Gli Hawks sportivamente parlando hanno una rivalità piuttosto sentita con la Temple University, dove Ramone Moore emerge nell’interessante trio di guardie.

Non è sicuramente il più dotato di talento dei tre, e anche da un punto di vista soggettivo personalmente gli preferisco Juan Fernandez, ma si distingue particolarmente per solidità e al tempo stesso credo sia un fattore troppo sottovalutato nell’ambito delle valutazioni sugli Owls.

Il suo principale marchio di fabbrica è il gioco offensivo, con il quale sta garantendo quasi 18 punti a partita: è basato su movimenti in avvicinamento a canestro, uso della linea di fondo, mid-range game e buon uso del post contro avversari per forza meno abituati a difendere in quelle situazioni; il buon trattamento di palla gli permette di entrare agevolmente in area dove poi, usando un buon repertorio di moves e uso del piede perno, riesce facilmente a creare spazio tra lui e il difensore per poi segnare con anche una notevole abilità nell’assorbire i contatti. Un gioco molto più fisico che atletico, ma che a questi livelli trova facile successo.

La sua efficacia diminuisce con l’allontanarsi dal ferro dal momento che il jumper è migliorato esponenzialmente -anche da tre- ma non è ancora sufficientemente costante e sicuro, anche se a dirla tutta la meccanica di tiro non è affatto da buttare; tuttavia il giocatore ne sembra consapevole e limita, a volte anche in modo eccessivo, le soluzioni personali di questo tipo.

Del backcourt titolare è probabilmente anche il miglior difensore sull’uomo: non ha le mani veloci di Khalif Wyatt, ma sa stare benissimo con il suo diretto avversario tenendo bene i cambi di direzione, e all’occorrenza disimpegnarsi bene anche sui lunghi avversari grazie sempre a buona voglia e predisposizione a usare il fisico. Da rifinire lontano dalla palla, dove ha ancora qualche passaggio a vuoto di troppo.

Assai meno competitiva della A10 è la conference del nostro prossimo prospetto, che mi spingo a definire tra i più sottovalutati fattori in tutto il panorama collegiale; sto parlando di Ken Horton, versatile ala piccola di Central Connecticut State, quasi sicuramente avviato a vincere il secondo titolo consecutivo di “Northeast Conference Basketball Player of the Year”.

La prima cosa che balza all’occhio è il fisico, già ben costruito e con due prolunghe che gli escono dalle spalle, conferendogli un wingspan terrificante; a questo aggiunge un buon atletismo, che non sembra essere stato ridimensionato dall’infortunio all’anca che lo ha tenuto fuori per tutta la stagione 2009-10.

Quella che forse è la sua prerogativa migliore è l’abilità difensiva: una combinazione di stazza, intelligenza e velocità di piedi che lo rende adattissimo nel difendere sugli esterni, con qualche problema in più se si ritrova in post a marcare lunghi particolarmente grossi (situazione relativamente frequente, tenendo conto che gioca da “4” nel quintetto dei Blue Devils). In più ovviamente risulta a tratti illegale nel contestare tiri, stoppare e rubare palloni -specie sulle linee di passaggio-, grazie al già citato QI unito a delle velocissime mani poste alla fine delle chilometriche braccia che si ritrova; ad esempio contro Michigan State a un certo punto ha perso e recuperato il pallone due volte di fila a metà campo, andando a eseguire un paio di intercetti da manuale sull’immediato passaggio avversario.

Può risultare strano che si parli prioritariamente di lui come un ottimo difensore, visti i quasi venti punti a partita che in questo momento lo collocano tra i migliori venti realizzatori della Division I. Eppure questi punti arrivano tutti pur con una pressoché nulla capacità di crearsi una conclusione: ha un bel tiro tanto dalla media quanto da tre punti, sa anche segnare in avvicinamento o dal post, dove agisce spesso per via della collocazione in campo che tiene; ma ha sempre bisogno di essere messo in ritmo per poter segnare con continuità (e la cosa non è semplice come potrebbe sembrare, essendo lui stesso anche il miglior passatore della squadra).

Prima di cominciare a spostarci verso Ovest, concludiamo la nostra salita all’ultima fermata prima del Canada: siamo alla Maine University, college di forte stampo internazionale dove si segnala in particolare Alasdair Fraser, undersized power forward scozzese.

“Lungo” di poco più di due metri e con un atletismo sotto standard, a tratti sembra possedere un atteggiamento un po’ letargico ma sopperisce invece a questi limiti con un gioco piuttosto fisico, che comunque manca di qualche chilo di muscoli per poter essere trasportato con successo a livelli più alti di quelli della America East Conference.

Da qui hanno origine i suoi problemi di origine difensiva, perché se è vero che non si può dirgli niente in quanto ad attitudine e lettura delle situazioni, d’altra parte soffre naturalmente contro lunghi più grossi ed atletici; inoltre, pur essendo migliorato, fatica sempre troppo a contenere giocatori più piccoli e veloci a causa di una mobilità laterale che continua a richiedere parecchio lavoro. Dimostra invece un sorprendente fiuto per la stoppata, riuscendo a oscurare la via anche a giocatori più dotati dal punto di vista fisico-atletico praticamente senza saltare da terra; e ancora meglio sopperisce a rimbalzo, grazie a senso della posizione e buona esecuzione del taglia-fuori, pur se anche qui non del tutto agevolmente.

Ciò che lo rende veramente interessante è il suo solidissimo gioco in post basso, che utilizza intelligentemente con grande varietà di soluzioni, tanto verso il fondo quanto verso il centro dell’area; a questo va aggiunto un continuo miglioramento nel jumper dalla media distanza, ormai affidabile, anche se mostra evidenti difficoltà nel mettere palla a terra fronte a canestro.

A neanche vent’anni e solamente nel suo anno da sophomore, ha ancora ampi margini di miglioramento che dovrebbe saper sfruttare a dovere vista la reputazione di ragazzo intelligente e con grande etica lavorativa, e probabilmente tornerà utile anche per la nazionale britannica che ha già rappresentato a livello giovanile.

Come anticipato, ci spostiamo in profondità nell’entroterra e in particolare nell’Indiana, alla Valparaiso University situata nell’omonima città; siamo nella Horizon League, la conference di cui fa parte la Butler reduce da due finali NCAA consecutive, e il livello di competitività è piuttosto buono.

A Valpo hanno perso inaspettatamente il loro leader, Brandon Wood, che ha scelto di concludere la carriera collegiale a Michigan State, e il ruolo in questione è stato preso per forza di cose dalla small forward australiana Ryan Broekhoff.

E’ piuttosto evidente come non sia nelle sue corde: non è un giocatore capace di trascinare una squadra in attacco, nasce e si sviluppa come seconda/terza opzione in un quintetto in cui possa far valere le sue grandi qualità di all-around e tiratore; con l’addio di Wood si è passati paradossalmente da un estremo all’altro sul lato offensivo del campo, cioè dal trascurarlo troppo al chiedergli troppo.

Eppure è appunto clamorosamente completo e affidabile: gioca praticamente tre ruoli e altrettanti ne difende, grazie anche alla velocità di piedi che lo aiuta nel contenere giocatori più piccoli; inoltre è un gran passatore, con tempi e visione appropriati e dimostrando voglia di cercare costantemente i compagni, e ha anche senso della posizione e una buona propensione all’hustle.

In attacco si dimostra tanto slasher efficace quanto soprattutto ottimo tiratore sugli scarichi, anche da distanza notevole o con l’uomo addosso; proprio le accresciute responsabilità offensive ne stanno limitando le percentuali in questa stagione, ma l’anno scorso a un certo punto viaggiava con un ottimo 50% dalla lunga (prima di sporcarlo nelle ultimissime partite), il tutto con alcune prestazioni veramente incredibili.

Azzardandomi a fare una comparison, mi ha ricordato spesso il connazionale Joe Ingles del Barcellona quando ancora era agli inizi, pur se meno talentuoso e più “operaio”; e dal livello del paragone si può facilmente capire come sia fermamente convinto che possa costruirsi una buona carriera professionistica, nonostante la poca considerazione generale.

Il prossimo stop non è esattamente nel primo posto a cui pensate in riferimento al college basketball: Brookings, South Dakota. Qui, a South Dakota State, è emerso con prepotenza quello che è in tutta probabilità il giocatore universalmente meglio conosciuto di quelli qui presentati, motivo per cui sono stato tentato di non inserirlo affatto in questo articolo che vuole avere una connotazione fortemente personale in quanto a scelta dei nomi da proporre.

Si tratta di Nate Wolters, big point guard molto intrigante che ha già addirittura strappato accostamenti alla NBA. Si potrebbe addirittura arrivare a definirlo “big playmaker” in questi tempi dove il termine è spesso abusato, anche se può sembrare strano vedere un play da ventuno punti a partita (entrando quindi a pieno diritto nella top10 collegiale).

Perché Wolters è anche nettamente il miglior realizzatore per i Jackrabbits, e questo lo porta ad avere sempre la palla in mano e la squadra sulle spalle (in un team dove forse il solo Jordan Dykstra emerge come qualcosa di più di un semplice mestierante); ma nonostante tutto la mentalità è spesso pass-first, la visione di gioco di alto livello e la capacità di mettere in ritmo i modesti compagni indubbia. Il tutto su centonovanta centimetri molto abbondanti e con ball-handing forse addirittura inimmaginabile in un bianco del Minnesota con un baricentro relativamente alto.

Il suo problema principale risiede nell’atletismo sotto standard, ma stupisce ugualmente per dei clamorosi cambi di velocità in tempi e spazi ristrettissimi che lo portano facilmente a battere il proprio marcatore ed entrare in area per concludere, scaricare al compagno o subire il fallo (è ai vertici delle statistiche anche per media di viaggi in lunetta); proprio su questo basa la maggior parte del suo gioco offensivo, pur avendo anche un tiro fluido ed efficace tanto dal palleggio quanto sugli scarichi, sulla cui valutazione non deve trarre in inganno la modestissima percentuale da tre punti (siamo su un orrendo 25%) che deriva principalmente dal suo ruolo in un contesto di squadra tanto povero.

Per i già accennati limiti atletici paga spesso qualcosa in difesa, ma mani veloci e perfetto controllo del corpo gli restituiscono almeno parte dei punti che perde su questo lato del campo. Quest’anno South Dakota State pare in prima linea per conquistare il titolo della Summit League, forse ancora dietro a quella Oral Roberts da cui ha perso nel primo scontro diretto ma a cui è riuscita in seguito a infliggere la prima sconfitta nella conference; i traguardi raggiunti sono comunque per la maggior parte dovuti a Nate, che da un eventuale giro al torneo NCAA potrebbe trarre grande giovamento in termini di esposizione personale.

L’ambientazione cambia repentinamente, passando dalla relativa vicinanza con il confine canadese alle coste californiane, dove risiedono gli ultimi tre dei giocatori presi in esame.

Partiamo da Sud, con una tappa a San Diego State. Domanda: come fa una squadra che perde 4/5 del quintetto base, tra cui gente del calibro di Kawhi Leonard e Malcolm Thomas (entrambi in NBA, agli Spurs, nel momento in cui scrivo), ad entrare inaspettatamente in avvio di stagione nel ranking nazionale, dove tuttora soggiorna? La risposta ha la forte influenza del nome di Chase Tapley, quel 1/5 mancante qui sopra.

Perché se è vero che virtualmente ogni componente del roster, chiamato a un apporto più rilevante, ha alzato il proprio livello di gioco; se è vero che i nuovi arrivati si sono integrati alla perfezione in tempi ristretti; se è vero che gran parte del merito va comunque a un grande coach come Steve Fisher; è anche vero che gli Aztecs non possono prescindere dalla strabiliante produzione offensiva di questo silenzioso realizzatore.

Sotto l’aspetto tecnico non ha caratteristiche fuori dal comune: è la classica guardia sottodimensionata, con atletismo nella media se non addirittura insufficiente. E’ sì un bellissimo tiratore, capace di scoccare una conclusione in qualsiasi situazione lo si richieda e particolarmente letale da dietro la linea dei tre punti; ma ciò che lo rende particolare è la capacità di forzare pochissimo se non niente del tutto, aspettando che la partita venga da lui e riuscendo comunque ad essere il miglior realizzatore della squadra.

Inoltre non si raffredda praticamente mai, è capace di passare azioni intere senza vedere palla (generalmente confinato in angolo), andare in panchina, rientrare e segnare un tiro importante con la massima naturalezza. Tutto questo lo porta a tirare con percentuali che risultano spesso allucinanti, specie alla luce della tipologia di tiri che si prende in prevalenza.

Sul fronte della circolazione di palla non ha una buona visione di gioco, ma altruismo e propensione a servire il compagno smarcato lo portano a essere anche un facilitatore in attacco, per quanto probabilmente mai nella vita sarà una point guard. E non è affatto male neanche in difesa, piuttosto veloce di piedi e adatto a inseguire gli avversari sui blocchi così come a raddoppiare e rientrare velocemente sul suo uomo.

Dopo quanto scritto qui sopra, Tapley ha ovviamente sentito il bisogno di smentirmi almeno in parte, tirando fuori una prestazione da 3/17 dal campo contro Colorado State: brutta caduta, ma partita che non a caso gli Aztecs hanno perso in malo modo; in conclusione, per quanto sul piano del gioco non sia uno che emerge particolarmente nel roster di San Diego State, credo abbia gran merito nel segreto di questa squadra che è attualmente seed numero 14 del ranking nazionale, dopo essere arrivata ad essere la numero 12, superando così la più quotata UNLV (che ha anche già sconfitto nel primo scontro diretto della conference).

Da San Diego alla Los Angeles County, più precisamente a Long Beach State; i più attenti alla scena sportiva collegiale immagineranno già di leggere il nome di Casper Ware, che in effetti è nettamente il giocatore migliore di questa pericolosissima mid-major. Ma il piccoletto in questa stagione sta giocando leggermente sotto le aspettative, e inoltre ha già un hype un po’ troppo consolidato per i miei intenti dichiarati.

Da qui la preferenza per il compagno di backcourt Larry Anderson, forse non meno importante per la squadra e ad oggi con un rendimento migliore, ma costantemente troppo ignorato. E’ innanzitutto il migliore difensore della squadra, perché anche Ware è un mastino ma paga spesso in fatto di centimetri: Anderson invece ha un altezza appropriata per una guardia, cosa che non gli preclude niente in fatto di velocità di piedi. Riesce così a stare sempre sul proprio uomo (che generalmente è l’esterno avversario più pericoloso), senza farsi battere sul primo passo e in particolare con gran capacità nel non concedergli di crearsi lo spazio giusto per il tiro.

Sul lato offensivo del campo nasce come giocatore  molto grezzo, e pur se in questi quattro anni collegiali è riuscito a migliorare esponenzialmente rimane comunque la necessità di ulteriori importanti progressi: riempie bene le corsie in contropiede e ha un buon trattamento di palla, ma tende troppo spesso ad andare a sinistra, fatica molto a crearsi una conclusione e ha un tiro stilisticamente orribile, lento e scoccato con scarsissimo uso delle gambe. Eppure proprio il tiro dalla lunga distanza è sorprendentemente efficace in questa sua bruttezza, e Larry per ora viaggia sul 45%, avvicinandosi inoltre a segnare più triple quest’anno che nei suoi primi tre con i 49ers.

E’ però apprezzabile che il giocatore conosca i propri limiti, conscio del suo passato in materia realizzativa: dimostra una buona propensione al coinvolgimento dei compagni, è attento agli scarichi in ogni momento (a tratti in modo eccessivo) e tende a evitare di prendersi tiri che non sono nelle sue corde, a costo di passare azioni intere a muoversi semplicemente lungo la linea di fondo o ad aspettare sul lato debole; si propone insomma come perfetta spalla del più illustre compagno, senza minimamente intaccarne il ruolo all’interno della squadra.

Come accennato, Long Beach State è una delle mid-major più pericolose in circolazione, uscita tra l’altro benissimo da un calendario extra-conference che è stato tra i più duri in assoluto nell’intera Division I; sono due anni di fila che perde la finale della Big West (e conseguentemente il posto al torneo NCAA) per mano di Orlando Johnson e della sua UC Santa Barbara, ma quest’anno i 49ers sono chiaramente molto più forti di qualunque altra squadra della conference e in condizioni normali il titolo possono solo perderlo loro.

Concludiamo itinerario e articolo nelle vicinanze di Oakland, al Saint Mary’s College. In fatto di basket ormai una garanzia, nella squadra quest’anno si sta distinguendo particolarmente la combo-forward Rob Jones, un’ottima presa arrivata da San Diego University via transfer (metodo con cui i Gaels sembrano pescare bene: per l’anno prossimo è atteso Matt Hodgson da Southern Utah, tanti centimetri che andranno a rimpolpare il reparto lunghi e la consistente comunità australiana).

Se infatti non è lui il giocatore migliore dei Gaels o quello che soggettivamente preferisco (per entrambe le categorie rivolgersi all’aussie Matthew Dellavedova, rimasto mio malgrado fuori dall’articolo), è sicuramente quello il cui impatto sta risultando più decisivo in questa stagione, sfociata nella comparsa nel ranking nazionale a scapito di una Gonzaga asfaltata nel primo scontro diretto.

Prodotto locale, che infatti ha scelto il transfer per stare più vicino al padre malato, nasce come ala grande molto undersized (supera a fatica i due metri) e dal gioco prevalentemente interno, ma a Saint Mary’s è riuscito in una soddisfacente evoluzione perimetrale: ora gioca di fatto entrambi i ruoli di ala nonostante sia nominalmente il “4” in campo, e agisce sensibilmente lontano da canestro, preferendo fronteggiarlo.

Fisicamente è un toro, come detto con pochi centimetri ma estremamente massiccio: è quasi 110 Kg su poco più di due metri, avendo più l’aspetto del giocatore di football (sport che d’altra parte ha praticato al liceo) che di quello di basket. Questo gli permette di battagliare agevolmente a rimbalzo contro giocatori ben più alti di lui: è infatti tra i migliori rimbalzisti della nazione, e non patisce l’allontanamento da canestro per via del perfetto tempismo e della propensione a buttarsi in area in seguito alle conclusioni altrui.

Offensivamente è impressionante per trattamento di palla e velocità di piedi: è rarissimo vedere uno della sua stazza mettere palla a terra come una guardia, entrare in area in palleggio magari effettuando uno spin move e segnare un jumper con meccanica abbastanza pulita e veloce, a volte anche con l’uomo addosso; è infatti con il jumper che mette a referto la maggior parte dei suoi punti, generalmente su scarico dei compagni nonostante dimostri di saperselo creare da solo: il suo range si estende fin dietro la linea dei tre punti, e anche qui stupisce per la capacità di andare su per il tiro in tempi ristrettissimi, coordinando benissimo tutta la sua massa.

Non ha un primo passo esplosivo, motivo per cui fatica a battere il proprio uomo, ma sa trovare il compagno libero per lo scarico, cosa che lo tira spesso fuori dai guai e lo rende anche elemento fondamentale nell’ottima circolazione di palla della squadra.

Un suo problema storico sono i cali di concentrazione che subisce in modo piuttosto improvviso, magari a seguito di un errore o di una chiamata arbitrale che non lo soddisfa: sono a dir la verità sensibilmente diminuiti in questi anni, ma rappresentano pur sempre uno scoglio abbastanza importante alla sua attitudine in campo. Soprattutto sul lato difensivo dove, nonostante il buon senso della posizione, paga spesso in termini di velocità laterale e eccessivo uso del fisico.

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