Hemingway l’avrebbe chiamata “moveable feast”. E questo party è durato, finché ha potuto. Poi bicchieri di vetro rotti, coperte e tende all’aperto e tutti insieme a piangere guardando l’alba abbracciati. E’ finita.
Doveva accadere in fondo, no? Li abbiamo conosciuti così, un po’ per caso, mentre volavano spensierati sopra i ferri di Philadelphia. Li abbiamo amati come si riescono i bambini ad amare quelle fiabe immaginifiche. Ci hanno portati, mentre Sherwood Brown faceva da Cicerone, verso il Paese delle Meraviglie. Senza che nemmeno ce ne rendessimo conto si sono trasformati in fantastiche Cinderellas.
Solo che la zucca prima o poi arriva a prenderti, anche perché le cugine della Florida si erano decisamente rotte le scatole di questi lavapavimenti diventati improvvisamente i favoriti del Reame. Impietose le arpie della megera Donovan si sono presentate nel più grande teatro dello sport esistente al mondo (certo, non ha la storia del Maracana o del Madison Square Garden ma le dimensioni contano) e le hanno trascinate fuori dal ballo della Madness con violenza, cattiveria e noncuranza.
Tornati tra la polvere e la sabbia del loro dormitorio vista spiaggia?
Non proprio, perché le storie belle tendono a non essere dimenticate. Abbiamo ispezionato ogni singolo dettaglio di questa pazzesca storia e dei suoi personaggi. Avremo sempre a disposizione i materiali per rivivere questa avventura, oggi, noi del 2013. Se ci verrà voglia da sbronzi in qualche discoteca oppure al matrimonio di qualche fanatico amico potremo chiedere al signor DJ di droppare il beat rap della Dunk City, e giù a scatenarsi come pazzi.
Un viaggio alla Luna e ritorno. Ma qualche detrito questi ragazzi se lo sono lasciati dietro e chissà se non possa essere l’inizio di un progetto concreto e non solo la classica malinconica cometa di Halley.
Una cosa è sicuro. Hanno messo Fort Myers sulle mappe.
La più classica delle ambizioni delle provincie americane.
“Dunk City” non è più una città fantasma.
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE UN PLAY: UN RACCONTO DI ELIJAH. [“BILL MANGIAGLI IL CUORE”]
#4 MICHIGAN WOLVERINES – #1 KANSAS JAYHAWKS 87-85
Per ciò che vedete tra parentesi quadre rivolgersi al Bro (@TheBro84). Una notte di delirio su Twitter, una escalation di eventi che hanno infine portato a questa esclamazione a metà tra insanity e genialità del nostro esperto NCAA preferito.
Ci ho riso mezz’ora. Su quello e altri tweet.Il sopracitato Bill (Self), coach dei Jayhawks ha sicuramente riso di meno.
A 2:27 dalla fine del secondo tempo i suoi guidavano con un distacco di 10 punti. E poi? Il blackout.
Negli ultimi 4 minuti scarsi una cabala biblica si è abbattuta sul profeta Elijah che ha giocato esattamente come un playmaker non dovrebbe fare. Totale mancanza di nervi saldi sul finale, rischi in palleggio, passaggi sconsiderati. Violazione dei 10 secondi. Che se non lo vedete non ci credete. 4 palle perse che odoravano di sangue, su cui gli artigli di Michigan si sono avventati implacabili.
Agli antipodi della gara e della filosofia di gioco troviamo Trey Burke (a mio parere, Giocatore dell’Anno e non da questa sera). In accordo con i precetti “mambici” del Big time players make big time plays lo incontriamo a fine primo tempo, sul tabellino. Scoreless. 0 su 4.
E lo incrociamo di nuovo negli spogliatoi con una bottiglia di champagne tra le mani. 23, ci dicono poi.
Nella run di 14-4 a chiudere la partita Trey ne ha messi 8. Tra cui una tripla per pareggiare che diventa il tiro del torneo con una facilità imbarazzante. Palleggia, si alza, tira. Ben dietro la linea da 3, quella dei pro della NBA intendo. Senza contare che una decina di secondi prima era andato dentro per segnare due. Un altro minuti guardando indietro e ci troviamo un altra tripla.
Un bel flash-forward e gli highlights son sempre quelli. Trey che la domina sotto ogni aspetto.
Sarebbe riduttivo però restringersi così tanto il campo visivo. Ok, il talento è il talento ma in un torneo NCAA non c’è solo questo. Mitch McGary, ad esempio. Figlio di un operaio di acciaieria nell’Indiana, non sarà un poeta del parquet ma ha mazzolato i Jayhawks con 25 punti e 14 rimbalzi. Ha condizionato l’andamento del match con quel lavoro all’oscuro, lontano dalla telecamere.. dove si fatica e si mettono su quei muscoli che significano sacrificio e hard work. Fiero del padre e delle sue origini si giocherà l’accesso alle Final Four proprio nella stessa università in cui una ventina di anni fa si è visto il più grosso accumulo di talento della storia collegiale, i Fab Four. Decisamente un caso, eppure quanto sarebbe servito un McGary a quella squadra di palati fini e prime donne che non riuscì a vincere nulla.
Ben McLemore si era pure risvegliato dal torpore di questo Marzo pazzerello. Probabilmente andrà prima scelta, ieri ha segnato 20 punti ma è scomparso quando contava. Non mi sento di affibbiargli la colpa, la di cui redenzione prevede un pellegrinaggio di Johnson con tappe Santiago-Lourdes-Roma in ginocchio. Il quintetto della seed #1 è stato solido, la prestazione ottima se escludiamo gli ultimi 10 minuti di gara.
Kansas era la mia favorita per il titolo e cade, lasciando Louisville sola a tenere alto l’onore delle prime della classe.
E non dovrei dirvelo, cari appassionati.. ma lo faccio. Nonostante io sia un tifoso Spartan, Izzoman convinto, i cugini di Michigan mi garbano. Dovrò fare enorme fatica a fingere disappunto se tagliassero la retina.
IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI: ARLINGTON E IL RITORNO PREPOTENTE DEI RE DELLA FLORIDA
#3 FLORIDA GATORS – #15 FLORIDA GULF COAST EAGLES 62-50
Sedili vuoti nella cupola Universale del Cowboys Stadium che amplifica un rumore terribilmente assente. Lacrime, dolore, rassegnazione e il particolare pungente odore tipico della magia sportiva che si disperde per sempre nell’aria.
E ancora una volta non sembrava così. Sulle prime battute abbiamo visto soliti esotici Aladino che sui loro tappeti volanti fanno a gara a chi schianta il canestro per primo.
L’ormai distintivo “parzialino” degli Eagles apre la gara. 15-4. Come cavalli scatenati che scattano dai blocchi.. se c’erano dubbi sul fatto che potessero accusare la tensione sono stati subito dissipati. Ce la possono fare ancora? La quasi totalità dello stadio non aspetta altro.
La differenza tra le precedenti vittime designate e i Gators è stata principalmente una. Non dare ritmo a FGCU. Soffocare il gioco, portare pressione tutto campo, negare ogni passaggio facile e sopratutto impedire ai contropiedisti degli Eagles di partire. Contro G’town e SDSU sono stati proprio i proverbiali alley-oop a dare carica alla squadra, creando ritmo e fluidità nella metacampo offensiva. Non si è trattato nemmeno di percentuali (Gulf Coast 46% contro un miserrimo 38% dei Gators) la chiave è stata cancellare le opportunità di tiro agli avversari. 20 quelli messi a segno, esattamente come il numero di palle perse generate dalla full-court press. Non è stata una bella partita perché una squadra ha giocato con il bavaglio mentre l’altra era totalmente impegnata a tenerglielo bello stretto.
Ha vinto la solidità, l’esperienza di un programma che viene da un lustro abbondante di successi.
Donovan, camaleontico come sempre, ha saputo fare adattamenti per accontentarsi di una ugly win, stile Bo Ryan. La posta in gioco in fondo era troppo alta per rischiare una folle corrida al punteggio alto proprio contro i cugini che sembrano staffettisti.
L’unsung hero, l’Eagles strangler che non ti aspetti è stato Michael Frazier. Le sue due triple hanno aperto quella ferita necessaria ad ammazzare la partita. Una emorragia insanabile che non sarà mai ricucita da FGCU.
Dicevo Il Silenzio degli Innocenti appunto, che calza a pennello, come paragone. Alla fine ci sono parsi agnellini indifesi che belavano nel tetro “palazzetto” di Arlington. E forse lo sono sempre stati. Coach Einfeld però non vuole stare zitto. E’ vero, la favola è finita senza gesta eroiche.. ma questi ragazzi hanno avuto la loro settimana da leoni, potete starne sicuri.
E così sarà Michigan-Florida. Un match di Elite 8 più enigmatico delle metafore di Bersani. Riusciranno i Gators a contenere la stella di Burke. L’ultimo capitolo della rocambolesca South Region sta per essere scritto.
Davide Casadei
Twitter: @Pone92
Studente cesenate, adepto del gioco da campetto. Ho scoperto il basket tardi e non ho rimediato all’autolesionismo innamorandomi a prima vista di Brandon Roy e dei Blazers. Credo nel Rasheedesmo come unica religione e in Buffa come maestro di vita. Passione sfrenata per la March Madness, che mi toglie ore di sonno e di vita ma mi dona l’essenza vera di questo sport. Izzoboy per fulminazione.