Occupandosi di sport americani, uno dei compiti meno grati è sicuramente quello di fare previsioni su una qualsiasi squadra di college football, se non altro per i complicati meccanismi che governano l’ordinamento delle 25 migliori squadre del panorama nazionale, dove basta veramente un nulla per variare le posizioni e minare degli equilibri che sono instabili di settimana in settimana.
Come storia dimostra, recente dominio di Alabama a parte, l’upset è sempre dietro l’angolo, così spesso che addirittura in questa prima metà stagionale la stampa americana si era chiesta la motivazione di tutta questa normalità, nel senso che le vittorie pronosticate continuavano ad arrivare puntuali e non accadeva pressoché nulla di eccitante nelle prime posizioni, salvo mordersi la lingua dopo l’analisi dei risultati dell’ultimo sabato in cui si è giocato, dove il ranking è stato sostanzialmente stravolto proprio in occasione della prima edizione annuale della Top 25 in formato BCS, dove entrano in funzione anche i complicati calcoli dei computer.
Quindi, prevedere la stagione di Florida State non era affatto facile, partendo da alcuni dati oggettivi e storici. Ci si trovava di fronte ad una squadra di ottime potenzialità alle prese con un nuovo corso, che nuovo non è più da qualche anno, ma si sa, sostituire leggende incancellabili come quelle di Bobby Bowden non è compito facile, e chi viene dopo rischia sempre di dover lavorare con un’ombra lunga addosso, facendo i conti con costanti pressioni e scomodi paragoni.
Nel 2010 il nuovo regime era stato affidato a Jimbo Fisher, coltivato dall’interno dello staff del Bowden medesimo – era coach della linea offensiva – per divenire, un giorno, il suo sostituto. In quel momento storico i Seminoles erano alle prese con una crisi d’identità abbastanza forte, nel senso che l’era dorata dei successi del Bobby dei bei tempi era oramai tramontata da un pezzo, i risultati non arrivavano più, e l’organizzazione ed i propri fan non ricordavano nemmeno che cosa si provasse ad avere sempre la pancia piena di trofei, a terminare l’anno con il titolo e con una delle prime cinque posizioni del ranking, in quanto nulla di tutto ciò era più accaduto dal 2001 ad oggi.
Ecco perché i progressi fatti registrare dal Fisher nuovo condottiero erano stati accolti con un entusiasmo tangibile ma tutto sommato tiepido, faceva tutto parte di un programma di ricostruzione delle fondamenta vincenti che hanno scritto la storia di Florida State e pagine importantissime di college football, solo che tale rifondazione si sa, a chi ha vinto tanto non piace, e la fretta per ottenere risultati sportivi conformi alle aspettative è sempre tanta, specialmente al mondo d’oggi, dove è pressoché vietato (chissà per quale motivo, poi…) essere inferiori all’avversario di turno.
Fatto sta, con Jimbo al comando della tribù la parola rispettabilità è tornata di stretta attualità in quel di Tallahassee, in special modo dopo che Bowden, pur sempre nella sua venerabilità, aveva concluso tre delle sue ultime quattro stagioni da head coach con 6 sconfitte, un risultato divenuto semplicemente inaccettabile per chiunque, all’interno del campus.
Dal 2010 ai giorni nostri Florida State ha invece vinto due volte la Atlantic Division e si è laureata campione della ACC nella stagione passata, a sette anni dall’ultima volta che era riuscita nell’impresa, e detiene un record complessivo di 37-10. La virata c’è stata, ed il campionato 2013 ne è la testimonianza più concreta.
Premettiamo, con il rischio di sembrare noiosi e ripetitivi, che il college football è così impronosticabile da non poter azzardare una previsione una pena il diritto di essere presi in giro tra sette giorni, quando quanto scritto su qualunque squadra potrebbe essere stato stravolto dall’ennesimo upset del sabato, in special modo su Florida State, che nelle ultime stagioni, progressi o non progressi, ha sempre permesso ad un’avversaria inferiore di rovinare la festa compiendo capitomboli imprevedibili, cancellando qualsiasi remoto sogno di poter tornare agli splendori di un tempo.
Quello stesso sogno è ripiombato nel campus all’improvviso per merito dell’imbattibilità di cui i Seminoles ancora momentaneamente godono, e soprattutto del gigantesco punto esclamativo posto nell’improvvisamente silenziosa Death Valley, la casa di quei Clemson Tigers che dal loro terzo posto assoluto miravano ad un posto al National Championship attendendo un errore fatale da parte delle prime due posizionate, e che si erano ripromessi i migliori propositi per concludere nel migliore dei modi l’ultimo anno della coppia formata da Tajh Boyd e Sammy Watkins, l’asse su cui si sono svolte tutte le migliori giocate offensive di questi recenti anni.
I Seminoles sono riusciti a balzare davanti ad Oregon nella classifica BCS acchiappando la posizione numero due assoluta, e da qui in poi reciteranno la scomoda parte di controllori del proprio destino.
E qui non può non entrare in scena Jameis Winston con il suo fare sicuro, calmo, e a volte comico.
Messo titolare dopo un anno passato a guardare da redshirt, Winston avrebbe dovuto affrontare pressioni enormi schierandosi da titolare senza esperienza alcuna alla guida dell’attacco di una squadra di grandi tradizioni, ed era per questo motivo che tutte le classifiche pre-stagionali davano vincente Clemson nella Atlantic sopra a Florida State. Il giovane ragazzo proveniente dall’Alabama (sì, la squadra che potrebbe affrontare se le cose restassero così) è parso però imperturbabile dagli eventi esterni, incondizionato dalla sua mancanza di vita vissuta di fronte a palcoscenici di questo tipo, ed ha sinora giocato un football impensabile per quanto impeccabile si è rivelato. Si parla pur sempre dello sport di squadra per eccellenza, ma molte delle decisioni più importanti partono dal cervello del quarterback, e se questi non è freddo nei momenti che contano si può avere anche la miglior difesa dell’universo, per vincere bisogna sempre segnare più dell’avversario.
Le statistiche odierne conteggiano 1885 yards, 20 passaggi da touchdown e 3 intercetti, numeri di un regista più maturo di quello che Jameis dovrebbe essere alla sua età, lui che è nato il 6 gennaio del 1994 e che vorrebbe festeggiare il suo prossimo compleanno giocando la partita dei sogni.
Dai compagni è stato definito incredibilmente preparato ad essere il leader di questa squadra ed ha sorpreso in positivo per come ha accettato questo ruolo senza mostrare il minimo segno di pressione nell’esercitarlo, gli viene naturale, ed è proprio lui a stemperare la tensione negli spogliatoi o nell’huddle.
A volte basta guardarlo in faccia per farsi strappare involontariamente un sorriso, il volto è sornione, giocoso, la battuta è sempre pronta, il personaggio è di quelli unici, lo si intuisce anche da un’apparentemente insignificante intervista post-gara. E, aspetto che conta più degli altri, ogni cosa che pensa, gli riesce come meglio non potrebbe.
Dirige un attacco a cui Fisher ha restituito un aspetto di capitale importanza, il gioco di corse, letteralmente scomparso dal radar al termine dell’era Bowden, in quanto il buon Jimbo ha ammesso che per giocare del buon football offensivo è necessario avere due dimensioni, altrimenti di strada se ne fa poca. Il backfield è stato tra i motivi del successo dei ‘Noles sino a questo momento ed ha potuto contare su un James Wilder Jr. finalmente in forma, un Devonta Freeman che ha dimostrato di essere pronto per essere il running back cui viene assegnato il maggior numero di portate per la sua produttività, e su un Karlos Williams convertito da safety e capace di tenere 8.6 di media a portata varcando la linea della endzone per sei volte, qualcosa di più di un semplice esperimento andato a buon fine.
Le 210 yards a partita prodotte dai running back e dalle saltuarie giocate personali di Winston sono ben bilanciate dal gioco aereo, il quarterback è svelto nelle letture durante l’azione ed abile nell’individuare gli accoppiamenti più vantaggiosi prima dello snap, e va detto che la grande qualità della batteria di ricevitori a disposizione sarebbe un bell’aiuto per chiunque. A turno, difatti, ognuno ha dato il proprio contributo: Rashad Greene è il playmaker cui ci si affida per le conversioni più problematiche, Kelvin Benjamin è un mismatch eterno per via della sua altezza combinata a velocità, Kenny Shaw scrive 19 yards di media ogni volta che tocca un pallone ed il tight end Nick O’Leary è molto più di una valvola di sfogo per il quarterback, ed ha già scritto i migliori numeri di carriera. Il gioco aereo di FSU frutta 341 yards a gara, il decimo miglior risultato di tutta la nazione.
La difesa è attualmente la sesta d’America per yards totali concesse ed ha lasciato agli avversari solamente 12.3 punti ad uscita, terza miglior statistica dietro ad Alabama e Louisville, ed ha sostanzialmente annullato l’attacco di Clemson, uno dei più prolifici visti in azione nel 2013 (e non solo…), costringendo Boyd ad una delle peggiori partite di carriera intercettandolo in due distinte occasioni.
Non c’è un giocatore individuale che spicchi sugli altri per statistiche, c’è piuttosto molta efficienza a livello di squadra e tante giocate che cambiano l’inerzia delle gare, come il fumble provocato ai danni dei Tigers nella prima azione della partita di sabato, il turnover riportato in meta da Mario Edwards, la capacità del safety LaMarcus Joyner di prendere ottimali tempi di intervento. Giocatori come quelli appena citati, assieme a protagonisti quali Christian Jones, Telvin Smith e Timmy Jernigan non stanno per nulla facendo rimpiangere i tanti ex-componenti del reparto che sono oggi in Nfl, così come non pesa come avrebbe potuto l’assenza di Mark Stoops – oggi head coach a Kentucky – quale defensive coordinator che diede una svolta positiva a suo tempo.
I risultati ottenuti sono consoni alla qualità del recruiting effettuato da Fisher per restituire grandezza al programma, ed i Seminoles sono alti come non lo sono mai stati nell’era BCS negli ultimi tredici anni. Attenzione, però: il passato dimostra che le partite con le squadre meno competitive sono state le più problematiche per FSU, che farà meglio a non sottovalutare North Carolina State, la quale un anno fa beffò i ‘Noles all’ultimo secondo con un gran drive di Mike Glennon, la risorgente Miami e la sempre pericolosa Florida, a dimostrazione che battere Clemson per 51-14 dinanzi ad un chiasso allucinante ed essere la numero due della nazione nella seconda metà di ottobre non significa nulla.
Là in cima bisogna esserci anche quando si decide tutto. E Winston lassù ha voglia di restarci a lungo.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.
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