L’altra sera ero alla ricerca di un protagonista per un articolo. Mi chiedevo: su cosa potrei scrivere il prossimo pezzo e su quale personaggio. In realtà, quello su cui volevo puntare le mie attenzioni non era propriamente un personaggio fisico, ma un ruolo, anzi forse il ruolo cui meno si riconosce merito a livello personale. Ho pensato: sarò vittima dell’insolito caldo che sta allietando questi ultimi giorni di ottobre, ma la leggera brezza autunnale che mi ha avvolto all’uscita da casa mi ha negato il piacere di rifugiarmi in una facile giustificazione.
Nella nostra tradizione sportiva è facile riconoscere quale sia la posizione di gioco che più ha affascinato l’immaginario collettivo per la sua differenza ontologica rispetto agli altri giocatori in campo: nel calcio, il portiere è ancorato romanticamente ad una porzione di terreno che non potrà mai abbandonare, se non per casi eccezionali e non prima di aver ricevuto il beneplacito dell’allenatore in panchina, un po’ come un comandante di una nave che, rimasto ultimo tra gli ultimi, abbandona il relitto ingoiato dai flutti marini (sì, vabbè, poi la cronaca recente ci dimostra anche, e soprattutto, il contrario).
D’altra parte non si può definire “minore” il ruolo del portiere, anzi: il fascino distaccato che diffonde quell’eterea figura che si erge solitaria, mentre il gioco si svolge nell’altra parte del campo, trova il suo immediato contrasto nella presenza assai marcata che un salvataggio miracoloso o un intervento maldestro dell’ultimo baluardo della difesa provoca sul risultato finale. Un ultimo appunto, decisivo: il portiere può utilizzare qualcosa in più rispetto agli altri contendenti nella sua area – in questo caso le mani -, il numero 1 è il re della sua area di rigore a cui il regolamento ha accordato un potere quasi assoluto nella giurisdizione di sua competenza.
Provo allora a riformulare il mio pensiero, passando al setaccio un ruolo nello sport che meglio possa rientrare nel mio infame identikit. E lo trovo.
Nella pallavolo moderna è stata istituita la figura del libero, giocatore di situazione, cui le regole non consentono la possibilità di attaccare, disinnescando la potenza del nome che la posizione in questione possiede. In effetti, il libero sembra perfetto per vestire i panni del protagonista di questo pezzo: partecipa ad un gioco in cui subentra esclusivamente in determinate situazioni e, per di più, con meno possibilità di manovra nell’azione rispetto ai propri compagni. Non male. Anzi malissimo, in realtà, però è naturale che non mi possa soffermare su un ruolo della pallavolo in un sito che tratta di sport americani, quindi avanti.
Fino ad imbattermi nell’obiettivo specifico della mia riflessione: gli uomini di linea offensiva nel football americano.
Gli uomini di linea offensiva possono essere agevolmente paragonati ad una diga: la diga è chiusa, gli avversari non si devono avvicinare al quarterback; la diga è aperta, si crea lo spazio per far scorrere l’impetuoso incedere del proprio runningback.
In televisione, per esempio, la telecamera indugia e seduce gli uomini di linea prima dell’inizio dell’azione: il centro è il fulcro dell’inquadratura, pronto a disfarsi del pallone al richiamo del proprio quarterback, ma fino a quel momento rimane l’indisturbato custode della palla ovale, pronto a separarsene con un addio nel momento in cui l’azione prenderà vita.
D’allora in poi gli uomini di linea si trasformano nei comprimari che sapevano di essere, ma nel quale non avevano il coraggio di riconoscersi: gli occhi del pubblico ora seguono ossessivamente solo i movimenti sincopati del quarterback, che soggiace ad un’inudibile melodia scaturita dal sassofono di Charlie Parker, mentre gli offensive linemen sono accolti nelle inquadrature solo se coloro che sono deputati a trattare la palla entrano nel loro raggio d’azione, quasi una gentile concessione a chi si sbatte per mantenerli lontani dalle fauci della difesa avversaria.
Additato al pubblico ludibrio sia l’uomo di linea che apre un pertugio verso il quarterback da difendere a tutti i costi, ordinario invece è lo sforzo di colui che immola sé stesso per i compagni nelle battaglie sulla linea di scrimmage, magari riportando uno dei soliti tremendi infortuni che colpiscono questi colossi dagli arti inferiori d’argilla; l’applauso degli spettatori sarà il massimo tributo al giocatore che, infermo, lascia la propria postazione al compagno, pedina differente ma ugualmente sacrificabile.
Non si provi neanche a pensare, del resto, di sbagliare un placcaggio per porre in uno stato di massimo pericolo il quarterback, il leader, il salvatore della patria, quello con il numero 10 o il numero 18 di cui i bambini anelano la maglia sognando un giorno di diventare come loro, non certo uno sconosciuto e – diciamolo – bruttino numero 67.
Per evitare di essere tacciato come il solito qualunquista, mi riservo di ricordare che i fuoriclasse distinguibili esistono anche tra i tackle o le guardie, tanto è vero che Jake Long ha avuto l’onore di essere scelto quale prima scelta assoluta nel draft del 2008, ed è uno dei tackle più stimati e un assiduo frequentatore del Pro Bowl. Come chiunque abbia avuto la possibilità di visionare filmati dei provini pre-draft si sarà accorto del tandem di tecnica e forza necessarie per svolgere un ruolo così difficile e determinante; nonostante ciò, tra addetti ai lavori e non, si predilige l’interesse per il progresso nella comprensione degli schemi di Cam Newton nel suo secondo anno di professionismo, ci si interroga se Joe Flacco sarà mai un top QB o addirittura se Matt Cassel riuscirà a raggiungere nuovamente i livelli di accuratezza di due anno fa, piuttosto di introdurre un dibattito sulla velocità dei passi iniziali di una guardia o della sincronia perfetta di un’intera linea offensiva, che comunque non entreranno mai nel vivo del gioco. Semplicemente perché sono meno spettacolari, che nell’epoca della televisione vuol dire tutto.
Ciò non significa che per amanti del football collegiale come me, dove ciò che hai scritto davanti (nome dell’ateneo) è più importante di ciò che hai scritto dietro (nome dell’atleta), un reparto che pone la sua forza nella sincronia del gruppo e non nella straordinaria qualità del singolo sia la migliore pubblicità che questo meraviglioso sport possa offrire.
Sempre attingendo dal football non professionistico, prendo in considerazione una delle (tante) pellicole che la cosiddetta settima arte ha sfornato negli ultimi anni su questa disciplina. Si tratta di Varsity Blues, non il migliore, né il peggior film sull’argomento, forse con la pecca visibile di voler adattare all’occhio dei teenager il piacevole racconto dell’indicibile passione con cui si vive il football nelle high school del Texas.
Come si potrà immaginare, si sprecano un paio di cliché per impreziosire la trama all’occhio del pubblico: la squadra protagonista, i West Canaan Coyotes, è alla finale statale; la stella del team, il quarterback titolare, si è infortunato, così il panchinaro di lungo corso può finalmente scalare il pendio che lo porterà ad una dolcissima rivincita; il tirannico head coach, pluripremiato ma temuto ed odiato per i metodi poco convenzionali con cui si rapporta ai suoi atleti, viene allontanato dalla sideline dagli studenti-giocatori per la seconda parte della partita per il titolo.
Si giunge così all’attimo decisivo della partita: ultima azione disponibile con pochissimi secondi sul cronometro e solo una meta può permettere alla West Canaan di aggiudicarsi il tanto agognato titolo. Così, chiusi nell’huddle, in una sorta di autogestione dopo l’allontanamento dell’head coach, quale scelta può sancire il sovvertimento definitivo tra guida tecnica che conduce e giocatore alfiere che concretizza le disposizioni che giungono dalla panchina? Solo facendo segnare colui che non può farlo, il tackle offensivo, Billy Bob. Lui cerca di schernirsi, Ma chi?, Ma io?, Non riuscirò mai a prendere quella palla!, ma la decisione è ormai presa.
Pertanto nella successiva e prevedibile corsa verso la end zone, Billy Bob (sul quale nutro dei forti dubbi in quanto probabile ricevitore illeggibile nell’azione decisiva, machissenefrega), improvvisato ed appesantito San Giorgio contro il drago, scatena nella sua corsa verso la vittoria la corsa di mille altri uomini di linea offensiva che corrono al suo fianco, verso una conclusione da protagonista, un carnevale, un autentico capovolgimento delle competenze sul campo, che mai più potrà avverarsi, come nelle migliori delle favole.
Laureato in giurisprudenza. Grande appassionato di football americano, segue con insistenza il mondo del college football da cui è rimasto stregato. @nicolo_bo su twitter.
(sul quale nutro dei forti dubbi in quanto probabile ricevitore illeggibile nell’azione decisiva, machissenefrega)
Se era schierato come ultimo giocatore in linea era eleggibile per posizione ma ineleggibile per numero, a meno che l’attacco non lo avesse dichiarato eleggibile prima dell’azione
Bell’articolo.