concesso delle giocate a lunga gittata per la semplice mancanza di comunicazione con il safety di turno. Al contrario, se Leon Hall non ha fatto altro che confermare tutta la solidità di quasi una decade trascorsa in nero e arancione, Adam Jones pare vivere una vera e propria seconda giovinezza agonistica, proprio lui che ha un passato con un’enormità di grane alle spalle e che per certi versi è fortunato a fare ancora questo lavoro, ed invece è ancora qui a produrre giocate decisive in difesa e negli special team a conferma che la tempestività negli interventi non è un qualcosa che si insegna, lo si ha dentro.
E’ un bellissimo quadro, che vede i Bengals resistere tra le squadre imbattute della NFL e capeggiare la AFC North, indebolita dall’assenza momentanea di Ben Roethlisberger ma soprattutto dalla clamorosa partenza negativa dei Ravens, un’assenza di concorrenza che da un lato fa piacere, ma che dall’altro esige la massima attenzione visto che anche Cleveland, in singola partita, può far male a chiunque. E’ altresì incoraggiante il segnale mandato da Dalton e compagni ad un anno quasi esatto da un’altra partenza sfolgorante, distrutta da una devastante sconfitta per 43-17 contro i Patriots, la quale aveva ridimensionato un cammino poi terminato con dieci soddisfacenti vittorie, ma pure con l’ennesima uscita di scena prematura in quel di gennaio. Quest’anno in molti aspettavano al varco i Bengals in vista di una sfida accostabile per difficoltà dell’avversario a quella appena menzionata, e contro i Seahawks sono arrivati i primi segnali di maturità di una squadra che seppur sotto di 17 punti nell’ultimo quarto ha saputo reagire strappando l’overtime, andando poi a vincere la quinta partita consecutiva davanti ad un pubblico che comincia a crederci un po’ più di prima.
I Bengals sono lanciati e pronti a recitare un ruolo primario per tutto il campionato. Tuttavia, non è questo il momento della verità, e quando sarà ora di cominciare quella stagione a sé chiamata playoff non bisognerà effettuare più alcuna stecca. Se gli anni scorsi sono serviti di lezione, stavolta è obbligatorio non sbagliare più.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.
Sono dei miei amati Bengals che si parla? bene :-)
dici bene: non importa quanto bene si potrà fare in regular season, SERVE VINCERE UN PLAYOFF.
Detto (urlato) questo, come prima cosa mi viene subito da dire che è stato importantissimo il recupero del TE Eifert (infortunato tutto lo scorso anno), che spesso toglie Dalton da situazioni difficili. La sua presenza in campo – con le sue meravigliose mani da ricevitore puro – sono una valvola di sfogo spettacolare per il QB, e devo ammettere Andy lo sta sfruttando pienamente. Già oggi Tyler Eifert è uno dei migliori TE della lega. Anche il recupero del WR Marvin Jones è stato fin’ora importante, perchè in passato (nonostante numeri eccelsi) Dalton si è troppo concentrato su AJ Green, facendo come detto tanti bei numeri, ma anche tanti errori con intercetti. Oggi l’attacco è più difficile da leggere per le difese e poco “Green dipendente”. In difesa poi si attende il recupero dell’orco col #55 per vedere fin dove più migliorare tale reparto, già oggi cmq più che discreto. Burfict in mezzo al campo potrebbe davvero far aumentare la pressione agli attacchi avversari e aiutare i compagni nei placcaggi, dove spesso se ne sbagliano fin troppi (la safty Nelson uno dei più colpevoli). Che dire? onestamente sono ancora sconvolto dal recupero contro seattle e il 5-0 va oltre le più rosee aspettative. Bisogna rimanere con i piedi ben piantati per terra, concentrati e soprattutto lontani dagli infortuni…..per il resto non svegliate Dalton :-)
WHO DEY!!!!