Ohio State non doveva vincere quest’anno. Era considerata una squadra troppo giovane, certamente carica di talento ma senza quell’esperienza da grande palcoscenico, a maggior ragione dopo aver ricevuto direttamente in testa la tegola dell’infortunio a Braxton Miller (e poi del sostituto TJ Barrett), il quarterback che avrebbe dovuto trascinare i Buckeyes a grandi traguardi.
Oggi è invece Urban Meyer a sorridere, e se può permettersi di farlo un grazie lo deve dire anche al nuovo sistema playoff, senza il quale i suoi ragazzi non avrebbero goduto della possibilità di disputare questa finalissima, modifica regolamentare andata a dimostrare quanto sia più corretto lasciare al campo il verdetto finale. Questo perché Ohio State non se la filava nessuno, era entrata nella prima Final Four di sempre quasi dalla porta di servizio con l’aggravante di dover schierare il terzo quarterback, quel Cardale Jones che non ha mostrato nessun segno di timore nel caricarsi sulle spalle una responsabilità enorme dinanzi al massimo palcoscenico che il football collegiale possa offrire.
I Buckeyes sono stati una squadra in missione sin dalla finale della Big Ten, quando venne posta in atto quella che verrà ricordata come la totale distruzione di Wisconsin e del recordman Melvin Gordon, ed hanno nuovamente ribaltato i pronostici facendo lo sgambetto niente meno che ad Alabama, sfruttando le qualità di passatore di Jones, ossia 250 libbre dotate di un cannone al posto del braccio e di una bella mobilità, ma soprattutto la terrificante combinazione tra velocità e potenza del loro running back titolare, Zeke Elliott, un terrore per qualsiasi difesa che ha terminato l’anno come meritava, ossia con il premio di miglior giocatore offensivo del National Championship dall’alto delle sue 696 yard accumulate nelle tre partite più importanti della stagione, cifre che tanti colleghi accumulano in un campionato intero.
Ohio State ha smentito chi sosteneva che Oregon avrebbe infilato di punti anche la pur forte difesa di Meyer, coordinata da quel Luke Fickell che significò molto per il programma in un momento di grande difficoltà, quando si trovò a dover sostituire Jim Tressel e gli scandali di quell’epoca facendo da ideale ponte tra un’epoca vincente e l’altra di questo glorioso ateneo. I Buckeyes hanno vinto non solo contro i Ducks, hanno vinto soprattutto contro se stessi, contro i loro errori, non hanno mai perso la calma nonostante ad un certo punto tutti i palloni regalati agli avversari parevano quasi uno scherzo di cattivo gusto. Se avessero giocato più diligentemente, la loro vittoria si sarebbe potuta concretizzare ben prima del termine del quarto periodo di gioco.
A conti fatti la partita di Oregon è durata giusto il tempo di completare la prima serie di giochi, rivelatasi del tutto illusoria. Pareva che l’attacco diretto da Marcus Mariota, pur privo del wide receiver Darren Carrington (squalificato per aver fallito un test anti-droga), avesse cominciato con il piede giusto guadagnando sistematicamente yard inserendo da subito le marce alte, senza lasciare il benché minimo respiro a Joey Bosa e compagni.
Il touchdown di apertura di Keanon Lowe non è riuscito a mascherare delle lacune offensive impensabili, emerse sempre più man mano che la gara viveva il suo svolgimento, in quanto i Buckeyes hanno messo in piedi un vero e proprio capolavoro difensivo. Hanno tolto l’efficienza in redzone ad una squadra altrimenti letale nelle ultime 20 yard (una sola meta in quattro tentativi), hanno limitato le incursioni centrali del fisico Thomas Tyner, che nonostante le 5.2 yard di media per portata non è stato un fattore, hanno costretto Oregon ad una pessima percentuale di conversione dei terzi down, addirittura 2/12, contribuendo ad altre statistiche assai negative per i Ducks quali i 6 punt ed i soli 20 primi down conquistati, tutte cifre neanche lontanamente paragonabili alla consuetudine per la squadra di Mark Helfrich.
La chiave di lettura della finalissima sta tutta nella capacità di reazione dei Buckeyes nei confronti dei loro stessi errori. L’attacco ha mosso il pallone con grande efficienza, sgonfiando la forte pass rush dei Ducks grazie ad una prova esemplare della linea offensiva, e vincendo tutte le battaglie fisiche. Meyer ha come al solito puntato forte sulle corse chiamando 23 giochi di passaggio, massimizzando la precisione di Jones (16/23, 242 yards, TD, INT), un quarterback capace di confezionare giocate a ripetizione oltre le 20 yard (4/6 in tale circostanza per lui) grazie alla velocità con cui le sue notevoli spirali hanno raggiunto i ricevitori.
Ohio State ha commesso quattro turnover potenzialmente devastanti, ma Oregon, al contrario della semifinale contro Florida State, non è riuscita a capitalizzarli. Un errore di comunicazione tra Jones ed Elliott su un hand-off ed un fumble di Corey Smith a seguito di un big play di 47 yard hanno restituito il possesso ai Ducks quando ancora Mariota e compagni si trovavano ad una sola segnatura di distanza, ed altri due palloni persi sono giunti nelle prime due serie di giochi del secondo tempo, ovvero nell’unico momento in cui Oregon aveva di fatto riaperto la partita.
I veri Ducks sono emersi lì, quando Mariota (24/37, 333 yards, 2 TD, INT) e il dinamico Byron Marshall hanno confezionato un touchdown di 70 yard sfruttando un errore nella copertura a zona delle secondarie avversarie, ma la loro comparsa si è rivelata solo un breve bagliore. L’aver fermato il Quack Attack a pochi centimetri dalla meta su un quarto down – episodio occorso nel primo tempo – e l’aver costretto Helfrich a chiamare in campo il kicker Aidan Schneider per ben due volte accettando 6 punti anziché i 14 che in altra situazione sarebbero stati scontati, rappresentano episodi pesantissimi per l’economia della partita.
Meyer ha contrastato l’attacco veloce dei Ducks rallentando la ripresa delle operazioni tra uno snap e l’altro nel secondo tempo, mano a mano che il vantaggio cresceva, potendo contare sulla capacità istintiva del suo running back di leggere la situazione, attendere quel secondo in più e colpire il varco con velocità superiore alla norma, una sequenza deleteria per la difesa di Oregon. Non a caso Elliott ha terminato con il massimo in carriera per tentativi, 36, e firmato altri due record per il National Championship con 246 yard su corsa e 4 mete. Tre di queste segnature hanno scavato una fossa troppo profonda per Mariota, uscito nel secondo tempo per un paio d’azioni grazie ad un placcaggio (un po’ tardivo rispetto al rilascio della palla) di Bosa, e le qualità fisiche di Jones sono state un aiuto importantissimo – in molteplici occasioni ha gettato indietro i difensori sul contatto – per un gioco di corse che ha prodotto 296 yard in 61 tentativi complessivi.
Urban Meyer diventa così il secondo head coach collegiale di ogni epoca (l’altro è Nick Saban) a vincere un titolo assoluto con due squadre differenti portando il suo totale a tre trofei, e cementa il suo status tra gli allenatori più grandi di sempre. Ma, a differenza di Saban, lui ha vinto in due Conference diverse, fatto che aumenta il prestigio di quanto Meyer, 38-3 da quando allena in Ohio, sia riuscito ad ottenere.
Grazie a lui, Jim Tressell, Terrelle Pryor, i tatuaggi e le sanzioni disciplinari sono solo un ricordo. Ohio State è campione per la sesta volta nella storia contro ogni pronostico, e questa vittoria, la prima di sempre nel sistema playoff, rimarrà scolpita nella pietra per l’eternità.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.