In fondo, nel calcio è piuttosto semplice. Aspetti che uno sceicco compri la tua squadra del cuore, spenda una vagonata di milioni alla prima sessione di calciomercato, ingaggi un allenatore di grido e il più è fatto. Magari ci sarà da aspettare un anno o due, il giusto tempo per creare una chimica di squadra, ma il risultato è pressoché certo. Il proliferare di trofei poi rende la cosa di sicuro più agevole.
Nel football però costruire un team vincente è cosa ben più complessa. L’elenco delle variabili che devono incasellarsi al meglio è, se non infinito, quanto meno sterminato. In un roster di 53 giocatori, infatti, non bastano 2-3 fuoriclasse per fare la differenza. Non basta spendere una vagonata di soldi per comprare i migliori free agent, non basta l’Head Coach di approvata e riconosciuta bravura. Costruire una squadra di football vincente è difficile quanto costruire un impero finanziario dal nulla. Servono risorse, competenza, pazienza, e perché no, fortuna.
Serve il talento, innanzitutto, ma serve anche un coaching staff (e quindi un progetto tecnico) capace di plasmarlo e metterlo nelle condizioni di rendere al meglio. Serve un Front Office capace di gestire con oculatezza i contratti dei giocatori, abile nel riconoscere (e blindare) i giocatori essenziali e lasciare andare quelli ormai in fase calante con pretese economiche esorbitanti. Serve un esercito di scout capace di andare a scovare i talenti giusti in quel Draft che mai si rivela una scienza esatta (se lo fosse, Tom Brady non sarebbe stato una sesta scelta).
E poi c’è quella componente apparentemente casuale propria del football, dovuta alla sua caratteristica peculiare di avere una stagione corta (16 partite, non 82) e di decidersi in gare secche, in cui un episodio, un infortunio, una serata storta di un giocatore chiave possono decidere una stagione. E nel football, a differenza del calcio, c’è un solo trofeo in palio: il Vince Lombardi Trophy. Non ci sono piazzamenti in Champion’s o Europa League per consolarsi, non ci sono coppe nazionali.
E’ difficile costruire una squadra vincente, nel football. Chiedere ad esempio agli Houston Texans.
Hanno sì l’alibi di essere la franchigia più giovane della Lega (esordio datato 2002) ma hanno impiegato 5 anni solo per diventare un team di medio livello. La prima stagione con record non perdente (8-8) è datata 2007, la prima stagione vincente è del 2009 (9-7), ma la prima apparizione ai PO è avvenuta solo nel 2011. I Texans sono l’esempio più lampante di come la scalata al vertice richieda tempo e pazienza. Eppure è possibile.
Grazie a scelte al Draft illuminate (Mario Williams, Andre Johnson,J.J. Watt, Brian Cushing) in mezzo ad altre fallimentari (David Carr, Amobi Okoye, Travis Johnson), grazie ad un colpo di genio come ingaggiare l’undrafted Arian Foster, grazie ad una free agency capace negli ultimi anni di aggiungere pochi pezzi ma funzionali al progetto (Matt Schaub, Jonathan Joseph, ad esempio), ora i Texans hanno tra le mani uno dei roster più interessanti e completi della NFL, tanto che ad inizio stagione erano indicati da tutti come una delle più serie contender nella AFC.
Il 2011 infatti era sembrato semplicemente il trampolino di lancio verso la gloria, con il primo titolo di Division, la prima apparizione ai Playoff, una netta vittoria sui Bengals in Wild Card e una onorevole sconfitta in quel di Baltimore nel Divisional Round. Il tutto non solo senza il proprio Qb titolare, Matt Schaub, ma anche senza il suo back up Matt Leinart, con un rookie come T.J. Yates a guidare l’attacco e un Andre Johnson non al top dopo un grave infortunio di metà stagione. Insomma, il 2012 sembrava l’anno giusto per puntare al Grande Ballo, bisognava solo arrivare in forma al momento decisivo, e poi il limite sarebbe stato il cielo, come si suol dire in America.
Le tre partenze pesanti in offseason dovute al salary cap (Williams, Ryans, Winston) sembravano comunque colmabili, e la stagione 2012 ha dato ragione al Front Office texano. Marione Williams e DeMeco Ryans sono affondati assieme alle loro nuove squadre (Bills e Eagles), Winston a Kansas City si è fatto notare più che altro per una sfuriata contro il pubblico dell’Arrowhead Stadium che esultava per l’infortunio di Matt Cassell, il proprio Qb.
Grandi aspettative sui Texans, dunque. Inizialmente ripagate. A lungo in testa alla AFC, padroni della Conference fino alla sciagurata week 17, con una difesa mostruosa guidata da un J.J. Watt da 20,5 sack, e un attacco che con il trio Schaub-Johnson-Foster era capace di segnare punti con disinvoltura. Eppure l’esito finale è stato lo stesso del 2011. Vittoria in Wild Card ancora contro i Bengals, ma molto meno convincente, e sconfitta, stavolta netta, in quel di Foxboro contro i Patriots. Considerando che stavolta i Texans non potevano avere neanche l’alibi degli infortuni, il bilancio della stagione è quasi paradossale: sono andati più vicini al Super Bowl l’anno scorso.
Quell’ultimo, maledetto gradino per arrivare al Grande Ballo sembra essere diventato all’improvviso molto più alto. Ma perché? Cosa è mancato ai Texans?
Innanzitutto, la gestione della regular season. La schedule dei Texans era probabilmente la più agevole tra quelle delle altre contender in AFC, e il seed n°1, sempre utile per un team abituato a giocare al caldo o al coperto, più che alla portata. E il vantaggio di aver affrontato alcuni squadroni in momenti in cui erano più vulnerabili (i Broncos di inizio stagione con le loro partenze al rallentatore, i Ravens privi di Lewis e Webb e con un Suggs al rientro da un grave infortunio).
Invece, il crollo di rendimento tra novembre e dicembre ha fatto crollare le loro quotazioni. E anche se per convenzione una stagione da 12 vinte e 4 perse (la migliore della storia texana) non può essere definita fallimentare, l’amaro in bocca per quel primato buttato letteralmente alle ortiche con una sconfitta in quel di Indianapolis alla week 17 è tanto.
Cosa è successo?
Beh, gli infortuni ci hanno messo del loro anche quest’anno, togliendo di mezzo prematuramente colui che si era affermato ormai come il vero regista difensivo dei Texans, ovvero l’ILB Brian Cushing. Ma siccome la sfortuna, si sa, ci vede benissimo, ecco arrivare gli infortuni anche dei suoi primi (e validi) sostituti: Tim Dobbins e Darryl Sharpton, a cui si è aggiunto anche Keyaron Fox.
Wade Phillips, il Defensive Coordinator che in due anni ha trasformato la difesa dei Texans in una delle migliori della Lega, non è riuscito a trovare le giuste contromosse per stabilizzare sul lungo periodo la difesa, e quando anche il rendimento di Joseph è calato a causa di un infortunio l’intero reparto ha patito il colpo, finendo col non riuscire più ad arginare gli attacchi più poderosi (leggasi Patriots, oltre 40 punti in 2 gare nel giro di un mese).
A conti fatti, il vero limite della difesa dei Texans è stata la sua dipendenza da tre giocatori: Watt, Cushing e Joseph. Erano loro ad esaltare un cast di supporto formato da giocatori giovani in crescita (Barwin, Reed, Jackson) e veterani che non hanno reso quanto ci si aspettava (Antonio Smith, Cody, Quin, Manning).
La pass rush infatti non si è giovata più di tanto dei costanti raddoppi a cui Watt costringeva i linemen avversari. Alla fine il saldo dice: Watt 20,5 sack-resto del team 24. Venuta meno la pressione sui Qb avversari, la secondaria ha cominciato a ballare pericolosamente. Una soluzione per il futuro potrebbe essere il lancio di Whitney Mercilus, la prima scelta del Draft 2012, che quest’anno ha trovato uno spazio nelle rotazioni inferiore alle attese. Ha messo comunque a referto 6 sack, e la speranza in Texas è che esploda al suo secondo anno proprio come Watt.
Anche l’attacco però ha mostrato delle note dolenti. Basato sul trio Schaub-Foster-Johnson, ha pagato un impostazione esageratamente conservativa e un calo di rendimento della OL. Un gioco fatto di corse e passaggi sul medio-corto raggio, con qualche improvvisa verticalizzazione, perfetto per gestire il cronometro se ci si trova in vantaggio ma controproducente se si deve inseguire, come hanno dimostrato le sfide coi Patriots.
Sul banco degli imputati Matt Schaub, capace di realizzare ottime statistiche quando tutto gira per il verso giusto ma anche lui calato drasticamente di livello nella fase cruciale della stagione, quando il pallone pesava una tonnellata. L’accusa? Di essere un ottimo game manager, ma di non essere quel leader capace di trascinare i compagni nelle difficoltà. Un handicap dimostrato dall’improvvisa sterilità offensiva mostrata dai Texans nelle ultime partite, complice anche l’assenza di bersagli validi: oltre ad Andre Johnson e al TE Owen Daniels c’era infatti poco. Contro i top team, l’assenza di un valido WR n°2 (Walter non è un’arma credibile) è un limite piuttosto grave. Le speranze per il futuro in questo senso sono riposte nel rookie DeVier Posey e nel rookie di fatto Lestar Jean, che, pur condizionati da infortuni, hanno mostrato qualche sprazzo di classe, soprattutto come armi sul profondo, elemento essenziale per variare un gioco altrimenti troppo orizzontale.
La linea d’attacco, pur portando ben 3 uomini su 5 al Pro Bowl, ha mostrato una grossa lacuna nella posizione di RT, dove Derek Newton ha dimostrato di non essere all’altezza dell’eredità lasciata da Winston.
Limiti strutturali e di gestione dunque, e grossi sospetti di limiti psicologici negli uomini chiave hanno limitato la scalata al cielo dei Texans. Vista l’età e lo stato di salute di alcuni uomini cardine, la finestra di opportunità del team, ovvero quel periodo in cui il roster è capace di dare il massimo e può puntare ai traguardi più ambiziosi, rischia di richiudersi in fretta. Occorre colmare le lacune del roster più evidenti (RT, WR, NT, SS e FS) e soprattutto gestire al meglio le risorse fisiche e mentali nell’arco della stagione, partendo magari meno sparati ma arrivando ai Playoff in fase crescente. I Patriots, i Ravens o i Broncos non avrebbero mai perso ad Indianapolis all’ultima giornata se avessero avuto una posta in palio importante come il fattore campo nei Playoff. Dettagli, forse. Ma ad alto livello, sono i dettagli che fanno tutta la differenza del mondo.
Serve la crescita di tutti i leader (Schaub su tutti) e dell’intero coaching staff (coach Kubiak, se ci sei batti un colpo!), altrimenti quell’ultimo maledetto gradino che separa i Texans dalla gloria rischia di rimanere insormontabile, e quella finestra in cui il limite può essere solo il cielo rischia di chiudersi per chissà quanti anni ancora.
Folgorato dal football Usa all’età di 11 anni (era il lontano 1992), tifoso di 2 diversi tipi di Dolphins (quelli di Miami e quelli di Ancona), ha iniziato a scrivere su Play.it nel 2012. Appassionato di sport a 360°, di quelli che durante le Olimpiadi trasferiscono la propria residenza davanti alla Tv, considera il football lo sport di squadra per eccellenza, e una straordinaria fucina di storie di eroi ed antieroi. Che ogni tanto prova a raccontare!
la finestra per il gran ballo del superbowl si chiuderà ben presto,poichè in division c è un signore di nome luck,che dominerà la lega negli anni avvenire
Nei miei pronostici di inizio stagione li avevo messi al Superbowl. Il grosso calo fisico dell’ultimo mese è stato imbarazzante….nonostante tutto la partita ad Indianapolis ha deciso la stagione. In casa se la sarebbero giocata alla pari con tutte. Se Luck migliorerà col passare degli anni, almeno per 2/3 stagioni vivremo grandi battaglie.
Buonissimo pezzo. Il vero problema di HOU è stata la mancanza di riserve dove sono venuti a mancare giocatori freschi e riposati per dare qualche snap di riposo ai titolari. Schaub è un qb di medio valore, ideale per il sistema dei Texans ma non coerente negli altri sistemi. Il salary cap è molto stretto quindi Barwin dovrebbe partite. Qui deve venire fuori la classe del GM, pescare giocatori producenti a basso costo e al draft chissà perché non cercare il secondo wr o un altro tight end che nella loro zona rischiano di essercene davvero molti e interessanti