E’ difficile, dopo la tempesta abbattutasi su Penn State, trovare delle parole corrette per descrivere la figura di Joe Paterno, ma soprattutto è arduo mettersi giù a scrivere qualcosa di non troppo scontato, o che non sia già stato riportato dalla grande copertura mediatica che gli Stati Uniti hanno riservato allo scandalo di epiche proporzioni che ha posto pesantissime ombre sopra al campus di State College, un luogo che a vederlo sembra rimasto indietro nel tempo come il coach che per tanti hanno l’ha vissuto, un posto che proprio per il suo distacco dalla modernità pareva destinato a rimanere puro, sacro, illibato.
Ma il mondo è fatto in maniera differente. Tutti cerchiamo di fare del nostro meglio per sfruttare al meglio il tempo che ci viene concesso, ma la perfezione non esiste, seppure essa venga cercata in continuazione, nonostante non si smetta mai di credervi ben sapendo che non la si raggiungerà. Non qui.
Joe Paterno si è formalmente spento domenica scorsa, perdendo una battaglia contro il cancro ai polmoni che aveva contribuito a deteriorarne le forze, già sensibilmente venute a mancare a causa dell’età che avanzava sempre di più. In realtà, si era spento ben prima, quando un raro errore di giudizio nella circostanza che ha spazzato via la purezza di cui si parlava prima, ne aveva determinato il sollevamento da un incarico che per 61 anni era stato il suo pane quotidiano. Proprio lui, il leggendario JoePa, l’uomo che aveva dedicato la sua vita all’insegnamento del football, ma soprattutto all’inserimento dei giovani che giocavano per lui in una società sempre più difficile e spietata, ha visto irreparabilmente macchiato il suo eterno legame con Penn State per un fatto che lui non commise direttamente, ma sul quale le sue responsabilità di omissione sono destinate a gravare per sempre.
“I wish I could have done more.”
Chissà quante volte questa frase gli sarà passata attraverso il cervello, in quella che dev’essere stata una vera e propria tortura. Chissà se il senso di colpa per non aver denunicato e fermato il suo storico assistente, Jerry Sandurski, un molestatore di ragazzini che agiva indisturbato sotto le docce dell’impianto di football, lo ha divorato più del cancro che si è preso le sue ultime difese immunitarie. E chissà se un giorno, appesantito dal rivivere situazioni desiderando di aver agito diversamente, dal colpevolizzarsi per non aver fatto la cosa giusta al momento giusto, abbia mai deciso che era semplicemente ora di lasciarsi andare, perché di una vita senza football non ne avrebbe proprio voluto sapere, e perché sentiva che quell’episodio rappresentava un fallimento troppo grande, persino se accostato ad una vita condotta attraverso un comportamento morale vicino all’impeccabile.
Che fosse ostinato nel voler andare avanti ad allenare è risaputo, d’altro canto non è assolutamente facile per chi dirige decidere di silurare un allenatore con una reputazione già scritta nella leggenda da anni e con un tale legame con l’università, una cosa che oggi è più unica che rara. Lo sa bene Bobby Bowden, ex head coach di Florida State, proprio colui che pochi anni fa diede battaglia a Paterno nella corsa per diventare l’allenatore più vincente nella storia della Division-I, non riuscendo mai, se non temporaneamente, a sorpassarlo. Decisioni come quelle prese nei confronti di Bowden, un’istituzione del college football per quanto fatto con i Seminoles, creano ovvia impopolarità e sono destinate a spaccare in due, tra chi ritiene ingiusto e sleale un comportamento simile, e tra chi pensa che il provvedimento fosse semplicemente stato preso con troppo ritardo, ritenendo che una ventata d’aria fresca sia necessaria per costruire un nuovo ciclo vincente. L’aria che tirava a College Station, stava diventando molto simile già prima dello scandalo.
Paterno ha invece lasciato il college football nel peggiore dei modi.
In passato aveva già rischiato il licenziamento, ma per ben altri motivi, esclusivamente anagrafici. Aveva resistito alle pressioni esterne ed ai numerosi acciacchi fisici, gli stessi che l’avevano costretto a trascorrere gran parte delle ultime stagioni ad osservare le partite dei suoi Nittany Lions dall’alto, vista la chiara impossibilità di riuscire a reggersi con le proprie gambe. Quando gli avevano parlato di minestre riscaldate, alla fine di una deludente stagione 2004 (4-7), lui aveva combattuto per restare al suo posto e chi voleva licenziarlo non riuscì a perseguire il suo scopo, tanto alto era il rischio di una rivolta popolare. Paterno aveva ancora una volta ragione, perchè l’anno seguente rispose ai detrattori portando Penn State ad un record di 11-1, ma soprattutto ad un’epica vittoria proprio contro la Florida State di Bowden nell’Orange Bowl, l’ultimo risultato di grande prestigio che avrebbe ottenuto in una carriera che definire leggendaria potrebbe risultare persino riduttivo.
Joe Paterno ha vinto tantissimo nel college football, come nessun altro, ma aveva più volte chiesto di non essere ricordato come un semplice allenatore, indice della sua personalità.
Era partito dal nulla, proprio come tanti altri fecero nella difficile epoca in cui si trovò ad essere giovane, in un mondo reduce da due conflitti mondiali e dove tutto era lontano anni luce da come lo viviamo oggi, dove i cambiamenti sembrano arrivare in ogni secondo che trascorriamo. Come era doveroso all’epoca, ricopriva due ruoli da giocatore presso l’Università di Brown, allocata a Rhode Island, vicino alla natìa Brooklyn, giocava quarterback in attacco e cornerback in difesa. Era un football con meno protezioni, meno soldi che ci giravano attorno, meno scandali accademici, dove sudare e sopportare il dolore era molto più importante di quanto lo sia oggi. Era un football che per Paterno non è mai passato di moda, e che lui stesso non ha mai tentato di modificare quand’era ora di trasmetterlo alle migliaia di ragazzi che sono stati allenati durante la sua illustre carriera. Tutto ciò che ha vinto, l’ha ottenuto senza la benché minima rivoluzione di quei concetti basilari.
Si era laureato nel 1950, e finì per seguire un suo coach a Brown, Rip Engle, in un posto dove non voleva nemmeno andare, tanto diverso era dall’ambiente che lui conosceva a Brooklyn. A dire il vero suo padre avrebbe desiderato che Joe diventasse presidente degli Stati Uniti, perché credeva che avesse le capacità intellettive per riuscirvi. Probabilmente non si sbagliava, ma Joe scelse un’altra strada pur non desiderando particolarmente di iniziare una carriera da allenatore.
Digerito l’impatto con la piccola College Station, divenne assistente a Penn State sotto le direttive di Engle, che era stato nominato head coach, ruolo che mantenne fino alla stagione 1966. Paterno, dopo aver rifiutato una ricca offerta di Al Davis per diventare coach e general manager dei Raiders nel 1963, prese il ruolo di capo allenatore nel 1967, mantenendolo fino al momento del suo infausto licenziamento. 42 anni da head coach, 61 se considerate le stagioni da assistente. Avrebbe rifiutato la National Football League in altre due occasioni, tralasciando l’offerta dei Rooney per allenare gli Steelers – che poi scelsero Chuck Noll – e dicendo di no ai Patriots in ben due occasioni. Avere lo stipendio triplicato gli interessava sicuramente meno che non preparare i suoi ragazzi per affrontare il futuro, qualunque professione decidessero di intraprendere.
Quello che realizzò nei decenni che seguirono è noto praticamente a tutti: due titoli nazionali, ottenuti vincendo il Sugar Bowl contro Georgia nel 1982 ed il Fiesta Bowl contro Miami nel 1987, cinque stagioni senza sconfitte, ed il recentissimo ottenimento della vittoria numero 409, che gli consentì, poco prima che scppiasse lo scandalo Sandursky, di superare nientemeno che il leggendario Bear Bryant, storico coach di Alabama. Ed anche in quel caso Paterno riuscì a minimizzare quanto gli era accaduto, perchè “sono riuscito a vincere 409 partite non certo perchè sono più bravo degli altri, le ho vinte perchè il Signore mi ha tenuto in salute per tutti questi anni permettendomi di allenare più di altri.”
Tuttavia, questi sono traguardi che conoscono tutti, e rappresentano risultati che JoePa considerava di secondo piano rispetto a quella che lui riteneva essere la sua attività di responsabilità primaria: l’educazione. La sua semplicità nel vincere partite di football era davvero paragonabile al suo modo di intendere la vita. Ha ottenuto ciò che ha ottenuto basandosi sui concetti basilari del football, difesa dura e corsa, i quali si traducevano perfettamente nel suo comportamento, che non lo ha mai visto chiedere un singolo aumento di stipendio nonostante quanto raggiunto a livello di risultati, e che lo aveva visto vivere sempre nella stessa abitazione di un tempo, ben lontano dalle esagerazioni del mondo di oggi. Ci teneva a sottolineare il fatto che Penn State potesse vantare ogni anno percentuali di ragazzi laureati molto elevate, fatto che lo faceva restare tranquillo rispetto alla sua missione primaria, che è sempre stata quella di preparare delle persone giovani ed inesperte ad affrontare il mondo di fuori, aiutandoli a diventare degli adulti dotati di grande moralità e senso di responsabilità. Non è stato solo l’artefice dell’enorme crescita di Penn State, perfetta sconosciuta prima del suo arrivo, nella mappa del college football che conta, perchè sarà ricordato anche per i milioni di dollari che lui e la moglie Sue hanno donato all’ateneo per ampliare le strutture e realizzarne di nuove.
Le stesse strutture all’interno delle quali si consumavano le tragedie che lui stesso ha deciso a suo tempo di non approfondire, di non denunciare, solo per mantenere un senso di lealtà verso la propria università evitando di metterla sotto una cattiva luce davanti agli occhi della nazione, cercando di lavare i panni sporchi in casa, ignaro del fatto che prima o poi sarebbe venuto tutto a galla ritorcendoglisi contro tanto da divorarlo più della malattia che se l’è portato via, tanto da macchiarne il legame indissolubile ed indiscutibile che lui e Penn State manterranno per sempre.
Sarebbe stato bello vederlo uscire di scena in modo trionfale e celebrativo, festeggiato e adulato da uno stadio moltiplicatosi negli anni – il Beaver Stadium era molto più modesto di come lo si vede oggi – applaudito per quanto fatto in campo sportivo ed umano. Chissà se nella sua modestia, da non scambiare con mancanza di autorità, aveva mai rivolto un pensiero al giorno in cui avrebbe detto basta, salutando i suoi ragazzi, gli ex alunni, i fans, in un omaggio che si sarebbe senza alcun dubbio meritato. O magari non ci ha mai riflettuto, perchè semplicemente non desiderava fare altro che allenare educando, ed avrebbe continuato fino a che le forze l’avrebbero sorretto in piedi, o seduto lontano dalla sideline, infischiandosene come sempre dei riconoscimenti personali.
Proprio per questo sono state emblematiche le esibizioni di affetto che tantissima gente gli ha riconosciuto, le tante belle parole che sono uscite da colleghi, giocatori, ex alunni, e genericamente dalle persone che con lui hanno vissuto e lavorato. Joe Paterno l’insegnante di vita è rimasto in piedi con la sua dignità anche davanti allo scandalo, omaggiato da veglie organizzate da chi aveva deciso di supportarlo anche dopo lo scoppio del caso Sandursky, ricordato e venerato da chi si rifiuta di anteporre quella mancata denuncia a tutte le opere di bene con le quali ha contribuito in quel di College Station.
Le macchie ci sono, resteranno e nessuno potrà purtroppo cancellarle, vista la gravità con cui le vite di quei ragazzini sono state per sempre plagiate dagli atteggiamenti incontrollati di un maniaco.
Ma quello che resta oltre a ciò, ed è destinato a durare in eterno, sono quegli occhiali, quella pettinatura ancora colma di capelli ad 85 anni suonati, quel giubbotto di una tonalità di blu uguale a quella delle casacche vestite dai suoi ragazzi, una di quelle uniformi che, unite al casco completamente bianco, ti dà l’idea di quanta storia abbia alle spalle il college football, e funge da ideale ponte tra i tempi che furono e quelli che sono, restando immutato ed immutabile.
Così come rimarrà nel cuore di tanti quell’atteggiamento che tanto ricordava il suo cognome, tenuto nei confronti di chissà quanti giovani, toccati dall’esperienza unica di averlo potuto conoscere da vicino.
Ed è proprio così che desideriamo ricordarci di lui.
Riposi in pace.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.
bell’articolo..
davvero un bell’articolo..complimenti….
bell articolo R.I.P JoePaterno un grande uomo
gran pezzo dave.
anche per me, fan italiano del football joe paterno era un mito.
e se penso a quanto sono rimasto incredulo io quando è emerso lo scandalo di penn state ho la misura di quello che devono avere provato negli usa e che tu ben descrivi.
peccato se ne sia andato in questo modo.
meritava di farlo diversamente anche perchè queste ombre lo accompagneranno comunque per sempre.