Aaron Rodgers con Roger Goodell ed il trofeo di Mvp del Super Bowl.

Per gran parte della sua carriera Aaron Rodgers ha dovuto farsi da parte, ed aspettare indulgentemente.

La pazienza dicono sia la virtù dei forti, e questo il quarterback proveniente da California ha sempre cercato di tenerlo come motto da mettere in pratica tutti i giorni, perché prima o poi il saper attendere la propria occasione ed il lavoro duro pagano interessanti dividendi. Un tempo molti ridevano di lui: era troppo piccolo per giocare nei college di prima fascia, era stato battuto dal suo diretto concorrente per diventare la prima scelta assoluta di un draft, e pur arrivando tra i professionisti al primo giro, aveva messo le ragnatele dietro ai capricci di un Hall Of Famer.
Tuttavia, il minimo comune denominatore era sempre e solo quello: Aaron Rodgers, qualunque cosa gli succedesse, non ha mai smesso di credere in se stesso.

Andiamo con ordine.

Californiano di Chico, nella contea di Butte, in precoce gioventù aveva riscritto molti record della locale high school, ma la sua statura non aveva attirato alcun college di prima divisione, ed una volta messosi in lista per essere arruolato da qualche università aveva dovuto mandare giù il boccone amaro, ricevendo solamente una misera offerta da Illinois per entrare in squadra da walk-on, ovvero senza borsa di studio. Questo non era che il primo segno di sfiducia che avrebbe ricevuto in carriera, una testimonianza che nessuno credeva veramente nelle sue possibilità e nel suo valore, così decise di farsene una ragione ed accettare l’offerta di un junior college, restando nella contea di Butte, sperando che questa decisione l’avrebbe poi aiutato a mettersi in luce in maniera migliore.

Tale operazione gli permise di essere notato da Jeff Tedford, head coach dell’università della California, spesso alla ricerca di talenti nascosti presso i junior college locali. Il giorno in cui lo notò, Tedford stava osservando da vicino Garrett Cross, un tight end che gli interessava moltissimo reclutare, ma non poté fare a meno di notare le potenzialità di questo quarterback, che da 5 piedi e 10 era lievitato a 6’2”, e che alle 165 libbre aveva aggiunto molta polpa, arrivando molto più vicino alle odierne 220. Da qui Aaron Rodgers cominciò la sua avventura da Golden Bear, sfruttando i tre anni di eleggibilità che gli erano rimasti, giocando dopo un solo anno di junior college anziché attendere i soliti due, per merito dell’alto punteggio del SAT Reasoning Test che aveva registrato dopo aver terminato l’high school.

Già a California Rodgers cominciava a prendersi le prime rivincite contro i vari detrattori, guidando un attacco già di impronta professionistica ed accumulando statistiche di notevole rilievo pur essendo venuto fuori sostanzialmente dal nulla. Il suo primo anno a Berkeley l’aveva visto diventare titolare fisso dopo un mese di campionato, ed era terminato con la nomina di Mvp dell’Insight Bowl disputato contro Virginia Tech, in un campionato dove i Bears erano riusciti nella rara impresa di battere Usc, pur dovendo in parte fare a meno del suo contributo dal momento che dovette lasciare proprio quella partita per infortunio.

La seconda ed ultima stagione fu ancora migliore, in quanto California migliorò il proprio record stagionale arrivando a quota 10-1 (facendosi battere proprio dai Trojans – ndr), diventando sempre più affidabile per la precisione dei suoi passaggi e per il basso rapporto di intercetti rimediati, fattori che lo misero definitivamente sul radar di molti scout. La sua carriera californiana terminò con 5.469 yards su passaggio, 43 passaggi da touchdown e solo 13 intercetti, cui aggiunse 8 mete su corsa, numeri accumulati in neanche due stagioni intere da starter. A fine campionato, Rodgers prese la decisione di non disputare il suo anno da senior, dichiarandosi eleggibile per il draft del 2005.

Ci si ricorda ancora degli accesi dibattiti pre-draft, e di quella sensazione d’imbarazzo provata nel giorno delle scelte. Tutte le guide dedicavano la copertina al confronto tra Aaron Rodgers ed Alex Smith, un dualismo eterno che andava di pari passo con le esigenze della prima squadra destinata a scegliere, i San Francisco 49ers.
Per Rodgers sarebbe stato un sogno poter continuare la carriera a casa, nel suo stato di origine, ed il fatto che avesse giocato una pro-style offense gli dava un pizzico di vantaggio su Smith, che era invece un prodotto della spread offense della Utah dei tempi di Urban Meyer, e che un po’ per cognizione di causa ed un po’ per pregiudizio, si diceva potesse perdere questo duello diretto per la più difficoltosa adattabilità al gioco della Nfl .

Aaron Rodgers usciva da California con la fama di quarterback preciso, molto svelto nei tempi di rilascio del pallone, tanta presenza nella tasca e capacità di correre in solitaria per sbrogliare la confusione nel backfield, anche se, a dirla tutta, gli scettici erano ancora lì a sostenere che l’altezza non lo aiutava (è un 1.88 – ndr), e che se avesse giocato davanti ad una linea offensiva molto alta avrebbe avuto difficoltà nell’interpretare la visione del campo, vista la resistenza di alcune vecchie e radicate convinzioni che sarebbero state cancellate in parte dal grande successo di Drew Brees, che all’epoca non era certo il grande regista conosciuto oggi.

Di lì a poco, a San Diego, sarebbe difatti cominciata l’era di Philip Rivers, con il conseguente rilascio di Brees da parte dei Chargers. Ma questa è un’altra storia, di un altro Mvp.

San Francisco puntò tutto su Alex Smith, facendo inconsciamente di lui uno dei più grandi bust della storia del draft, mentre Rodgers dovette attendere pazientemente il suo turno in una Green Room che si stava lentamente svuotando, lasciandolo sempre più solo, sempre più assorto nei suoi pensieri. Non sarebbe dovuto uscire dalle prime cinque posizioni, dicevano tutte e guide specializzate. Cadde alla ventiquattresima posizione quando, tra lo sbigottimento generale, i Green Bay Packers di Brett Favre decisero di prenderlo quale polizza assicurativa in prospettiva del tramonto del grande numero 4, al tempo ancora all’apice delle sue forze ed ancora desideroso di vincere il suo secondo anello nel Wisconsin.

Per Rodgers la situazione non era il massimo. Aveva un futuro Hall Of Famer davanti a sé, difficilmente l’avrebbe scalzato prima di qualche anno considerata la nota striscia di gare consecutive giocata da Favre, ed avrebbe quindi dovuto attendere il suo turno a Green Bay come nella Green Room. Pazientemente.

Brett Favre stava cominciando a giocare con il ritiro, dando indicazioni lievi per poi tirare indietro la mano subito dopo, il che sarebbe diventato il passatempo estivo preferito dei media americani. Rodgers, in cui la dirigenza credeva fermamente, aspettava senza lamentarsi, giocò un paio di partite da rookie ed ebbe molta sfortuna l’anno seguente, quando, entrato al posto dell’infortunato Favre, si ruppe un piede e dovette sopportare l’inserimento in lista infortunati dichiarando finita la stagione, proprio nel momento in cui gli era giunta una rara opportunità di far vedere chi era a tutti quanti. Ma Rodgers, pur avendo fatto vedere poco in gare ufficiali, a Green Bay aveva convinto tutti. Così, quando Favre ritornò sui suoi passi dopo il ritiro scelto in seguito alla sconfitta nel Championship contro i New York Giants in overtime, la dirigenza puntò i piedi, e fece capire al numero 4 che il futuro avrebbe virato indiscutibilmente verso l’ex quarterback di California.

Mai in vita, Aaron Rodgers aveva ricevuto un attestato di stima più alto. E nel giorno della conferenza stampa post-Super Bowl, dopo aver conquistato il trofeo di campione Nfl e quello di Mvp della partita, avrebbe ricordato per primi proprio quei momenti di fiducia, dove l’attesa l’avrebbe ripagato con una ricompensa grandissima.

Sono seguite due stagioni da oltre 4.000 yards ed il primo Pro Bowl, i primi playoffs, persi soprattutto per colpa di una difesa che aveva concesso di tutto e di più ai Cardinals di Kurt Warner, e la consacrazione ad alti livelli grazie a numerose prestazioni spettacolari e concrete, ancor più evidenti se si pensa che i Packers gli hanno sempre messo addosso tonnellate di responsabilità non avendo mai avuto uno straccio di gioco di corse.

Rodgers ha terminato i playoffs con nove passaggi da touchdown, ivi compresi i tre lanciati nel Super Bowl, che senza i drop di Jordy Nelson e James Jones sarebbero benissimo potuti essere cinque.

Qualche volta, sospettiamo, Aaron avrà ringraziato il cielo per non essere finito a fare la fine di Smith a San Francisco, dove si sarebbe probabilmente bruciato la carriera.

E ringrazia le 23 squadre che non lo scelsero quel giorno di aprile del 2005, che gli permisero di diventare ciò che è oggi e di sconfiggere gli scetticismi che continuamente gli si sono parati contro.

Oggi è un quarterback destinato ad altri traguardi importanti, questo lo si era intuito dal livello del suo gioco, era solo questione di tempo. E’ riuscito in un’impresa impensabile, quella di allontanare per sempre da sé l’ombra di Brett Favre, un pezzo di leggenda dei Green Bay Packers che lui ha sostituito con dedizione, professionalità e talento. Immenso talento. Il tempo potrà permettergli di superarlo, dal momento che l’eterno ragazzino ha vinto un solo titolo in carriera.

Seppure dotato soltanto di questo primo trofeo, Aaron Rodgers è comunque riuscito già da oggi nell’impresa di legarsi ai nomi importanti della Titletown. Dopo Bart Starr, che domenica lo scrutava quasi commosso dai luxury box del nuovo Texas Stadium, e dopo Brett Favre, anche Rodgers ha riportato il Vince Lombardi Trophy a casa, nel luogo magico a cui appartiene.

Chi non credeva potesse riuscirvi, si ritenga servito.

9 thoughts on “Aaron Rodgers, la pazienza di un Mvp

  1. In aggiunta a tutto questo, Rodgers mi pare avere 2 caratteristiche che Favre non ha:
    – è molto costante e accurato, poco incline agli intercetti
    – ha la faccia simpatica da ragazzo timido e tranquillo, non di certo la faccia da guascone di Favre

    Per questi 2 motivi, ora che è anche un vincente penso che resterà per sempre nel cuore dei suoi tifosi, che tifano una franchigia un po’ speciale con un QB un po’ speciale, uno che se la tira molto meno di un Ryan o di un Manning (scegliete voi quale dei 2) ma che preferisce i fatti alle parole…

    • Sono d’accordo con te sulle caratteristiche di Rodgers, ma mi sembri un po’ troppo duro con i suoi colleghi.

      Favre ha la faccia da guascone? Può darsi, ma non mi sembra che siano mai seguiti comportamenti che lo abbiano reso antipatico per la sua spacconeria.
      Ryan (stiamo parlando di Matt giusto?) non mi è mai parso sopra le righe, se vogliamo criticare Manning diamogli del “robot” senza sentimenti, ma che se la tiri è un’altro par di maniche.

      Per cui, complimenti al vincitore, che ha guidato come meglio non poteva il suo team nella post season, ma non per questo dimentichiamo ciò che hanno saputo fare gli altri big.
      Ciao!

  2. bel pezzo si, bravo! Direi che la fiducia che gli hanno accordato a GB ha fruttato veramente molto. Non fu facile mettere da parte un Favre per puntare su un talento si, ma ignoto…. quindi secondo me il paluso fa in primi alla lungimirante e coraggiosa dirigenza dei Packers!

  3. bel pezzo!!!! e adesso nella classifica dei 10 miglior QB vedremo anche il suo nome..

  4. Grande Rodgers,
    penso che abbia le qualità per confermarsi ad altissimi livelli anche nei prossimi anni. E’ un QB veramente completo anche se prima di fare paragoni aspetterei di vedere come si conferma il prossimo anno(in passato ha avuto problemi di continuità).

  5. Eppure io ancora non ci riesco, non mi suona…
    storici QB della più storica franchigia NFL_
    1- Bart Starr
    2- Brett Favre…

    3- Aaron Rodgers

    Non ho la facilità che molti di voi trovano nel consegnarlo agli annali. Vero è che ha portato il Lombardi a Titletown, ma non riesco ancora ad accettarlo come erede del mio mito.

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