I media non perdonano. L’hanno imparato in fretta i Philadelphia Eagles edizione 2011, i quali avrebbero desiderato che la parola Dream Team non fosse mai uscita dalla bocca di una delle loro pregiate acquisizioni di offseason, quasi a tirarsi addosso il malocchio come solo chi è convinto di vincere per pura sommatoria di giocatori di talento può riuscire a fare. Alla fine la lezione da imparare è sempre quella.
Nello sport vince la star, vince il coach, ma vince anche il gregario ed il giocatore di ruolo. Vale per gli Eagles come per i Miami Heat, tanto per fare un parallelo con un’altra aggregazione di talento che non ha prodotto un titolo.
E dire che un tempo gli Eagles erano tra le squadre più stimate dal punto di vista della gestione manageriale, in quanto non si tuffavano a capofitto nella free agency tentando di impressionare il proprio pubblico, o perlomeno si limitavano nell’eseguire mosse clamorose, percorrendo sempre quale corsia preferenziale la scelta di giocatori al draft che potessero corrispondere al sistema offensivo e difensivo giocato, il che portava alla possibilità di sviluppare il talento dentro le mura di casa.
Poi qualcosa è cambiato, un Super Bowl è andato perso e l’ansia di raggiungerlo di nuovo per riscattarsi hanno probabilmente giocato un ruolo determinante, ed il management di Phila ha deciso di prendere la scorciatoia, di allargare i cordoni del borsone, di inserire talento già comprovato in altre squadre all’interno di un’organizzazione abituata però a lavorare in modo diverso. E le scelte eseguite al draft, negli ultimi anni, non sono certo state della medesima qualità rispetto a quelle che avevano aiutato Andy Reid a costruire dei roster che avevano raggiunto quattro finali di conference, nonché a diventare il coach più vincente nella storia della franchigia, e, non ultimo, quello più duraturo di tutta la Nfl in seguito alla dipartita di Jeff Fisher.
Vince Young, Nnamdi Asomugha, Dominique Rodgers-Cromartie, Cullen Jenkins, Jason Babin sono stati nomi triti e ritriti, premuti chissà quante volte sulla tastiera dei computer dai giornalisti di tutta l’America, simboli del fatto che il football americano è ancora il gioco di squadra per eccellenza, che vive di meccanismi talvolta impercettibili, che spesso non dipendono dal talento del singolo, ma dal solo fatto di remare tutti quanti nella stessa direzione per uno scopo univoco.
Quello che gli Eagles non hanno fatto capire, è se intendessero giocare questo campionato per esporre i propri gioielli preziosi e puntare sulle giocate del singolo per dominare avendo una squadra già molto buona, illudendosi di poter ugualmente perseguire quel senso di rivalsa nei confronti di un Super Bowl che aveva fatto loro sognare, ma che era terminato con una vittoria dei New England Patriots.
Nonostante il Dream Team, al quale settimanalmente sono stati pubblicati innumerevoli giochi di parole comprendenti la parola “nightmare”, i Philadelphia Eagles hanno continuato una parabola discendente cominciata ben presto, e si ritrovano a raccogliere i cocci di una stagione imprevedibilmente negativa, caratterizzata da un record di 4-7, da una sola affermazione in casa (dove hanno perso 8 delle ultime 9 uscite compresi i playoffs), e da un’ultima esibizione davanti al proprio pubblico che ha fatto assaggiare ai tifosi l’amaro sapore dell’umiliazione – guarda caso a firma dei medesimi Patriots – che hanno passeggiato su quanto rimato di una delle squadre più continue dell’era della free agency ponendo in evidenza una serie di errori manageriali e tattici che in questo contesto non aveva certo avuto precedenti.
Il simbolo della stagione fallimentare degli Eagles è tutto racchiuso dentro a quanto accaduto domenica, dove sono emerse troppe lacune, e situazione nella quale Tom Brady ed il suo attacco stellare hanno seppellito i padroni di casa segnando 38 punti in quasi 38 minuti di gioco, rimontando dal 10-0 iniziale a favore di Philadelphia.
LeSean McCoy, affermatosi a pieno titolo quale uno dei migliori running backs della Nfl, ha ricevuto la miseria di sei portate nel primo tempo di una gara dove Philly affrontava una difesa non certo irresistibile contro le corse, una situazione di goal line è stata gestita con tre chiamate di passaggio consecutive, Vince Young ha conseguentemente lanciato il suo career high in termini di yards in una delle sue peggiori partite dal punto di vista delle decisioni prese, e persino sulla sideline sono partiti contrasti tra assistenti allenatori, si pensi a quanto accaduto tra Marty Morninwheg, discusso offensive coordinator, e Jim Washburn, al primo anno alla guida della linea difensiva.
In aggiunta a ciò, un pubblico appartenente ad una città che non perdona, ha chiesto a gran voce la testa di Andy Reid.
Reid che per quanto abbia fatto durante la sua presenza a Philadelphia ora è sul patibolo, reo di aver commesso molte scelte sbagliate, e di non aver pensato alla profondità di un roster che aveva delle chiare pecche. Su tutte l’inadeguatezza di una linea offensiva che non poteva contare sull’apporto immediato di un centro scelto al sesto giro come Jason Kelce, delusa dall’altalenante livello di prestazioni fornito da una prima scelta come Danny Watkins, ma anche l’assenza costosa di un linebacker in grado di incidere costantemente sulle azioni difensive, e di un safety che non si senta perso in mezzo alle difficoltà non appena essere arrivano.
Reid che, trovatosi privo di opzioni, è stato costretto a sostituire il fallimentare Sean McDermott, che aveva coordinato per due anni la difesa, con Juan Castillo, nientemeno che l’ex allenatore della linea offensiva, probabilmente non l’uomo adatto per tenere in scacco gli attacchi avversari per tutta una stagione, privo di esperienza com’era.
Non ultima, la mancanza di disciplina da parte di un giocatore che dovrebbe essere il simbolo positivo della squadra, sul cui carattere gravavano dubbi anche in uscita dal college.
Il comportamento recente di DeSean Jackson, che era diventato l’homerun hitter preferito per confezionare un big play dopo l’altro, è qualcosa di inesplicabile, il suo atteggiamento corrisponde a quello di un giocatore che ha chiaramente fatto vedere di aver mollato, come testimoniano l’esclusione dal lineup di quindici giorni fa contro Arizona per aver mancato un meeting, nonché l’accomodamento in panchina per tutto il quarto periodo nella gara contro i Patriots, colpevole com’era di aver lasciato cadere due palloni per lui facilissimi in endzone.
Jackson non è il giocatore che era, forse a causa dello spavento per le commozioni celebrali raccolte di recente, ma questo costituisce un problema quasi insormontabile per gli Eagles, che sono chiamati a decidere se dargli un nuovo contratto più lungo e redditizio senza sapere quale possa essere il suo livello di impegno futuro.
C’è da finire comunque la stagione, nel migliore possibile dei modi se non altro per porre dei punti fermi in vista di una ricostruzione che pare inevitabile. Va aggiunto altro talento nei settori appena citati, e vanno prese importanti decisioni sul personale attualmente sotto contratto, sia tra i giocatori, sia nel coaching staff. Giovedì notte gli Eagles hanno un’altra partita difficile, dovranno affrontare un viaggio lungo e stressante in quel di Seattle con pochissimo tempo per preparare una partita che giocheranno senza Michael Vick (costole), Jeremy Maclin (spalla), Nnamdi Asomugha (ginocchio) e che potrebbe veder partire titolare Mike Kafka, sul quale lo staff stesso vorrebbe vedere di più per capirne il possibile sviluppo. Vince Young ed il suo contratto annuale, sono con tutta probabilità giunti al capolinea.
Ora, la chiave di tutto, è capire se ad Andy Reid verrà data un’ultima possibilità in virtù di possibili aggiustamenti sullo staff (anzitutto un nuovo defensive coordinator) e con il draft 2012 a disposizione per cercare di tappare le numerose falle del roster. Ai playoffs, anche se la matematica non condanna ad oggi la squadra, è meglio non pensare più.
Era partito tutto come un bel sogno, che sarebbe dovuto finire con un’entusiasmante corsa verso la gloria, ed una parata per le vie di Philadelphia. Michael Vick doveva essere il campione redento, il conducente di un attacco stellare coadiuvato da Jackson, Maclin e McCoy, Asomugha avrebbe annullato il miglior ricevitore avversario di volta in volta, Jenkins e Babin avrebbero distrutto i quarterback avversari.
Ci si era tuttavia dimenticati di un piccolo particolare: il football americano funziona in un’altra maniera, e la chimica di squadra è ancora un fattore determinante ed impossibile da sostituire, l’individualismo e la presenza contemporanea non portano da nessuna parte. In fondo gli Eagles giocano nella stessa division dei Washington Redskins. Certi errori li hanno visti fare da vicino, e qualche lezione in più avrebbero dovuto impararla.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.
Il problema primcipale di Phila è stata la stagione piena di infortuni di Vick, massacrato dai difensori avversari sia per la dolcezza della tasca che per gli arbitraggi (se Eli Manning viene toccato scattano le penalità, Vick è stato sempre colpito dopo il lancio e ben poche penalità a favore ha avuto). Jackson ha certamente avuto una stagione da dimenticare, ma escludo che abbia perso apposta due palloni. Dopo una stagione esaltante come l’anno scorso, certamente un dazio andava pagato, la fortuna ne ha richiesto uno altissimo. Confido almeno che nelle ultime partite raddrizzino il tiro.