Bruce Arians si nasconde dietro un paio di occhiali dalla montatura spessa e sotto un cappellino ben calcato sulla testa. A prima vista non è una di quelle persone che ti rimane impressa da subito: un po’ paffutello, silenzioso, sempre composto sia a bordo campo che in sala stampa e dalla voce sempre posata, può passare tranquillamente per l’uomo qualunque. Se lavori con lui però ti rendi conto che non è affatto un uomo qualunque, ma uno dei migliori coach in attività. Arians, a piccoli passi, ha costruito una carriera di successi, meritati, senza mai perdere quell’aria composta e modesta di chi sa di far bene ma che non si lascia andare a proclami e sbruffonaggini da star quando i successi cominciano ad arrivare. Come solo i veri campioni sanno fare.
Il debutto di Arians nella NFL arriva nell’88 come coach dei running backs in casa Chiefs e anche se non si fa notare dai media e dal grande pubblico da subito si costruisce una buona fama tra gli addetti ai lavori. A Kansas City ha infatti l’occasione di collaborare con Bill Cowher, allora defensive coordinator, che si ricorderà di lui e se lo porterà agli Steelers campioni del mondo per due volte con Arians in staff, prima come allenatore dei ricevitori e poi come offensive coordinator. Una delle grandi caratteristiche che hanno fatto di Arians un elemento su cui puntare da parte delle dirigenze è la sua grandissima capacità di capire i giocatori che ha di fronte, capire quali sono le loro potenzialità e sviluppare al massimo le loro capacità, senza chiedere troppo né troppo poco. Non è un caso se i Colts lo hanno assunto per lanciare i rookie qb del calibro di Peyton Manning e Andrew Luck. Legati a doppio filo dall’essere prima scelta assoluta entrambi hanno lavorato con Arians alla prima stagione in Nfl e sotto l’ala protettrice del coach hanno allontanato le pressioni e le aspettative su di loro potendo lavorare in un clima ideale. Manning sappiamo cosa è diventato e per Luck si prospetta un futuro altrettanto brillante. Quando, nella stagione 2008, i Pittsburgh Steelers vinsero il Super Bowl, era lui l’offensive coordinator che gestiva le chiamate per Big Ben.
E non è un caso nemmeno che oggi Arians abbia preso un qb dalla prima scelta assoluta, ma con una carriera non particolarmente brillante, e lo abbia messo in cabina di regia di un progetto vincente. Carson Palmer ringrazia e negli anni finali della sua carriera, quando dopo Oakland si pensava fosse finito, vive ancora giorni di gloria e si gode numerose vittorie. La filosofia di Arians coi qb è un semplice motto: “Have fun, throw it!”. Con divertimento, gioia e amore per il gioco ha creato dei grandi rapporti umani coi propri giocatori e ha costruito squadre in grado di lanciare un TD da 75 yard a 1:33 dalla fine quando si stava giocando un terzo e cinque dalle proprie 25 yard, chiedere a Philadelphia per conferma…
Arians dove va vince perchè come pochi altri sa mettere i giocatori che ha in roster nella posizione di dare il massimo in un sistema di gioco che coinvolge tutti, e gli uni dagli altri i titolari come le riserve sanno sanno sopperire alle proprie mancanze ed esaltare le proprie capacità. Se ne sono accorti per la prima volta in quel di Indianapolis dove nel 2012, a causa della malattia dell’head coach Pagano, Arians subentra in corsa a capo dei Colts del rookie Luck portando la squadra a un record di 9-3 che ha rappresentato uno dei più grandi one-season turnaround della NFL. Nessun coach ad interim ha vinto altrettanto e i Colts si sono guadagnati la qualificazione ai playoff subito dopo una stagione con il peggior record di lega, anche se forse voluto, in modo da raggiungere Luck alla prima scelta assoluta. Il tutto con l’eleganza e la modestia che contraddistingue solo i più grandi. Vale l’esempio di come ha sostituito Pagano: “non ho mai permesso a nessuno di chiamarmi head coach e non ho mai supposto di essere l’head coach. Quello è sempre rimasto Chuck anche quando era assente. Ho semplicemente espanso il mio ruolo con decisioni tipo “giochiamo un quarto down” e facendo capire a tutti chi era la guida della squadra a bordo campo”. Fatti e non parole. Elegante sempre e vincente molto spesso.
Arians non lascia nulla al caso e crede che ogni cosa accada per un motivo come quando parla del drop di Lee Evans per Baltimora in finale di conference nel 2011. Quel drop impedisce ai Ravens di segnare il TD della vittoria contro i Patriots e impedisce a Chuck Pagano, defensive coordinator, di giocare il Super Bowl. Ma se così non fosse stato i Colts non avrebbero ingaggiato Pagano e a sua volta non avrebbe telefonato ad Arians, che non si sarebbe mai trovato a sostituirlo… Questo per Arians significa credere che ogni cosa accade per un motivo e quella stagione 2012 rappresenta la consacrazione. Arians esce dalla nebbia della disattenzione mediatica e si guadagna il premio di head coach of the year (mai vinto da un coach ad interim) come anche il primo contratto da allenatore capo in quel di Phoenix dove Arians porta i suoi talenti, la sua filosofia e si dimostra da subito competitivo. Sfiora soltanto i playoff a causa della concorrenza massiccia di una division che annovera i Seahawhs e i 49ers, ma ora nel 2014 è in testa, avendo migliorato ancora i Cardinals e avendoli portati ancora più in alto. Il sistema offensivo di Arians ha ridato al veterano Palmer la forma dei giorni migliori, ha vinto anche con il backup qb Drew Stanton, è primo nella brutale NFC West e ha schiacciato i Dallas Cowboys, privi di Romo, nello scontro diretto per il primo posto di Conference. Se ora siamo qui a chiederci se gli Arizona Cardinals siano o meno la miglior formazione della NFC è a causa di Arians che ha tolto dall’anonimato una squadra altalenante e l’ha portata in alto, all’attenzione di tutti. Se dovesse vincere il coach of the year, il premio sarebbe decisamente meritato e nell’anno in cui il Super Bowl si gioca a Phoenix…….. non si dice nulla, porta male!
Si avvicina agli sport americani grazie a un amico che nel periodo di Jordan e dei Bulls tifa invece per gli Charlotte Hornets. Gli Hornets si trasferiscono in Louisiana ed è amore a prima vista con la città di New Orleans e tutto quello che la circonda, Saints compresi, per i quali matura una venerazione a partire dal 2007 grazie soprattutto ai nomi di Brees e Bush. Da allora appartiene con orgoglio alla “Who Dat Nation”.