Non dev’essere facile essere Philip Rivers in questo particolare momento della sua carriera, sportivamente parlando, s’intende. Osservandone il linguaggio del corpo e le inimitabili mimiche facciali è perfettamente intuibile il come gli frema all’interno il desiderio di vincere, di primeggiare, di essere sempre competitivo, cercando in tutti i modi di trattenersi dall’eruttare emotivamente, perdendo tutta la sua compostezza e facendosi tendere trappole pericolose dalla frustrazione. Questo esercizio mentale per tenere a freno l’istinto dev’essere maggiormente difficile quando la mente del buon Philip ricorre inevitabilmente a quanto oggi figura nelle personali bacheche da due illustri compagni di draft, Eli Manning e Ben Roethlisberger, ambedue metri di paragone per lui eterni, nonché alimentatori del sacro fuoco che gli brucia dentro, impegnato com’è a non essere ricordato come l’unico regista di grande livello uscito dalle scelte 2004 a non aver vinto il Super Bowl.
San Diego, sotto Norv Turner, è difatti stata a lungo in grado di provare la scalata alla finalissima per poi ritrovarsi invischiata nella classica fine del ciclo, che ha visto l’head coach terminare la sua esperienza tanto fruttuosa nella regular season quanto ben al di sotto delle aspettative nei playoffs – un’osservazione spesso fatta anche al grande Marty Schottenheimer – pur dovendo sottolineare l’approdo al Championship AFC nella stagione 2006, dal quale i Chargers uscirono sconfitti per 38-34 dagli Indianapolis Colts, nonché in quello 2007, dove Rivers uscì nuovamente sconfitto, stavolta dai Patriots per 21-12, ma entrò nella leggenda per aver giocato quella partita con il legamento crociato anteriore lesionato, una prova di enorme coraggio per un ragazzo nato con la stoffa del leader.
Da allora, i Chargers hanno cambiato sistema, mentalità, general manager e head coach. Dato un deciso colpo di spugna alla coppia Norv Turner/A.J. Smith si è aperta l’era di Mike McCoy, sotto il quale la squadra ha fatto passi da gigante arrivando alla qualificazione in postseason durante il passato campionato, un risultato che non si pensava sarebbe giunto così presto. Tuttavia, la bontà delle scelte eseguite negli ultimi due draft e soprattutto una forte revisione del sistema offensivo, all’interno del quale ora Rivers scarica la palla con un timing nettamente inferiore rispetto al passato e cerca piccoli ma sistematici guadagni lasciando che la bomba in profondità – meglio se per Malcolm Floyd – sia solo occasionale, hanno riportato in breve tempo San Diego a far parte del novero delle compagini da non sottovalutare troppo nella AFC.
Partiamo proprio da quest’ultimo aspetto. McCoy, che nei quattro anni precedenti alla sua assunzione californiana era stato il coordinatore offensivo dei Denver Broncos e che quindi conosce molto bene la AFC West, ha resettato Rivers a livello mentale, gli ha tolto tutte le ruggini derivate dalla scarsità di risultati sotto l’egemonia di Turner, il quale aveva finito la sua esperienza in loco con un’assenza playoffs durata tre stagioni consecutive, un conseguimento non accettabile per un quarterback con così tanto desiderio di vittoria e peraltro giunto alla seconda parte della sua carriera, tanto più se l’orologio che scandisce la scadenza del sua finestra ideale per il Super Bowl era diventato più perfido di prima.
Quello predecente era un attacco troppo sbilanciato verso il successo dei passaggi, che conseguiva verso troppe forzature e troppi dropbacks profondi, il che era significato vedere spesso Rivers a terra, trovarlo impegnato in maniera esagerata a recuperare risultati scagliando palloni qua e là senza il minimo contributo di un gioco di corse completo ed efficace, fino a farlo diventare vittima del suo stesso carattere, da sempre uno dei suoi aspetti maggiormente contraddittori. McCoy non vedeva l’ora di potersi mettere al lavoro con Rivers, che a detta di tutti coloro che hanno avuto l’occasione di allenarlo è considerato eccellente nello studio dei filmati e nella discussione settimanale del piano di gioco offensivo, ma soprattutto McCoy è piaciuto tantissimo a Philip, e la loro reciproca comprensione e stima rappresenta una delle chiavi di volta del successo di quest’ultimo anno e mezzo. Non è un caso che il quarterback di North Carolina State abbia visto impennarsi le sue percentuali di completi, con una particolare efficacia nelle traiettorie comprese tra le 10 e le 20 yards.
Poi c’è l’aspetto draft, da sempre fondamentale per chi in NFL vuol essere considerato vincente e durare a lungo. E qui entra in scena Tom Telesco, il successore di Smith, il quale ha condotto due sessioni di scelte dalle quali la squadra è uscita molto rinforzata, e a differenza di molte altre franchigie ha trovato un numero superiore alla norma di giocatori pronti a scendere in campo da subito, dando un ricambio generazionale necessario in alcuni reparti senza perdere in termini di continuità di risultato. Basti pensare alla gemma scovata in Keenan Allen, il quale, da settantaseiesimo giocatore scelto nel 2013 ha esordito rompendo la barriera delle 1.000 yards con 8 mete proponendosi quale più che consistente bersaglio per Rivers, o a Jason Verrett, primo round di quest’ultimo anno, capace di formare assieme a Brandon Flowers un tandem di starters nel ruolo di cornerback tra i più efficienti di tutta la lega. Ed un pensierino va anche agli undrafted free agents, uno in particolare, Branden Oliver, il quale a seguito dell’epidemia infortunistica occorsa al backfield ha saputo farsi valere senza possedere esperienza alcuna, mostrando interessanti doti composte da un fulmineo raggiungimento del’angolo di taglio alla fine della linea offensiva e da una capacità molto buona di rompere i placcaggi, sia di potenza che eseguendo movenze in spin.
Oggi il percorso dei Chargers è arrivato alla sua metà, e se proiettato a fine stagione con i medesimi risultati, è molto probabile un miglioramento del 9-7 dello scorso anno. Ma la NFL non è matematica e fa dell’imprevedibilità uno dei suoi cavalli di battaglia storici, per cui facendo delle previsioni c’è sempre da fare molta attenzione. Quello che è sicuro è che la compagine californiana, sommando pregi e difetti, ha comunque dimostrato di essere competitiva per un posto nei playoffs nonostante la recente striscia di due sconfitte consecutive, senza dubbio fastidiose perché arrivate all’interno della division (il bilancio complessivo è invece 5-3), e l’idea è che una volta approdata alla postseason in singola gara questa squadra possa veramente dare fastidio a chiunque.
E’ il momento topico dell’anno, dove i Chargers, dopo una partenza fulminea sono visti come squadra in momentanea difficoltà, ed i loro difetti sono emersi davanti alle sconfitte. Quando si vince, è facile far passare tutto in secondo piano, quando si perde vengono immediatamente annotati tutti i placcaggi mancati dalla difesa, uno dei punti più dolenti delle gare contro Kansas City e Denver, il fatto di aver difeso male le corse e di aver elargito troppe yards in singoli giochi, nonché la generosità nei terzi down, a volte per colpa di alcune penalità perfettamente evitabili, che hanno fatto proseguire drives estenuanti come quelli architettati dai Chiefs, con l’attacco costretto a guardare da fuori.
Oltre a questo ci sono tanti infortuni, che tutte le squadre patiscono, certo, ma che a San Diego hanno provocato l’alternanza di tre centri e quattro running backs, e Dio solo sa quanto importanti erano elementi come il centro Nick Hardwick, che con Rivers ha una connessione mentale di livello superiore, e come Danny Woodhead, il pilastro del gioco in screen, ambedue persi per tutta la stagione. Per tutto il secondo tempo della gara contro i Broncos Jason Verrett è rimasto ai box per il riaggravarsi dell’infortunio alla spalla, e con Brandon Flowers già fuori i sostituti Shareece Wright ed il veterano Richard Marshall sono stati divorati dai fortissimi ricevitori arancio. Pesano assenze come quelle di Melvin Ingram, in injured reserve ma con possibilità di rientrare, perché il peso della pass rush non può andare tutto sulle spalle del pur bravo Dwight Freeney, che sta giocando ad alti livelli nonostante l’età sportivamente avanzata, ma che è ben distante dalla forma atletica che possedeva in gioventù ed avrebbe bisogno di rifiatare più spesso. Trovare infine una soluzione definitiva nella parte centrale della linea offensiva, spesso aiutata dall’enorme esperienza di Rivers nelle letture degli schieramenti difensivi, potrebbe garantire al medesimo una protezione migliore ed offrire varchi interni più percorribili di quelli attuali, dato che il running back di turno è stato spesso costretto a cercare luce all’esterno.
Il compito dei Chargers è ora quello di analizzare queste lacune che le sconfitte hanno posto alla luce del sole, convincersi che non c’è nulla di cui preoccuparsi e riprendere a percorrere la strada che li aveva portati a raggranellare cinque vittorie consecutive. Il tempo per recuperare gli equilibri divisionali c’è tutto, le tre avversarie dirette andranno affrontate un’altra volta per ciascuna, ed il finale di campionato testerà davvero alla grande la consistenza playoffs di questa squadra, che misurandosi in settimane consecutive con Denver, New England e San Francisco, potrà capire le proprie reali possibilità.
Rivers sarà sempre lì, sotto lo stesso centro o forse no, ciò che non cambierà sarà la sostanza, con lui a ringhiare contro avversari, compagni ed allenatori, a portare tutta la sua carica emotiva in campo cercando di gestirla positivamente, a ricordare a tutti i compagni, snap dopo snap, che San Diego può farcela contro chiunque. Questo fino al giorno in cui si ritirerà, e con o senza anelli al dito, sarà il miglior quarterback che i Chargers abbiano mai schierato.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.