“Don’t call it the Big Least”, così parlò, – a metà tra monito e preghiera – il commissioner Michael Aresco, all’inaugurazione dell’American Athletic Conference Media Day, tenutasi all’Hotel Viking di Newport, Rhode Island, il 30 luglio scorso.
Per capire meglio l’esternazione, dobbiamo fare un paio di passi indietro e ritornare al pesante riallineamento che ha interessato la Big East al termine della scorsa stagione, quando le Catholic 7, i sette college cattolici, che partecipavano esclusivamente con le squadre di basket alla conference, hanno fatto sapere agli organi direttivi che avrebbero presto incominciato le manovre di scissione dal proprio raggruppamento d’origine, dichiarando, inoltre, che il contratto permetteva loro di trattenere parte degli introiti destinati alla ripartizione complessiva tra tutti gli atenei (10 milioni di dollari), nonché la possibilità di rivendicare il nome e il logo della conference.
Chiaro che il panorama successivo allo scisma fosse simile a quello di un disastro nucleare, dove poco o nulla resiste al cataclisma e anche l’iniziativa dei superstiti tende a perdere di lucidità.
La direzione della fu Big East si trovò allora a dover chiudere il più velocemente possibile gli steccati della stalla prima che tutti i buoi fossero scappati (addio immediato a college storici come Pittsburgh e Syracuse, dal 2014 anche a Louisville e Rutgers), annettendo alla lega in via di definizione un’accozzaglia di college eterogenei dal punto di vista geografico, per di più provenienti da conference di assai scarso appeal.
Infatti, gran parte della Conference USA è stata “travasata” nella neonata AAC, con l’immediata affiliazione di Houston, Central Florida, SMU e Memphis.
Dal prossimo anno anche Tulane, East Carolina e Tulsa contribuiranno alla conference come full time member, mentre Navy subentrerà solo dal 2015 come affiliate member, esclusivamente con la propria squadra di football.
Come se non bastasse, non si placano le voci intorno al possibile addio delle due restanti powerhouse (se volete chiamarle così…), Connecticut e Cincinnati, mentre tre rampanti poli universitari (TCU, Boise State e San Diego State) hanno già ritirato la loro adesione, ancora prima di aver lanciato un solo ovale da football sui campi della nuova conference.
Parlavamo di lucidità, ovvero quella che ha poco distinto la nuova dirigenza, quando si è trovata a dover scegliere il nome da affibbiare al nuovo organismo sportivo: infatti American Athletic Conference si traduce in un acronimo (AAC) che provoca prevedibile confusione con la già esistente Atlantic Coast Conference (ACC), per cui si è dovuto virare su un nickname che non desse adito ad ulteriori fraintendimenti, ecco spiegato il diminutivo “The American”.
Nonostante il quadro clinico non sia proprio rassicurante e dovremo aspettare almeno un’altra stagione per sapere se le medicine palliative proposte abbiano miracolosamente scacciato il lento, ma progressivo processo disgregativo della conference, saremmo prevenuti se non ricordassimo che, almeno per la stagione alle porte, la “The American” riserverà ancora, al vincitore del raggruppamento, la possibilità di disputare uno dei 4 bowl (le “finali” al termine della stagione regolare) principali del College Football.
Pertanto, è d’obbligo innanzitutto seguire la Louisville di Terry Bridgewater, che alcuni addetti ai lavori prevedono possa concludere la campagna 2013 mantenendo intonsa la casella delle sconfitte, la quale sarà tallonata dalla sempre rognosa Cincinnati, affidata alle cure di una vecchia volpe quale Tommy Tuberville, mentre Rutgers cercherà di alimentare la sua fama di outsider di lusso.
L’avvento del playoff system dal 2014, nel quale la AAC non possederà alcuno slot valido per la corsa al titolo, ci aiuterà meglio a leggere nel destino della The American: o invitata al banchetto delle conference NCAA più importanti, oppure risucchiata nella mediocrità, nutrendosi famelicamente degli avanzi delle finali meno prestigiose.
La seconda ipotesi condurrebbe inevitabilmente all’implosione dei sottili equilibri che reggono la giovane creatura.
LOUISVILLE CARDINALS: OPERAZIONE NATIONAL CHAMPIONSHIP
Signori, è ritornato il grande sport collegiale nel Kentucky.
Ora, i prospetti della high school non reputano più tanto peregrino accettare una borsa di studio per giocare a football qui, soprattutto dopo l’assunzione di due head coach di grido, Mark Stoops a Kentucky e Bobby Petrino a Western Kentucky, che hanno indubbiamente rimesso il Bluegrass State sulla cartina geografica del grande football.
Ma il campus più bollente dello stato è sicuramente quello di Louisville, che, nel giro di due mesi, ha conquistato uno dei bowl più prestigiosi, il Sugar Bowl, sconfiggendo la favorita Florida e si è poi laureata campione NCAA nel basket, grazie ai ragazzi di coach Pitino.
Dopo una stagione da 11 vittorie e 2 sconfitte, il titolo della defunta Big East e la già citata vittoria nel Sugar Bowl, ora la compagine allenata da Charlie Strong, – uno zingaro delle panchine degli stati del sud degli States – dal 2010 sulla sideline del Papa John’s Cardinal Stadium, punta direttamente al bersaglio grosso, quel titolo di campione che da due anni fa bella mostra alla cintura dei Crimson Tide di Alabama.
I presupposti per azzannare l’ambita preda non mancano: conference decisamente alla portata, pochi effettivi persi dal magico 2012 con la contemporanea maturazione dei giovani emergenti, buona (anche se non ottima) considerazione da parte degli addetti ai lavori, espresso dal posizionamento dei Cardinals al numero 9 della griglia prestagionale stilata ritualmente dalla AP Top.
Il giocatore più atteso – ça va sans dire… – è Terry Bridgewater, proveniente da una straordinaria stagione da sophomore, a conclusione della quale è stato incoronato MVP offensivo della Big East e già sogno proibito della maggior parte delle franchigie NFL; da molte di queste è reputato il miglior quarterback in uscita dal prossimo draft, qualora decidesse (molto probabile) di saltare l’ultimo anno di eleggibilità al college, e secondo prospetto assoluto dietro al terrificante defensive end di South Carolina, Jadeveon Clowney.
Proprio a causa della regola NCAA che vieta ai giocatori di football di dichiararsi per il draft prima del compimento dell’età corrispondente all’avvenuto espletamento dei primi tre anni di cursus honorum al college, Bridgewater ha siglato un’assicurazione da 10 milioni di dollari, nell’eventualità (non sia mai) fosse vittima di un infortunio di grave entità durante l’ultimo anno nella “prigione dorata” del college football.
Il prodotto di Miami, legittimo aspirante all’Heisman Trophy quale miglior giocatore collegiale, esprime al massimo il proprio potenziale all’interno della tasca, da dove opera chirurgicamente le difese avversarie.
Le sue statistiche parlano chiare: i 27 touchdown a dispetto di soli 8 intercetti dicono di un’affidabilità molto al di sopra della media degli altri colleghi.
Il suo tallone d’achille è rappresentato dalla mobilità, nonostante la corporatura asciutta e slanciata da principe africano, che lo penalizza quando deve trattenere l’ovale e guadagnare terreno con le proprie gambe, sebbene non sia tipo da indugiare ad imboccare la soluzione personale, quando necessaria.
Prova del suo coraggio e leadership sia l’imperturbabilità con cui ha ricevuto il colpo proditorio da un tram (non chiamato desiderio, purtroppo per lui) con il numero 1 stampato sulla divisa e rispondente al nome di Jon Bostic, professione linebacker, che voleva immediatamente far intendere la solfa al giovane QB avversario nell’ultimo Sugar Bowl.
Teddy si è immediatamente rialzato, ha raccolto da terra il casco allentatosi nella deflagrazione dello scontro, si è fatto incerottare il mento violato, infine ha divelto la competente difesa dei Gators con il 62% dei lanci completati, 2 TD e 33 punti finali sul tabellone. Classy.
Ma Louisville non è solo Teddy Bridgewater, infatti UL potrà contare sul ritorno di tutte le piccole pesti che hanno infestato i sonni dei defensive coordinator avversari: stiamo parlando dei wide receivers DeVonte Parker, Damian Copeland ed Eli Rogers.
E’ stato riferito, in particolare, che Parker abbia lavorato moltissimo in questa offseason per diventare il principale terminale d’attacco dei Cardinals, l’every-down receiver, come si dice in gergo, con l’intenzione di aumentare il bottino del 2012 (10 TD), non trascurando di mantenersi efficace sui giochi di passaggio ad ampio raggio (18.6 yards guadagnate di media per ricezione nel 2012).
Ai soliti noti si aggiungerà da quest’anno il transfer tight end da Florida, Gerald Christian, perso nei meandri del cambio di gestione tecnica dei Gators, ma soltanto 3 anni fa prospetto di elevata caratura, da cui ci si aspetta un impatto immediato, ben al di là dei compiti di semplice bloccaggio.
Anche il backfield si prospetta modificato e rafforzato rispetto a 12 mesi fa.
Il ticket Jeremy Wright– Senorise Perry è stato estremamente efficace fino alle 3 conclusive sfide di conference, che, guarda caso, sono coincise con le uniche 2 sconfitte che hanno macchiato la marcia dei Cards.
Con una mossa “alla Bielema” (vi ricordate un certo Russ Wilson spostare le tende da NC State a Wisconsin?) o “alla Lane Kiffin” (Silas Redd trasferitosi ad USC in seguito alle sanzioni che hanno travolto Penn State post caso Sanduski), coach Strong ha ricevuto l’ok per l’immediata eleggibilità del runningback Michael Dyer, problematicissimo RB al 3° college in 3 anni, ma – ehi! – MVP offensivo del BCS Championship del 2011, quando rubò la scena ad un certo Cam Newton.
Se Strong saprà mantenere l’ex Auburn ed Arkansas State lontano dai guai (e dalle armi…), questa aggiunta potrebbe rivelarsi decisiva per completare un reparto offensivo profondissimo per talento e combinazioni possibili.
Sul lato difensivo, a guidare sul campo la 4-3 scelta dal defensive coordinator Vance Bedford, ecco Preston Brown, generoso middle linebacker, lo scorso anno 5° tra i placcatori della Big East con 8 tackle a partita di media.
Un predestinato al ruolo di leader, per chi lo vede da fuori, ma il senior da Cincinnati ha dovuto fare violenza alla propria natura per adeguarsi al ruolo che coach Strong programmava di ritagliargli, come ha confessato al Louisville Courier Journal.
“L’anno scorso abbiamo perso il nostro migliore linebacker e coach Strong cercava il sostituto. Io venivo da 2 anni come linebacker esterno, il passaggio al centro è stato difficoltoso: alcune volte non riuscivo a far riconoscere la mia autorità ai compagni”.
Coach Strong ha però insistito ed ha vinto la sua scommessa: Brown è oggi giorno uno dei migliori LB della sua conference.
D’altronde è ostico remare contro un head coach che, anche sotto il profilo fisico, presenta una struttura atletica tale che ogni qual volta si avvicina per redarguire qualcuno dei suoi ragazzi, resta il dubbio che voglia richiedere protezioni e casco per insediarsi lui stesso al centro della difesa.
“E’ vero, all’inizio ha faticato un po’ ad imparare gli schemi difensivi”, ride Hakeem Smith, la safety leader nei placcaggi di squadra nel 2010 e altro punto di forza della difesa, riferendosi sempre a Preston Brown, “Ma ora si trova a suo agio. E’ diventato un cacciatore di teste. Guardatevi la partita contro Florida”.
Sul sellino del tandem di collaudate safety siede anche Calvin Pryor, che ha raggiunto la tripla cifra tonda in tackle lo scorso anno ed insieme al collega Smith costituisce una presenza intimidatoria per chiunque abbia il coraggio di presentarsi nella loro zona di competenza.
Louisville ha un’occasione unica: il calendario presenta poche insidie (prevedo la trasferta finale di Cincinnati quale redde rationem) e l’organico ha un anno di esperienza in più per evitare gli scivoloni che hanno impedito la perfect season nel 2012.
Solo una stagione senza sconfitte potrebbe convincere i saggi della BCS a offrire loro il biglietto più prezioso, quello per Pasadena e per il National Championship.
CINCINNATI BEARCATS: I GUASTAFESTE
Indovinello: c’è un team che ha raggiunto le 10 vittorie in stagione nelle ultime 6 stagione su 7 disputate ed ha vinto o condiviso la corona della Big East nelle ultime 4 stagioni su 5… qual è? Ma i Cincinnati Bearcats, chiaro. Non l’avreste mai detto?
Eppure il college dell’Ohio è servito come rampa di lancio per 2 dei coach più ammirati degli ultimi anni: Brian Kelly e Butch Jones.
Proprio dopo l’addio di Jones a conclusione della scorsa stagione, la scelta è ricaduta su un vecchio volpone del Sud, Tommy Tuberville, per tutti Tommy T, che in quel di Lubbock si è divertito, negli ultimi due anni, a giocare tiri mancini alle lanciatissime corazzate della Big12 (non nominatelo nei campus di Norman e Morgantown, per Dio).
Gli obiettivi stagionali? Rimanere in scia alla più quotata Louisville, sperando di far valere la propria tradizione vincente nello showdown casalingo nell’ultimo turno valido per la AAC.
La cabina di regia dovrebbe nuovamente essere affidata a Brendon Kay, partito come backup lo scorso anno, ma assurto a vero e proprio idolo del Nippert Stadium da quando ha sostituito un confuso Munchie Legaux.
Basti ricordare che nelle ultime 3 uscite dei Bearcats (bowl contro Duke compreso), Kay ha totalizzato uno score di 7 TD e 0 (zero!) intercetti, rivelandosi molto superiore nella lettura della linea di scrimmage rispetto al precedente interprete del ruolo. Non male per un senior che avrebbe dovuto marcire in panchina fino al termine della propria carriera universitaria.
La grande promessa per il 2014 si chiama Gunner Kiel, prospetto numero 1 d’America tra i liceali nella posizione di quarterback nel 2013, che ha però faticato ad accettare le gerarchie a South Bend ed ha deciso di trasferirsi a Cincy dopo aver capito che avrebbe dovuto ancora aspettare a guidare l’attacco dei Fighting Irish.
L’attacco dei Bearcats sarà sostenuto e sospinto dalla linea d’attacco, vero e proprio marchio di fabbrica dell’ateneo.
Grazie al contributo dei propri big fella, Cincy, negli ultimi 3 anni, ha permesso di superare le 1000 yards corse in stagione ad almeno uno dei propri atleti e nel 2013 è stata tra le top 20 per sack subiti (solo 13).
Brendon Kay si troverà con le spalle più che coperte: tutti i componenti della offensive line ritorneranno per la prossima stagione e a proteggere il lato cieco ci penseranno 2 dei migliori uomini di linea del panorama collegiale, il junior tackle Eric Lefeld e la guardia senior Austen Bujnoch (eccellente nonostante i 3 head coach cambiati durante la sua permanenza in Ohio).
Le perdite più rilevanti si verificheranno nel parco ricevitori e nel backfield, in quanto i due migliori ricevitori (Travis Kelce e Kenbrell Thompkins) e il tailback titolare George Wynn hanno salutato la compagnia per tentare il grande salto tra i professionisti.
Gli uomini deputati a salire di livello sono i 2 folletti dell’attacco Ralph Abernathy IV, che prevedibilmente sopporterà la maggior parte del gioco di corsa, e il WR Anthony McClung, a volte evanescente ma dotato di intuizioni sensazionali.
Visto l’incertezza dell’apporto richiesto ai 2 veterani, coach Tommy T non sarebbe dispiaciuto se qualche giovane virgulto decidesse infine di esplodere: ci riferiamo naturalmente al runningback Tion Green e ai ricevitori Chris Moore e Johnny Holton (quest’ultimo transfer da un junior college e descritto quale credibile minaccia sul profondo).
La difesa dei Bearcats del 2012 è stata semplicemente stupefacente. Punto.
Cincy, anche grazie ad una schedule che non prevedeva confronti con vere e proprie corazzate, ha concesso poco più di 18 punti a partita di media, concludendo 14esima a livello nazionale. La sensazione è che sarà complicato mantenere lo stesso standard.
Certo, la linea dei linebacker rappresenta l’elite della AAC, con Eric Blair (primo per tackle nella Big East l’anno scorso) al centro della formazione a 3, mentre Nick Temple darà man forte sul lato forte ed un estremamente interessante Jeff Luc, transfer da Florida State, dove era giunto con i crismi del predestinato, a fare disastri sul lato debole.
Più nebulosa la situazione tra le safety: l’immediata predizione della vittoria dei ruoli per Kevin Brown e Mike Tyson è stata stravolta da coach Tuberville che nella prima lista dei titolari ha posto innanzi a tutti gli imberbi Andre Jones e Arryn Chenault.
Problematico anzi che no il flusso in uscita che ha lasciato sguarnita di esperienza la linea difensiva: l’unico guardiano della diga rimasto è il nose tackle Jordan Stepp, mentre il più atteso è il redshirt sophomore defensive end Silverberry Mouhon, ago della bilancia della prossima pass rush dei Bearcats.
Gli assi di Cincy non si esauriscono tra attacco e difesa, ma sono distribuiti anche negli special team.
A parte la pericolosità dei ritornatori McClung e Abernathy (che ha deciso il bowl del 2011 con un ritorno in end zone), è certamente da segnalare la presenza di uno dei migliori kicker della nazione, Tony Miliano, che sarà in corsa per il Lou Groza Award, il premio per il miglior calciatore della nazione.
Resta da registrare il forfait del kickoff specialist Pat O’Donnell, trasferitosi al caldo della Florida a Miami, lasciando un discreto buco che verrà riempito sui kickoff proprio da Tony Miliano, mentre il ruolo di punter sarà appannaggio di John Lloyd.
RUTGERS SCARLET KNIGHTS: LA MINA VAGANTE
E’ ardua impresa collocare nello scacchiere della The American questo team che proviene da una stagione elettrizzante in cui ha condiviso il titolo della Big East, ma che nel draft di aprile è stato saccheggiato come pochi, con ben 11 atleti (tra draftati e non) pronti a spiccare il volo verso la NFL.
Un plauso va all’head coach Kyle Flood, giustamente premiato con il premio di coach of the year della Big East in coabitazione con Charlie Strong, che, al primo anno alla guida del college del New Jersey, ha continuato a seguire la strada tracciata dal suo predecessore Greg Schiano ed è arrivato ad un soffio dalle 10 vittorie in stagione.
Ora il compito è decisamente più complicato e la filosofia del nuovo coaching staff sarà decisamente più visibile, data la corposa modificazione dell’organico a disposizione.
Uno dei punti fermi è il quarterback Gary Nova, junior ma in realtà veteranissimo, in quanto buttato nella mischia fin dal suo benvenuto con gli Scarlet Knights.
Il 2012 dell’atleta di casa è stato contraddistinto da tinte chiaro-scure, in quanto ha praticamente doppiato il bottino in yards lanciate del primo anno (2695 vs 1553), ma, a dispetto di un contestuale aumento di mete (22), anche gli intercetti sono drasticamente cresciuti (16).
Quel che si chiede a Nova è di affilare la propria accuratezza sul passaggio, situazione di gioco che verrà maggiormente esplorata, ora che Rutgers dovrà fare a meno del fenomenale runinngback Jawan Jemison.
Il gioco di corsa sarà affidato a Savon Huggins, sperando che sappia gestire la transizione da backup a titolare, coadiuvato dai ragazzini terribili Paul James e Desmond Peoples.
Perciò le fortune di Rutgers passeranno, una volta di più, per le mani dello straordinario ricevitore Brandon Coleman, 10 TD in stagione nel 2012 (primo nella Big East) e talento da first rounder.
“Il prossimo grande ricevitore sfornato da Rutgers” è la sentenza non mia, ma di Phil Steele, una delle voci più autorevoli del college football.
Le peculiarità che contraddistinguono il numero 17 sono l’educatissima tecnica di ricezione e lo spettacolare controllo del corpo, condite da un’accelerazione molto sottovalutata quando decide di sfidare il difensore sul profondo del campo.
Per questi motivi, è stato paragonato al wide receiver dei San Diego Chargers Malcom Floyd, di cui peraltro – se lo ricorda – ne ricorda una copia più brillante.
Purtroppo non vorremmo che con l’ex ricevitore di Wyoming condividesse anche i muscoli e le articolazioni di seta, considerata l’operazione al ginocchio che lo ha costretto ai box all’inizio del training camp e che potrebbe causargli fastidi in vista del fatidico esordio contro Fresno State già in programma il 29 agosto.
Ma a Rutgers, a livello di talento, si cade sempre in piedi e, qualora la riabilitazione di Coleman richiedesse un altro periodo di riposo, ecco pronti Quron Pratt, Leonte Carroo (protagonista di un ottimo inizio di training camp) e i true freshman Justin Goodwin e Andre Patton.
Non desta preoccupazione, invece, la tenuta della linea offensiva, che ripresenterà due atleti premiati quali migliori della Big East nei rispettivi ruoli, cioè la guardia Antwan Lowery e il tackle Kaleb Johnson.
Discorso opposto per la difesa, devastante nel 2012, prova ne siano questi pochi numeri snocciolati: 1° nella Big East per punti segnati dal reparto difensivo e capace di mantenere a 15 punti segnati o meno 9 degli avversari incontrati lo scorso anno.
I principali interpreti sono però passati tra i professionisti e solo 4 titolari ritorneranno a difendere i colori rosso-bianchi dell’università.
Le perdite più sanguinose sono rappresentate dal fuoriclasse MLB Khaseem Greene, premiato All American e miglior giocatore difensivo per la Big East nel 2012, neo acquisto dei Chicago Bears e Logan Ryan, cornerback dall’altissimo rendimento e intuito.
A proposito di perdite, questa stagione si è aperta con una cerimonia per Eric LaGrange, lo sfortunatissimo defensive tackle che fu costretto sulla sedia a rotelle dopo un terribile scontro di gioco nel 2010, la cui maglia numero 52, da quest’anno, sarà per sempre ritirata dai Scarlet Knights.
Il ruolo di leader sarà raccolto dai fratelli gemelli Jamil e Jemal Merrell, che inizieranno l’ultimo anno della carriera universitaria con un record curioso: sono stati scelti quali capitani della squadra e a Rutgers non succedeva da 120 anni che due fratelli guadagnassero questa designazione nello stesso anno!
Jamal ha festeggiato la ricorrenza convolando a giuste nozze sabato scorso, naturalmente richiedendo la preventiva autorizzazione ad assentarsi a coach Flood (vi lascio indovinare l’identità del testimone di nozze…).
Per il resto, gran parte dei posti verranno definiti solo a conclusione del training camp, il che dice molto sull’incertezza e sull’inusuale situazione in cui coach Flood e i suoi assistenti si sono venuti a trovare.
Il duello più interessante scaturito dalla riapertura del camp estivo è quello che riguarda lo slot di cornerback: se Gareef Glashen pare essersi assicurato un posto da titolare, solo all’ultimo giorno di allenamenti si saprà il nome del compagno destinato a far coppia con lui.
Qui si incrociano due storie bellissime di dedizione e volontà, ovvero l’anima del college football: da una parte Lew Toler, che ha lasciato Western Michigan per assicurarsi maggiore visibilità tra gli scout NFL nel suo ultimo anno di eleggibilità al college, dall’altra Ian Thomas, redshirt freshman che ha sorpreso tutti per i miglioramenti mostrati, se si pensa che solo da pochi mesi ha abbandonato la precedente posizione di…ricevitore.
La filosofia del “giorno per giorno” dovrà accompagnare gli Scarlet Knights fin dalla prima sfida, quando terranno a battesimo Derek Carr, uno dei quarterback più considerati della nazione.
Escludendo la riconferma all’apice della AAC, la trasferta di New Brunswick rappresenterà comunque un ostacolo gravoso per chiunque varcherà i cancelli dell’High Point Solutions Stadium.
CONNECTICUT HUSKIES: COSTRUIRE IL FUTURO DIMENTICANDO IL PASSATO
Non è che il riallineamento della Big East ha creato confusione solo in noi, tranquillizzatevi.
Anche loro (inteso come gli atenei coinvolti) ci hanno capito il giusto.
Prendete la pagina iniziale del sito dei Connecticut Huskies di alcuni giorni fa (se l’avete veramente visionata, anche solo per errore, reputatevi dei football nerd): “Starting today, UConn and The American will write a new chapter in the history of intercollegiate athletics”.
Che messaggio: chiaro, sublime, epico. Bellissimo.
Però, però. Affini la vista e scopri che la metà dei logo delle squadre individuate il prossimo anno non giocherà nella AAC (Pittsburgh andata, Navy e East Carolina entreranno solo dal prossimo anno e via così…).
Quindi, in conclusione, se anche UConn dovesse riscrivere la storia della AAC (cosa che dubitiamo fortemente), difficilmente distinguerà le avversarie affrontate per raggiungere tale ambito primato.
Bene, ma non benissimo, come chioserebbe quel fenomenale menestrello che si occupa di basket NBA.
Scherzi a parte, un po’ di “bambola” è ammissibile per un programma che ha perso 5 uomini cardine, selezionati nello scorso draft di aprile (record all time per l’ateneo), e che ha già imboccato la strada per l’ennesima ricostruzione.
E pensare che solo 2 anni fa era giunta inaspettata la convocazione al Fiesta Bowl, poi straperso contro Oklahoma, dopo aver agguantato, all’ultimo turno disponibile, il titolo della Big East in coabitazione con Cincinnati e West Virginia, autentiche suicide nel farsi recuperare tutto quel terreno.
Erano gli Huskies di Randy Edsall (mai molto amato a Storrs), cui non è parso vero di poter accettare la sostanziosa offerta di Maryland, in seguito al già citato sorprendente 2011.
Erano gli Huskies di Jordan Todman, infaticabile runningback, giunto probabilmente stremato tra i pro a causa delle ripetute cavalcate richiestegli nella carriera universitaria, il quale ricorda da vicino Lyle McCombs, il salvatore della patria cui si affida l’attuale head coach Paul Pasqualoni.
Non è un segreto che il destino di UConn segua quello del suo runningback, inarrestabile nel suo anno da freshman (1151 yards corse, selezione freshman All American), più scialbo lo scorso anno con “solo” 860 yards corse.
I problemi dei sistemi di gioco così in balia della vena del miglior giocatore disponibile sono due: da una parte, il coaching staff confessa implicitamente l’impossibilità di trovare valide alternative per venire a capo di partite intrecciate, dall’altra si rischia l’ “effetto Todman”, per cui si approfitta della generosità dei propri giocatori, salvo poi questi giungere alla seconda parte della propria carriera, quella professionistica, senza avere più nulla da dire. E questo influisce non poco sulle determinazioni dei migliori prospetti liceali al momento della selezione del futuro college in cui formarsi quale uomo e atleta, fidatevi.
Nuove soluzioni dovranno essere inventate, in quanto anche il piano b, la wildcat offense affidata al poliedrico Scott McCummings, non potrà essere utilizzata, a causa della rottura del crociato anteriore del ginocchio occorso al quarterback nei primi attimi del training camp autunnale.
E’ singolare che Walter Camp, l’uomo a cui è stato dedicato il premio annuale per il miglior ricevitore collegiale della nazione, sia originario proprio del Connecticut.
Ecco, scherzando, ma neanche tanto, si potrebbe sostenere che se il signor Camp fosse ancora in vita, rappresenterebbe ancora l’arma più temibile in ricezione per coach Pasqualoni.
Perso l’educato TE Ryan Griffin, che almeno garantiva un discreto apporto offensivo, sono rimasti i mediocri Geremy Davis e Shak Phillips su cui fare affidamento.
Chandler Whitmer, il junior quarterback, cercherà di innescare i propri ricevitori.
I tifosi degli Huskies sicuramente si accontenterebbero, se già il numero 10 provvedesse ad invertire il terribile rapporto TD-intercetti del 2012 (9 vs 16).
Sul versante difensivo, si registrano importanti defezioni, soprattutto sull’asse portante DE-LB, in quanto Trevardo Williams e Sio Moore, entrambi premiati con la selezione nel primo team all conference, sono andati ad aumentare la quantità di talento in dote alle franchigie professionistiche.
Nonostante la perdita del leader all time per sack messi a segno, la linea difensiva ripropone 4 giocatori esperti e solidi, su cui è possibile ripartire la rumorosa assenza di Williams.
Al centro della 4-3, l’unica personalità di spicco è quel Yawin Smallwood che nel 2012 ha messo a segno 120 tackle, ha dispensato grande leadership ed è solo questione di tempo, prima che anche lui si dichiari per il draft del 2014.
La schedule extra-conference degli Huskies prevede la sfida improba contro Michigan e quella contro Maryland, piuttosto sentita nel campus (vi ricordate dell’amore verso coach Edsall? Ecco).
Per il resto si prevede un inverno magro, con la possibilità di giocare un terribile scherzetto in casa l’8 novembre alla lanciatissima Louisville.
CENTRAL FLORIDA KNIGHTS: LA PRIORITA’ E’ CONTINUARE A CRESCERE
E’ notizia recente che i ragazzi del campus di Central Florida potranno festeggiare le gesta dei propri idoli trangugiando boccali di Guinness.
E’ stato infatti raggiunto l’accordo che porterà la compagine di coach George O’Leary a sfidare la redenta Penn State di coach O’Brien (curiosamente due cognomi di chiara origine irlandese) nell’opening act della stagione 2014 al Croke Park di Dublino.
Questo è solo uno dei tanti indizi che convergono nell’accertare il crescente rispetto che il programma di Central Florida si sta meritando da diversi anni a queste parti.
Uno dei segreti di Pulcinella è rappresentato proprio dalla sapiente gestione di coach George O’Leary, che al 9° anno alla guida del college che fa base ad Orlando, ha condotto i propri atleti ad un record più che lusinghiero all’interno della Conference USA (10 vittorie contro 4 sconfitte), con la ciliegina sulla torta, consistita nella vittoria del Beef O’Brady Bowl.
Un percorso irto di insidie, come testimoniato dal record di 0 vittorie e 11 sconfitte del 2004, anno dell’insediamento del nuovo coaching staff, ma, in poco tempo, bagnato dai trionfi del 2007, con l’apertura del Bright House Networks Stadium da 45.000 spettatori e il contestuale titolo di conference (poi bissato nel 2010).
E ora, come regalo del suo decennio alla guida dei Knights, la nuova avventura nella AAC, depotenziata rispetto alle ultime edizioni, ma semplicemente un sogno per un programma che si è costruito una solida reputazione, mattone dopo mattone, in pochi anni.
I più informati manifestano sorpresa per lo stupore altrui: era solo questione di tempo – sostengono – che il college con il terzo maggior numero di iscrizioni annuali di tutta la Florida, per di più uno degli Stati leader nella produzione di talenti per il football americano, venisse premiato con successi e attestati di stima da parte della comunità del college football.
Il cocktail di esperienza ed entusiasmo dei più giovani si spera possa funzionare anche per il grande salto in una BCS conference, sebbene UCF quest’anno perderà 20 senior, responsabili, con 33 vittorie nel quadriennio appena trascorso, del ciclo più vincente della storia del programma.
Il fulcro dell’attacco è Blake Bortles, definitivamente esploso nel suo anno da sophomore, superando le 3000 yards su passaggio, per un bottino di 25 touchdown finali e nessun (!!!) intercetto regalato nelle ultime 6 uscite stagionali.
Il numero 5 è stato il principale artefice dello scoppiettante attacco dei Knights, assestatosi alla 25° posizione per punti segnati tra i college FBS; perciò riteniamo più che comprensibile l’irrequietezza letta negli occhi dei componenti dello staff di UCF, quando prolungati acciacchi fisici hanno fatto capolino, sconvolgendo la tranquillità del quarterback titolare nell’ultimo periodo.
Qualora Bortles dovesse alzare – almeno per l’inizio della stagione – bandiera bianca, O’Leary sarebbe costretto alla scelta tra Tyler Gabbert (fratello del purtroppo celebre QB dei Jaguars Blaine “Blame” Gabbert), giunto da Missouri come prospetto di alto livello, oppure richiamare sotto il centro Jeff Godfrey, che ha ormai completato la metamorfosi a ricevitore, dopo un altalenante 2011 nei panni del regista (durante il quale evidenziò ottima mobilità, ma poca dimestichezza con il gioco di passaggio).
Tra i portatori di palla si registra la rilevante perdita del runningback Latavius Murray, il cui talento ha ricevuto giusta gratificazione in sede di draft, quando i suoi estimatori sono, man mano, cresciuti fino al momento della sua designazione al sesto giro da parte degli Oakland Raiders.
Paraddossalmente, il ruolo non dovrebbe subire particolari scossoni, con il tandem Storm Johnson e Cedric Thompson capace di sostituire adeguatamente la produzione di Murray, anche se è d’uopo menzionare la perdita di 3 uomini di linea, tra cui l’ottimo centro Jordan Rae.
Coach O’Leary avrà poi compito arduo nel frenare la carica del freshman RB Willie Stanback, che al primo anno vuole già dimostrare di essere utile sul campo da gioco.
Ottime notizie giungono inoltre dal parco ricevitori: detto di Jeff Godfrey, altri 4 dei primi 5 contributori nella posizione torneranno a schierarsi sulla linea di scrimmage per i Knights.
Nonostante siano solo al loro terzo anno di eleggibilità, sia J.J. Worton che Josh Reese hanno conquistato il ruolo da titolare fin dal loro esordio ad Orlando, mentre occhio al sophomore Breshad Perriman, che gli addetti ai lavori indicano come principale candidato ad una breakout season.
La squadra difensiva presenta ancora un’identità fluida, in cui pochi sono i punti fermi e molte le posizioni da titolare da sistemare.
Estremamente nutrita sarà la schiera dei freshman che guadagneranno spazio nella depth chart di coach O’Leary, a partire dalla linea difensiva, dove l’unica riconferma di peso (e che peso!) è rappresentata dal defensive tackle E.J. Dunston, che presumibilmente agirà da chioccia per il gruppo.
Altro settore particolarmente funestato dalla conclusione del ciclo precedente è quello dei linebacker, nel quale sarà promosso a titolare Willie Mitchell, che cercherà di non far rimpiangere il sostanzioso apporto di Jonathan Davis.
La linea a 3 è infine completata dall’outside linebacker Troy Davis e dal middle linebacker Terrance Plummer, l’uomo deputato a raccogliere il testimone di leader carismatico della difesa, orfana del già menzionato Jon Davis.
Per quanto attiene le secondarie, l’ecletticità del junior Brandon Alexander permetterà diverse soluzioni di personale al defensive coordinator Jim Fleming: se Alexander verrà schierato da safety accanto alla sicurezza Clayton Geathers, spazio al redshirt freshman Jacoby Glenn (o al junior Jordan Ozerities) e a Jeremy Davis sulle tracce dei ricevitori avversari; altrimenti, l’altra soluzione prevede Alexander cornerback titolare opposto a Jeremy Davis, con la freschezza di Drico Johnson accanto a Geathers.
Per Central Florida la priorità è continuare a crescere, o, per lo meno, attutire il più possibile le scosse di assestamento dovute al trasferimento nella nuova conference.
Il secondo record positivo consecutivo e un nuovo bowl conquistato (i 5 a cui UCF ha partecipato precedentemente appartengono tutti all’era O’Leary…), sarebbero l’ennesima conferma della giusta direzione imboccata dal programma e darebbe ai tifosi l’occasione di festeggiare con l’alcool prima della prevista gita in Irlanda.
SOUTH FLORIDA BULLS: BASTA PROCLAMI, E’ ORA DI VINCERE
Nell’ultimo triennio South Florida è stata sulla bocca di tutti per l’eccezionale profondità del roster, pronto a sfondare i confini della Florida e catapultarsi definitivamente nell’olimpo delle università che annualmente si contendono i bowl più importanti. Il record di 3 vittorie e 9 sconfitte del 2012 dovrebbe suggerirvi che qualcosa è andato storto.
D’altronde la contraddittorietà è insita in un’università che si chiama South Florida ma ha base a Tampa, nel nord dello stato, e ha scelto il toro come nickname – ecco – non proprio l’animale più rappresentativo dello stato delle palme e del sole…
Nel suddetto triennio il coach Skip Holtz non è riuscito a ricacciare le malelingue che vogliono direttamente proporzionale la facilità con cui riceve proposte di lavoro, con la fama che il mitico babbo ancora riscontra tra i direttori che sovraintendono i programmi sportivi degli atenei di maggior rilievo.
Così, dopo tre anni pieni di promesse non mantenute, coincisi con la contestuale crescita del programma degli odiati cugini di Central Florida, con cui da quest’anno condivideranno la presenza nella stessa conference, l’ateneo di Tampa ha deciso (giustamente) di dare il benservito ad Holtz.
Per ricominciare con la giusta rincorsa, i Bulls si sono affidati a Willie Taggart, un nativo del luogo, proveniente da 2 buone stagioni a Western Kentucky e intimo della famiglia Harbaugh.
Fin dai primi giorni dell’insediamento, Taggart ha fatto capire ai propri atleti che bisogna far muovere meno la lingua davanti ai microfoni e aumentare la produzione di olio di gomito, prodotto essenziale per raggiungere traguardi di alto livello (muovendo contestualmente una neanche tanto sottile critica al precedente coaching staff).
La prima mossa, conclusasi sabato scorso, è stata quella di caricare l’intero organico su un pullman per raggiungere il “ritiro” di Vero Beach.
“(I ragazzi) devono cominciare a conoscersi fra loro, scambiarsi i nomi dei loro genitori, sorelle, fratelli…e devono saperli ripetere durante la riunione della squadra”, ha detto Taggart, con un approccio a metà tra il coach Boone di “Remember the Titans” e il sergente Hartmann di “Full Metal Jacket”, considerate le sveglie “a tradimento” suonate ai suoi alle 3 di notte con successivo allenamento a sorpresa “per abituarli alle difficoltà”.
L’abitudine alla difficoltà è stato il refrain della settimana a Vero Beach, culminata con la visita a sorpresa del coach campione del mondo, John Harbaugh, che ha salutato i ragazzi e li ha catechizzati proprio sull’importanza di crearsi un’identità “rough and tough”, ruvida e dura.
Il primo nodo da sciogliere per coach Taggart è stato quello riguardante la sostituzione del quarterback B.J. Daniels, destinato, guarda il caso, ai 49ers di Jim Harbaugh, che a quanto pare ha molto apprezzato le peculiarità dell’ex Bulls.
A seguito di un confronto molto aspro, protrattosi fino agli ultimi giorni di training camp, tra il senior Bobby Eveld e il sophomore Matt Floyd, Taggart ha finalmente espresso il verdetto finale a favore di Floyd, che guiderà dunque l’attacco nell’esordio contro McNeese State.
La pro-style offense innestata dal nuovo corso si avvarrà delle prestazioni del runningback Marcus Shaw, che insieme al junior Michael Pierre, dà vita ad un backfield in cui agilità (il primo) e forza (il secondo) si amalgamano perfettamente, come in una soluzione alchemica.
Più drammatica la situazione tra i ricevitori, falcidiati da trasferimenti e sospensioni.
Il faro del reparto vestirà il numero 81 e risponde al nome di Andre Davis, pronto a spiccare il salto di qualità ed entusiasta di cominciare la nuova avventura, ma alle sue spalle la concorrenza latita, se è vero che il duello sembra esclusivamente riservato a Derrick Hopkins e Deonte Welch, fermi a 18 misere ricezioni nel 2012. Possiamo azzardare che il secondo obiettivo più ricercato da Floyd sarà il tight end Sean Price, distintosi già al primo anno di college football e chiamato a ripetersi.
I protettori dell’attacco, i big men della linea offensiva, costituiscono un gruppo con ampi margini di crescita nel prossimo biennio, su cui si staglia la personalità del centro junior Austin Reiter, uno dei migliori del paese.
L’obbligo di impartire la riscossa è affidato alla difesa, da sempre il piatto forte della casa, sebbene proveniente da un anno deficitario, con i soli 9 turnovers procurati nel 2012.
Willie Taggart si è convinto che sia Chuck Bresnahan, il nuovo defensive coordinator, l’uomo capace di inculcare una mentalità più aggressiva ai suoi ragazzi; con un passato come defensive back coach degli Oakland Raiders, Bresnahan è stato suggerito nientepopodimeno che da Jim Harbaugh, il quale intrattiene con il nuovo HC dei Bulls un lungo rapporto di stima e collaborazione (l’ultimo a Stanford, conclusosi nel 2009).
A riprova della bontà del materiale a disposizione, la linea difensiva è potenzialmente tra le top 10 non dello Stato, ma della nazione: i defensive tackle Luke Sager ed Elkino Watson sono eccellenti run stopper, mentre il defensive end Aaron Lynch, fenomeno da Notre Dame che ha osservato un anno d’inattività pur di trasferirsi più vicino a casa, farà coppia con un altro ex freshman All American, Ryne Giddins.
Sebbene per talento Giddins meriti di essere ritenuto il titolare della posizione, l’ultima travagliata stagione, in cui un serio infortunio alla spalla ha terribilmente condizionato l’annata, lo ha costretto alla concorrenza con il più solido Tevin Mims. Solo il training camp saprà porre la parola fine a questa contesa.
Nella 4-3, marchio di fabbrica della conference, l’unico linebacker sicuro del ruolo di starter è l’outside linebacker Reshard Cliett, oltre – naturalmente – a sua maestà Devekeyan “DeDe” Lattimore, mosso dall’esterno al centro nel corso dell’ultima stagione e ancora atteso ai livelli monstre del 2011, quando collezionò 94 tackle e 7.5 sack, leader di squadra in entrambi i fondamentali.
La secondaria fa incetta di esperienza, con ben 5 senior a giocarsi le 2 posizioni di safety e una di cornerback, con l’eccezione del sophomore Kenneth Durden, possibile titolare alla posizione di CB.
L’obiettivo della stagione dei Bulls è quanto meno migliorare sensibilmente il record di 1 vittoria e 6 sconfitte riportato nel 2012 negli scontri all’interno della Big East.
Poi, professando il nuovo basso profilo inaugurato da coach Taggart e gestendo adeguatamente il talento a roster, staccare un biglietto per la postseason non suonerebbe un’eresia.
HOUSTON COUGARS: SEGNARE PER REGNARE
Nell’ultimo decennio l’università di Houston ha prodotto un sistema di gioco offensivo altamente riconoscibile, che presto si è propagato all’interno dell’universo FBS, grazie ai tecnici prima cresciuti all’interno del programma e poi trasferitosi alla ricerca di nuove avventure.
Un sistema per cui non esiterei a chiamare in causa i film western che chiunque ha potuto apprezzare, molti di questi ambientati proprio in Texas.
Brandendo pistole, i fuorilegge a cavallo si avvicinano di gran carriera alla dirigenza, incuranti della reazione scomposta, ma non per questa meno pericolosa, degli attaccati.
La chiamano “air raid style offense”, una spread offense estrema in cui predomina un accentuato utilizzo del gioco aereo, che prevede spesso 4 ricevitori puri sulla linea di scrimmage e il quarterback a ricevere l’ovale nella posizione di shotgun.
Una filosofia che ha mosso i primi passi con l’attuale head coach di Baylor, Art Briles, poi perfezionatasi sotto la guida di Kevin Sumlin, attuale HC di Texas A&M, che ha saputo servirsi di offensive coordinator dal futuro roseo, come Dana Holgorsen e Kliff Kingsbury.
4 nomi che sono stati strappati a Houston a colpi di contratti assai remunerativi; chissà se sarà il destino che attenderà anche Tony Levine, ultimo della stirpe, subentrato a Kevin Sumlin pro tempore per il bowl del 2011 e poi confermato per l’annata successiva.
Se fare affidamento su un buon quarterback è regola generale nel football, questa raggiunge livelli parossistici in un sistema in cui il lanciatore è un vero e proprio mistatore di gioco.
Questo è ciò che attende il junior quarterback David Piland, lo scorso anno chiamato a sostituire una leggenda del college football come Case Keenum, e riconfermato quale perno dell’attacco.
Nonostante la designazione di QB titolare sia toccato al più esperto collega, coach Levine ha aggiunto che anche il freshman John O’Korn sarà inserito in speciali situazioni di gioco.
Se l’offseason è un periodo di relativa tranquillità per gli atenei ed i giocatori, i quali possono pensare semplicemente a rafforzarsi in vista della stagione successiva, così non è andata per UH.
Infatti, nella pausa estiva, Houston ha dovuto subire la decisione del proprio runningback Charles Sims, portatore di palla che flirta annualmente con le 1000 yards guadagnate su corsa e ritenuto il miglior senior RB da Gil Brandt di NFL.com, che ha deciso di trasferirsi per l’ultimo anno di eleggibilità a West Virginia dell’ex Holgorsen, senza nulla proferire sulle motivazioni, sebbene i bene informati giurino che il senior cercasse una vetrina migliore da spendere poi in tempo di draft.
Ma i mal di pancia per i tifosi dei Cougars non sono finiti qua, infatti la sempre talentuosa pattuglia di ricevitori ha detto addio al leader per yards ricevute del 2012, Dewayne Peace, sistematico nel collezionare scelte disastrose, una dopo l’altra.
Sospeso per il 2013 a causa degli insufficienti voti scolastici, ha giocato una carta disperata, rendendosi disponibile per il supplemental draft di luglio, venendo però ignorato dalle franchigie NFL.
Nonostante due assi nella manica siano evaporati in un lasso di tempo piuttosto breve, Levine professa fiducia, soprattutto nei runningback Ryan Jackson, capace di guadagnare più di 100 yards nel match conclusivo della sua annata da freshman, e Kenneth Farrow.
Come anticipato precedentemente, il reparto dei miracoli è però quello dei ricevitori, che con il sophomore Deontay Greenberry ha estratto l’ennesima gemma da un recruiting che deve accontentarsi di venire dopo le università texane di grande tradizione.
Greenberry, che ha stupito al suo primo di college football collezionando 47 ricezioni per 569 yards e 3 TD, non si è seduto sugli allori ed in estate ha faticato per migliorare come bloccatore, meritandosi il plauso del proprio coach.
Al Media Day della AAC, Levine ha voluto spendere parole d’elogio anche per tutti gli altri ricevitori, rincarando la dose con questa frase: “Questi sono alcuni dei nomi di cui avete bisogno di annotarvi. Se non li conoscete oggi, li conoscerete a Natale” (riferendosi al periodo delle feste natalizie, che normalmente vede anche il termine della stagione collegiale).
Una discreta responsabilità che Daniel Spencer, Larry McDuffey, Xavier Maxwell e Andrew Rodriguez dovranno spartirsi l’uno con l’altro, evitando che qualche giornalista di buona memoria possa rinfacciare, in un prossimo futuro, quella dichiarazione un po’ spaccona del loro head coach.
Sfortunatamente potrà al massimo incitare i compagni dalla sideline Shane Ros, infortunatosi al ginocchio in primavera e fuori per tutta la prossima stagione, che ha comunque voluto ringraziare i tifosi-amici per il supporto ricevuto nell’ultimo travagliato periodo, dando appuntamento a tutti ai prossimi match dei Cougars. Un buon esempio dello spirito di comunione che aleggia nel college football.
Contraltare dell’inesperienza fin qui esibita dall’attacco, la linea offensiva presenta un’identità matura ed esperta, con ben 3 senior e 2 junior, capitanati dal centro Bryce Redman, dimostratosi una delle eccellenze a roster.
A causa dello smantellamento del già troppo risalente (per gli standard americani) Robertson Stadium, UH sposterà la sede dei propri confronti casalinghi all’avveniristico Reliant Stadium, trasferimento che permetterà ai ragazzi di Houston di toccare con mano cosa significhi calcare l’erba di un’arena della NFL, con l’unica eccezione della sfida con Cincinnati, in programma invece all’università di Rice.
Per approcciare il delicato discorso sulla rivedibile difesa, 110° per punti subiti in tutta la FBS, fatemi tornare sulla metafora dell’assalto alla dirigenza.
Gli spregiudicati agguati al bottino comportano ottimi guadagni, ma anche perdite notevoli.
La difesa dei Cougars dà la sensazione di essere trascurata, cercando di indovinare la malsana convinzione sottostante la Air Raid Offense, per cui l’attacco riuscirà sempre a segnare un punto in più della squadra avversaria. Dimostrando una miopia già fatale in partite del passato recente, quale la sanguinosa sconfitta nel match per il titolo della Conference USA contro Southern Miss del dicembre 2011, che avrebbe definitamente aperto i cancelli della finale BCS ad un team, fino ad allora, imbattuto.
Tony Levine ha glissato sull’argomento, concedendo, come misero mea culpa, di essersi accorto che il proprio reparto difensivo ha sofferto il quotidiano confronto in allenamento contro un attacco così peculiare, finendo per trovarsi a disagio ogni qual volta si affronti un avversario che presenta un differente sistema di gioco.
Meglio concentrarsi sui singoli, o sul singolo, cioè la safety al secondo anno Trevon Stewart, premiato come All American freshman nel 2012, degno erede di D.J. Hayden, che ha scalato sorprendentemente le preferenze degli scout NFL, fino alla 12° posizione assoluta, quella appartenuta agli Oakland Raiders.
Trattasi di improprio caso di serendipità (esiste in italiano, lo giuro), ovvero, nello specifico, trovare un’eccelsa ed imprevista macchina da tackle, pensando di aver a che fare con un rapace degli ovali altrui: un anno fa il coaching staff era rimasto letteralmente abbacinato dalla capacità di intercetto dell’allora true freshman; quasi 12 mesi e 126 tackle dopo, si può invece dire che Houston ha trovato un giocatore molto pratico, con un fiuto non comune per le caviglie avversarie, risultando addirittura il miglior placcatore tra tutti i primi anno della nazione.
L’ateneo texano presenta un fuoriclasse anche nelle situazioni speciali, quelle più sottovalutate, ma ugualmente determinanti: il punter Richie Leone, oltre ad essere stato nominato nel secondo team All American prestagionale, grazie alle oltre 45 yards di media sparate a calcio nel 2012, è un veterano molto apprezzato, nonché uno dei pochi a cui è concessa la parola nel segreto del locker room.
La forbice delle vittorie che Houston può variare di molto, prima di tutto condizionata dal grado di evoluzione che Piland avrà raggiunto nella offseason.
Per gli amanti della cabala, un dato su tutti: le ultime 2 volte in cui Houston si è trasferita da una conference ad un’altra, non le è mai sfuggito il titolo nella stagione successiva.
MEMPHIS TIGERS: HASTA LA VICTORIA, FUENTE
Ci sono luoghi in cui costruire un programma vincente è più arduo rispetto ad altri.
Sono circa 630 i kilometri che separano Knoxville da Memphis, ma un abisso li distingue a livello di attitudine sportiva.
Memphis è stato ed è un college di profonda vocazione cestistica: ognuno di noi serba le immagini pazzesche del 2008, quelle con John Calipari in panchina e Derrick Rose in campo, a sfiorare con i polpastrelli il primo titolo NCAA della storia per i Tigers.
Il football è ritenuto uno sport di serie b nel campus, sebbene anch’esso abbia sorprendentemente fatto parlare di sé negli ultimi tempi, grazie al first rounder Dontari Poe, nose tackle scelto dai Kansas City Chiefs, ormai già 2 anni fa.
Nonostante le obiettive difficoltà a creare un ambiente motivato e vincente, il primo tassello scelto dalla direzione sportiva sembra quello giusto.
La carica di head coach è stata infatti affidata al 37enne Justin Fuente, che nel 2012, alla sua prima stagione sulla sideline del Liberty Bowl Memorial Stadium ha raccolto 4 vittorie, bottino assolutamente non malvagio, considerate le circostanze, concludendola con una netta affermazione su Southern Miss, una delle rivali storiche.
Fuente ha dimostrato di avere le idee chiare su come si sviluppa un piccolo programma per portarlo alla ribalta nazionale, prova ne sia il suo pedigree, che vanta due anni come co-offensive coordinator a TCU, un ateneo texano storicamente di seconda fascia che si è aggiudicato addirittura un Rose Bowl, sotto la sapiente guida di coach Patterson.
L’entusiasmo si smorza se si passa in rassegna il personale in dotazione alla posizione di quarterback: nonostante la concorrenza di Paxton Lynch ed Eric Mathews, Jacob Karam è in pole position per riconfermare il posto da titolare affidatogli nel 2012.
Karam ha mantenuto un’ottima ratio tra TD ed intercetti (14 a 3), ma si è rivelato piuttosto misero nella produzione di yards (appena 1895), per cui si spera che quest’estate abbia acquisito maggiore fiducia nei propri mezzi.
Il numero 9 non sarà dotato di grande braccio, ma sicuramente lo è di un grande cuore, come d’altronde lo è la maggior parte dei ragazzi appartenenti a squadre sportive collegiali, i quali utilizzano spesso il tempo libero a disposizione per stare vicino ai meno fortunati.
Per gli interessati, questo è il video in cui Karam duetta con una piccola fan, accompagnandosi (con discreta competenza, bisogna ammetterlo) al piano, canticchiando “Price Tag” di Jessie J. (http://www.youtube.com/watch?v=NQKAhx3Mn9k).
Tornando a bomba sulle “cose” del campo, Fuente fa molto affidamento su 3 playmakers che ha imparato a conoscere e che vuole vedere sbocciare nella prossima stagione: si tratta del runningback Brandon Hayes, del ricevitore Keiwone Malone e del tight end Alan Cross, a fronte della significativa perdita del leading receiver Marcus Rucker.
Nuovo ossigeno giunge inoltre dagli atleti trasferitisi quest’anno a Memphis, che si spera decisivi nell’aumentare la competitività del roster dei Tigers: sono il ricevitore Joe Craig, in arrivo da Clemson e il defensive tackle Chase Rome, che aggiunge l’esperienza maturata nelle trincee della Big Ten ad un settore che è già il migliore ed il più profondo della squadra.
La linea difensiva ha, infatti, fornito indicazioni più che positive durante la scorsa stagione, concedendo soltanto 138 yards a partita su giochi di corsa (32° nazionali) e assestandosi al 1° posto per yard totali concesse nella Conference USA, se si prendono in considerazione solo i match intra conference.
Fate, dunque, un cerchietto intorno al nome di Martin Ifedi, 8.5 sack nel 2012, e al leader vocale della difesa, il linebacker Charles Harris, un muro contro cui si scontra chiunque abbia intenzione di scavalcare la seconda linea dei Tigers.
Dalle dichiarazioni di coach Justin Fuente traspare l’intenzione di approcciare umilmente il passaggio alla AAC.
L’ago della bilancia saranno le 4 vittorie riportate nella scorsa stagione: retrocedere nella casella delle W coinciderebbe con una stagione deludente, ripetersi o migliorarsi una conferma dell’aver imboccato la strada giusta.
SOUTHERN METODIST MUSTANGS: CORRI E LANCIA CON JUNE
Se siete autori in cerca di personaggi per il vostro prossimo libro, prendete in considerazione il nome di June Jones.
Dopo una breve parentesi da capo allenatore nella NFL che definiremo per lo più sfortunata (22 vittorie e 36 sconfitte), giunge la chiamata dell’università delle Hawai’i nel 1999, un programma che aveva concluso la stagione precedente senza assaggiare mai il dolce gusto della vittoria.
La sterzata di Jones sul timone della squadra ottiene subito un successo insperato, portando i Rainbow Warriors ad un record di 9 vittorie e 4 sconfitte, ovvero la maggior variazione di vittorie da una stagione ad un’altra nella storia del college football.
Per onor della cronaca, nel 2007 Hawai’i sarà poi invitata al Sugar Bowl, uno delle 4 finali più importanti di fine stagione, terzo invito assoluto assegnato ad un team partecipante ad una conference minore.
June Jones è una divinità sull’isola vulcanica, uno stregone, una specie di colonnello Kurtz cui tutto è concesso. Ma l’ex head coach dei Falcons e dei Chargers non è contento. Sente che l’università si sta sfilando dall’impegno di mantenere la squadra di football ai livelli raggiunti. L’aria dell’addio è ormai prossima, sebbene persino il Governatore dell’isola si scomodi per lanciare un appello affinché il coach rimanga al suo posto.
Ma la decisione è ormai presa e Jones accetta l’offerta da 2 milioni di dollari a stagione di Southern Metodist, l’ateneo di Dallas passato alla storia per aver dato alla NFL uno dei runningback più forti della storia, Eric Dickerson, e per aver assaggiato, unica nella storia del gioco fino ad ora, le terribili lame della “death penalty”, la sanzione che cancellò la squadra di football dei Mustangs per tutto il 1987 e, di fatto, il 1988.
Il coach originario di Portland ritorna alla sua dimensione più consona: SMU è un programma da rilanciare, dove la sua forte personalità da predicatore (oddio, da queste parti abbiamo giù dato, ed anche tragicamente…) non è mai in discussione, ottimale per installare il suo peculiare sistema di gioco.
Un sistema appreso durante gli anni di college a Portland State, chiamato “Run ‘n’ shoot”, che si appoggia molto sul gioco di passaggio per allargare le maglie della difesa, per poi infilzare con il gioco di corsa.
Nel caso specifico, il ritmo imposto ai drive è comunque piuttosto compassato, tanto è vero che spesso il quarterback si avvicina alla sideline per ricevere direttamente dalla bocca di coach Jones gli schemi da applicare.
Garrett Gilbert, il QB dei Mustangs, trasferitosi dai Texas Longhorns, pare l’interprete perfetto per la Run ‘n’ shoot, come ha confermato lo stesso coach Jones nell’ultima conferenza stampa della AAC: “Conosco bene suo padre. Quando Garrett ha scelto Texas, io non ero ancora a SMU. Appena ho accettato l’incarico qui, ho telefonato a suo padre, per chiedergli di intercedere presso suo figlio e fargli accettare il trasferimento a SMU. Non accettò. Poi qualcosa è andato storto a Texas ed ora eccoci qui. E’ un ottimo corridore, un ottimo ragazzo, un leader e sta acquisendo maggiore confidenza con il gioco di passaggio”.
Tutto è bene, ciò che finisce bene, pare la perfetta chiosa. Forse, per non rischiare la stonatura finale, Gilbert dovrebbe prendersi un po’ più cura del pallone, come si dice in gergo, ed evitare di ripetere i 15 intercetti che hanno macchiato una buona stagione inaugurale in maglia Mustangs, con 15 TD lanciati, conditi da altri 8 su corsa.
Dopo 4 splendidi anni insieme, SMU dovrà fare a meno del fullback Zach Line, autentico colosso à la Mike Alstott, capace di superare (ampiamente) il tetto delle 1000 yards per 3 stagioni consecutive.
Line era un corridore così devastante da costringere il buon June Jones a correggere la propria filosofia di gioco, concedendo più giochi di corsa di quanti solitamente aveva permesso in passato.
Nonostante sia estremamente ambizioso pensare di poter sostituire immediatamente l’attuale giocatore dei Minnesota Vikings, il gioco di corsa continuerà ad essere sfruttato massicciamente, grazie ad una linea offensiva che prevede la presenza del centro Taylor Lasecki e della guardia Thomas Ashcraft, altra grande acquisizione dall’università di Texas, se saprà tenersi lontano dagli infortuni al ginocchio che non gli hanno mai permesso di imporsi a Austin.
Un’altra attrazione, soprattutto per i più nostalgici, sarà seguire il battesimo di un figlio d’arte particolare, tale Deion Sanders Junior, professione wide receiver.
Il reparto difensivo perde 6 titolari, ma si avvarrà delle prestazioni di due ottimi atleti, il MLB Randall Joyner e il defensive back Kenneth Acker, proveniente da Portland come il suo coach.
Tra gli special teamer, menzione d’onore per l’ottimo punter Mike Loftus, che si è iscritto tra i migliori del ruolo già nella sua stagione da sophomore.
Considerato il trasferimento nella più impegnativa AAC ed il calendario proibitivo degli scontri extraconference (Texas Tech in casa, Texas A&M e TCU in trasferta), vedo piuttosto turbolento il percorso dei Pony.
Diciamo che ripetere le 5 vittorie del 2012 soddisferebbero anche un insoddisfabile June Jones.
TEMPLE OWLS: RHULE, MEGLIO TARDI CHE MAI
A volte è questione di numeri.
Lo sa bene Matt Rhule, neo allenatore degli Owls, ma in realtà veterano del campus sito a Philadelphia.
L’ex allenatore della linea offensiva dei New York Giants ha infatti servito l’università quando al comando c’era Al Golden, nel triennio dal 2008 al 2010.
Anzi, molti addetti ai lavori indicavano proprio Rhule quale successore perfetto di Golden, ormai sul trampolino di lancio per passare ad università di maggiore prestigio, e non Steve Addazio, come invece è successo.
Dopo l’addio di Addazio per Boston College, Rhule ha ricevuto dal destino la chiamata che non sembrava giungere mai e, visto che c’era, ha riportato in auge alcune tradizioni in vigore durante il suo primo periodo di vita tra gli Owls.
Come quella di ritornare ad indossare i numeri di divisa dall’1 al 9, ricorrenza che il coaching staff ha voluto trasformare in un atto meritocratico, considerata che la precedenza è stata data agli atleti che si sono distinti, per esperienza o per intensità, durante il training camp.
Chiaramente, uno di coloro che ha potuto godere di questo privilegio è stato l’outside linebacker Tyler Matakevich, giunto come signor nessuno e poi fregiatosi del titolo di rookie difensivo della Big East dopo un 2012 sensazionale, il quale ha voluto esprimersi sull’iniziativa: “E’ un onore indossare i numeri dei grandi difensori che hanno fatto la storia dell’università: penso a Jaiquawn Jarrett, a Tahir Whitehead, a Muhammad Wilkerson. Trovarsi nella loro stessa categoria è un invito a migliorarsi ancora di più”.
Sebbene abbiamo ormai imparato a conoscere in questi pochi mesi di conduzione tecnica il carattere tutto d’un pezzo di coach Rhule, – il quale ci fa supporre che abbia accettato l’incarico nella convinzione che questo roster possa realmente acchiappare la postseason – quella che attende gli Owls è una stagione di enormi cambiamenti.
Il forte ricorso al gioco di corsa, impronta di Steve Addazio, verrà abbandonato per una più equilibrata pro-style offense, proprio per favorire una maggiore attenzione alle situazioni di passaggio.
Inoltre, come nel famigerato gioco delle tre carte, molti atleti che rivestivano un determinato ruolo, sono scomparsi dal radar della depth chart per poi ricomparirvi con incarichi diversi.
E’ il caso del quarterback Chris Coyer, regista adattato, ma da quest’anno ricondotto al più consono ruolo di halfback.
Rhule punterà invece sul junior quarterback Connor Reilly, che ha battuto la concorrenza del senior al quinto anno Clinton Granger, nonostante la maggior esperienza sulle spalle di quest’ultimo, probabilmente per il maggior tempo a disposizione per plasmare il gioco di Reilly.
Buffo il racconto dell’incontro tra il coach e il suo quarterback per annunciargli la lieta notizia.
Reilly ha infatti confessato: “Ero decisamente nervoso quando il coach ha detto che voleva parlarmi. Quando mi ha comunicato che sarei stato il quarterback titolare, ha semplicemente aggiunto: stai tranquillo, pensa solo a divertirti nel match di sabato prossimo”.
Il divertimento di Reilly sarà direttamente proporzionale alla capacità della linea offensiva di fargli passare serenamente il necessario periodo di adattamento.
Un bel banco di prova per il left tackle Cody Booth, addetto al controllo del lato cieco del quarterback, – quello da cui non è possibile accorgersi dell’arrivo dei difensori avversari – già avvezzo alla linea di scrimmage, ma alla differente posizione di tight end.
Sulla stessa linea si segnala anche il centro Kyle Friend, mentre Zach Hooks, Pete White e Jeff Whittingham completano il reparto.
Il valzer delle posizioni ha interessato anche il tight end titolare, Romond Deloatch, che ha subito una punizione piuttosto stravagante per un ritardo accusato sull’orario di allenamento: “costretto” a scendere in campo con la squadra difensiva come defensive end, è stato assolutamente devastante ed ha stuzzicato le fantasie del coaching staff per l’ennesimo position switch. Una circostanza che, mal che vada, ha fatto emergere l’estrema versatilità del sophomore, altrimenti trattasi di uno dei casi più fortunosi di sempre di emersione del talento.
Il runningback Kenny Harper, prossimo titolare del backfield, si troverà nella scomoda situazione di dover riempire scarpe molto grandi, discendendo nell’albero genealogico da fenomenali portatori di palla (Bernard Pierce e per ultimo Montel Harris), che hanno dato lustro al college della città dell’amore fraterno.
Nell’idea del nuovo corso, la retrocessione di qualche posizione dal 31° miglior attacco su corsa a livello nazionale è barattabile con un netto miglioramento rispetto all’orrida 120° posizione totale per yards lanciate.
Di questo nuovo, anelato, equilibrio si avvantaggeranno playmaker come il ricevitore Jalen Fitzpatrick, che sotto il precedente sistema di gioco decisamente poco pass friendly, in cui il wide receiver era praticamente paragonato ad un uomo di linea sottodimensionato, ha comunque mostrato lampi della sua classe, totalizzando 363 yards per 2 TD nel 2012, il doppio del secondo miglior WR (tanto per farvi capire…).
Il nuovo coaching staff ha fatto intendere che la musica cambierà e al nuovo DJ piace molto di più il rock, rispetto al lento del passato, e del nuovo ritmo beneficerà in primis Fitzpatrick, chiamato alla definitiva esplosione, ma anche i compagni di reparto John Christopher e Ryan Alderman.
Anche la difesa del defensive coordinator Phil Snow sarà impostata con la 4-3 che impera nella AAC.
Nella linea a 4 gli unici a poter scaldare i motori per l’esordio di sabato contro Notre Dame sono i defensive tackle Sean Daniels e Levi Brown, sulla carta il giocatore di maggior spessore tecnico dell’intero reparto difensivo, ma proveniente da un 2012 mediocre da soli 27 tackle, 3.5 di questi concretizzatisi con perdite per gli avversari e solo mezzo sack messo a segno.
I rimanenti 2 posti ai lati della linea difensiva saranno assegnati a coloro che dimostreranno la migliore propensione alla pressione sul quarterback avversario, parola di Matt Rhule.
Nel cuore della difesa, accanto alla promessa Tyler Matakevich, di stazione sul lato debole, Nate Smith al centro e Blaze Caponegro (che vince il premio come nome cazzuto dell’anno) sul lato forte.
Anthony Robey è uno dei cornerback migliori della conference e si prenderà carico del ricevitore avversario più pericoloso, mentre il suo compagno con più chances di guadagnarsi l’altra maglia di titolare nel ruolo, Zamel Jackson, non ha ancora ricevuto la conferma dal coaching staff a causa di troppi fastidi fisici sofferti durante le forche caudine del training camp. Ma dovrebbe comunque farcela ad aggiudicarsi la fiducia dell’ambiente.
Ancora nebulosa, a pochi giorni dal primo impegnativo scontro contro Notre Dame, la situazione tra le safety, dove un mazzo di 4 atleti si contendono il ruolo di starter.
In conclusione, la mano di Rhule potrà cominciare ad intravedersi solo dalla primavera del prossimo anno, quando si metterà in viaggio a caccia dei migliori prospetti della Pennsylvania e dintorni, circostanza in cui eccelleva già durante il regno di Al Golden, il quale, considerato l’esponenziale credibilità acquisita dal programma presso i liceali degli stati limitrofi, decise di lasciare pieni poteri al proprio collaboratore per quanto atteneva il recruiting.
Il calendario degli Owls presenta sinistre somiglianze con le montagne russe: partenza dal punto più alto con la finalista dello scorso National Championship, Notre Dame, successiva discesa con Houston, Fordham ed Idaho, prima di impennare con Louisville e Cincinnati per poi declinare, sempre più gentilmente, verso il punto d’arrivo.
L’obiettivo resta quello di evitare il voltastomaco una volta scesi dalla carrozza.
Laureato in giurisprudenza. Grande appassionato di football americano, segue con insistenza il mondo del college football da cui è rimasto stregato. @nicolo_bo su twitter.
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