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Elisir di lunga vita: la pietra filosofale dei San Antonio Spurs.

Benvenuti nel Texas: terra di cowboy, praterie e dinastie interminabili. Si perché i San Antonio Spurs non hanno nessuna intenzione di lasciare il passo al nuovo che avanza, e come accade da ormai 16 anni a questa parte stazionano ai piani altissimi della Western Conference. Il fenomeno-Spurs, nato dalla lungimiranza e dal genio del duo

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MJ, l’icona senza tempo

Lo scorso 17 Febbraio, durante l’All Star Game di Houston, Michael Jordan ha compiuto 50 anni. Molte le dimostrazioni d’affetto, dai più anziani, ai giovanissimi, dal nord al sud del mondo: tutti hanno voluto rendere omaggio a “His Airness”. Non si diventa, ovviamente, un’icona senza una carriera ineguagliabile alle spalle: 6 titoli NBA, 11 titoli

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NBA Weekly: Lakers in rimonta, il dubbio Rose e i giocatori più deludenti…

kobcast666Un altra settimana intensa nell’NBA, partiamo quindi col nostro Weekly.

SETTIMANA DI PASSIONE A L.A.

Kobe Bryant stringeva il braccio dolorante, e avviandosi verso gli spogliatoi sembrava prefigurare una settimana nera e l’ulteriore allontanarsi dei playoffs per i Lakers. Chi l’avrebbe pensato che nel giro di pochi giorni, e di due partite successive contro Hornets e Toronto Raptors, Kobe e soci sarebbero stati vicino come non mai alla postseason, grazie anche a una  caduta verticale di Jazz e non solo.

Ma ritorniamo  al Mamba ferito, e di come dopo la sconfitta contro i Thunder il giorno dopo i lacustri sprofondano a un meno 26 punti a metà partita, quasi in balia dei giovani Hornets. Quando, punto dopo punto, una rimonta prende piede, e un inferocito Bryant incomincia a mettere un canestro dopo l’altro, tripla dopo tripla, fino a un clamoroso sorpasso finale e un bollettino da urlo per la guardia gialloviola – 42 punti e 12 assists, numeri che lo mettono al secondo  posto dietro Larry Bird tra i giocatori più vecchi in grado di mettere a segno in partita almeno 40 punti e 10 assists.

Come non bastasse, il copione si ripete due giorni dopo contro Toronto. In casa i Lakers vanno sotto di 15 punti, ma ormai la squadra di D’Antoni ci ha abituato a partenze super lente, e complice anche un Howard in buona forma (24 punti e 13 rimbalzi pur coi soliti problemi dalla free-throw line) la partita finisce di nuovo punto a punto.

Ed è qui che inizia di nuovo lo spettacolo-Kobe, che con due impossibili tiri da downtown, e una schiacciata spettacolo in overtime, sigilla l’ennesima vittoria batticuore. Visto che tutto nell’NBA cambia in 24 ore o meno, parlare adesso sembra troppo facile, ma forse a L.A. c’è ancora ossigeno per far paura nei prossimi mesi…

DENVER DA URLO, ROCKETS FUORI GIRI

E’ curioso accostare queste due squadre, proprio perchè pur simili in una certa filosofia di gioco ( velocità d’azione e punteggi alti), i Nuggets all’ottava vittoria consecutiva sono decisamente caldi, mentre Houston  sta perdendo (vedi anche sabato sera contro Phoenix) troppe partite da vincere, se si vuole andare in postseason nella Western Conference.

Da sottolineare come nei Nuggets sia decisamente hot Ty Lawson, che forse ebbro del contrattone estivo era partito decisamente contratto (!) a novembre, salvo poi vedere il suo gioco nettamente crescere e in modo importante.

Oltre a tirare nelle ultime dieci partite con una media del 50% e avere oltre 23 punti a partita, il play di Denver è anche un clutch shooter, come hanno avuto modo di sperimentare sulla loro pelle i Thunder la scorsa settimana, con tiro decisivo proprio di Lawson negli ultimi secondi di partita. Con i Clippers, sconfitti giovedì sera, e i Memphis Grizzlies inquadrati ormai nel mirino, il sogno di Denver di raggiungere il terzo posto nella Western Conference non è più utopia.

Due i difetti da superare: una certa debolezza in trasferta, e i troppi liberi sbagliati a partita (ultimi nell’NBA), ma  occhio a non sottovalutare  i Nuggets….

DUBBIO ROSE

Il dubbio per Derrick Rose e il suo entourage è tra tornare adesso, contribuendo alla causa dei Bulls soprattutto nei playoffs, o farlo decisamente la prossima stagione, ripartendo dalla preparazione, preseason, insomma tutto il cammino normale quando si inizia da capo in una nuova stagione.

Bisogna tenere conto innanzi tutto che nessuno nella storia NBA è ritornato dalla ricostruzione del crociato laterale della caviglia esattamente alla condizione pre-infortunio, e anche nel 2013, con una tecnica chirurgica che permette a Rose di avere l’ok medico dopo 9 mesi dall’infortunio, rientrare in campo non è proprio una cosa semplice.

Per sgombrare il campo da facili parallelismi, diciamo subito che il play dei Bulls ha un gioco nettamente diverso da Ricky Rubio, altro infortunato eccellente ritornato a dicembre, che si basa (basava?) sulla straordinaria rapidità di movimenti per eseguire penetrazioni a canestro praticamente indifendibili, e che il gioco di Rose dovrà per forze di cose rivedere diversi aspetti, puntare più sul tiro perimetrale  e sugli assists, ma proprio questo elemento rende rischioso il ritorno in questo momento della stagione.

Vale la pena rischiare una ricaduta dall’infortunio (come capitò nel calcio a Ronaldo) affrontando avversari in piena forma, e che in difesa potrebbero  abusare continuamente di un giocatore non in grande condizione? Un conto è allenarsi in un 3 contro 3 o al tiro, un altro cosa è la partita vera e propria. Essere gettato nella mischia anche al 70% della condizione per Derrick Rose potrebbe essere un rischio, ma il business è business e forse la dirigenza dei “tori” la penserà diversamente…

 I GIOCATORI DELUSIONE

Deron Williams:  con tutte le scuse del caso, problemi fisici e alti e bassi di Brooklyn, diventa ormai difficile considerare Deron una èlite point-guard alla pari di altri giocatori  della lega come Chris Paul, Russell Westbrook, o Rajon Rondo. Il suo tiro sta continuando a diminuire in chiave percentuale da diversi anni, ed è difficile salire nei rankings NBA affidandosi alla luna spesso storta dell’ex Utah. Che con la cacciata di Avery Johnson si è anche guadagnato la fama di mangia-allenatori…

Landry Fields: soldi buttati alle ortiche quelle dei canadesi, visto che tra un infortunio e il poco gioco dimostrato, l’ex Knicks non ha proprio brillato oltreconfine. ..

Pau Gasol: annata veramente nera quella dello spagnolo, con l’infortunio che lo terrà fuori almeno fino a novembre ciliegina sulla torta in negativo. Fin dall’inizio ha giocato sotto il suo standard, e l’arrivo di Mike D’Antoni ha solo peggiorato la situazione almeno per lui, portando a una ridda continua di lamentele ingiustificate per un professionista del suo livello. Ha ancora abbastanza nel serbatoio per rinascere inun’altra squadra, sempre che non rimanga lui e Howard vada via in estate…

Michael Beasley: totale delusione per l’ex prima scelta di Miami, che a dispetto delle (meritate) critiche ricevute in carriera, un certo rendimento l’aveva sempre espresso. Quando le percentuali di tiro passano dal 44% al 38% c’è poco da dire altrimenti, visto che ai Suns l’avevano preso per essere il clutch shooter della squadra. Non pervenuto, e futuro ormai in serio dubbio…

Devin Harris: vedendo Harris si ha la sensazione di un giocatore i cui migliori momenti sono già passati, non un grande regista sul campo, non un tiratore eccezionale (44% di media  ma con meno minuti rispetto all’anno passato), e probabilmente un ruolo ancora minore il prossimo anno in un’altra squadra. Futuro in Cina?

Evan Turner: un ala perimetrale che non tira da 3 è una contraddizione in termini, ma riassume tutta la fragilità del giocatore di Phila. Inoltre le sue percentuali stanno anche diminuendo, visto che rispetto all’anno scorso tira col 42% dal campo, peggioramento rispetto al 43% in carriera. Destinato ad avere un ruolo sempre più limitato nell’NBA se continua così…

Come avete visto, l’NBA diventa sempre più emozionante col passare dei mesi. Appuntamento a tra sette giorni, con altre emozioni targate Weekly NBA!

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Golia contro tutti: chi fermerà gli Heat?

Chi può fermare LBJ e i suoi Heat?

Chi può fermare LBJ e i suoi Heat?

Giunti ormai all’ultimo quarto della stagione regolare, i rapporti di forza all’interno della lega più bella del mondo sono abbastanza ben definiti: e se ad Ovest si profila una volata a tre che per adesso vede gli Spurs (malgrado l’infortunio alla caviglia di Parker) con mezza ruota di vantaggio sui Thunder e sui Clippers, dall’altra parte degli States il panorama è di tutt’altro tipo, perché i Miami Heat campioni in carica non sembrano minimamente intenzionati ad abdicare e rimangono ben saldi sul trono della Eastern Conference con un margine enorme sui primi inseguitori.

Sembra essersi creata un’aura di invincibilità attorno alla franchigia della Florida: James, Wade e Bosh non sono affatto appagati e hanno sempre la faccia cattiva di tre uomini in missione, mentre tutto il “supporting-cast” costruito intorno al nucleo dei tre fuoriclasse timbra sempre il cartellino mettendo in campo un’intensità mai vista, non disdegnando di mettere i tiri che contano e di piazzare le giocate-chiave della gara.

Gli avversari di turno sono consapevoli che, malgrado riescano a costruire un margine consistente, la furia degli Heat potrebbe scatenarsi da un momento all’altro annullando qualsiasi svantaggio: è accaduto proprio così non più tardi di qualche sera fa, quando i Knicks si sono visti cancellare un vantaggio di quasi 20 punti all’intervallo da una furiosa rimonta che ha legittimato una volta di più il primato di conference di LeBron e soci.

Già, LeBron: ogni commento è superfluo per descrivere la stagione dell’ex perdente di successo. Dopo aver dominato il mondo nell’anno di grazia 2012, in cui si è portato a casa il primo e tanto agognato titolo NBA con allegati premi di MVP della stagione e delle Finals oltre all’oro olimpico vinto da protagonista con la maglia di Team USA, James sembra aver affinato ancor di più i suoi perfetti ingranaggi da arma letale, diventando pressoché inarrestabile: 27 punti con un irreale 56% dal campo e 41% da tre (con l’incredibile punta di un Febbraio da 30 punti e 64% al tiro, roba di videogame), più di 8 rimbalzi e più di 7 assist sono numeri che danno l’idea di un giocare infinito, completo in ogni aspetto del proprio gioco.

Ma, come spesso accade, le nude cifre non dicono tutto: le statistiche non possono raccontare la facilità con cui LeBron si muove su un campo di pallacanestro, dove porta a spasso un corpo di 120 chili che assomiglia più ad un armadio a due ante che ad un comune mortale con la leggerezza e l’agilità di un ballerino unite alla forza bruta di un toro in corsa; non sono capaci di descrivere l’onnipotenza che trasuda da un giocatore dal quale sai di poterti aspettare da un momento all’altro
La Giocata, quella che risolve la partita e riscrive la storia del gioco. Ineluttabile, come se tutto dovesse andare secondo la sua volontà.

E adesso, una volta fatto scendere dalle spalle il gorilla del predestinato che per molti anni è sembrato avere la meglio, James può guidare i suoi Heat oltre ogni limite.

La Eastern Conference è piena di Davide, ognuno di loro col la sua brava fionda tra le mani: ma il gigante Golia, con la maglia rosso fuoco degli Heat e il numero 6 sulle spalle, stavolta sembra proprio invincibile.

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NBA Weekly: Miami da record, i twitter di Kobe, e le percentuali playoffs…

Un’altra settimana di basket NBA, e via con un altro appassionante Weekly… MIAMI DA RECORD La vittoria a Minneapolis contro i Timberwolves ha sancito il record assoluto nella storia dei Miami Heat di vittorie consecutive in una stagione, e l’ennesima impronta nella storia NBA di Lebron James, protagonista principale anche se ovviamente non unico di

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Dottor Wade e Mr. Flash

dwade353Se  Tom Crean leggesse questo titolo, passerebbe metà mattinata piegato in due dalle risate. Ripenserebbe certamente a quell’ anno nel quale lui, coach dell’università di Marquette, e l’altro, Dwyane Tyrone Wade,  alunno non proprio modello al suo primo anno di College, avevano dovuto insieme barcamenarsi tra le dure regole NCAA sul rendimento scolastico e l’esigenza di non disperdere tutto il talento per la palla a spicchi, che quel ragazzo proveniente dai sobborghi di Chicago trasudava.

Ci sono voluti un’ intera estate passata sui libri e l’aiuto di qualche tutor, per portare le abilità di “writing” ,dell’allora ventenne Wade, a livelli accettabili per poter essere schierato in campo.

21.5 punti, 6.3 rimbalzi, 4.4 assist, 2.2 rubate per gara, sono i numeri che scrive al suo secondo e di fatto primo anno universitario. Di lì in poi, l’epopea del ragazzo cresciuto con la madre e tre sorelle maggiori, in uno di quei quartieri di Chicago, Robbins, nei quali sarebbe meglio non mettere piede, ha avuto inizio.

Scelto da Miami nel 2003 con la 5° scelta, primo titolo NBA a soli 24 anni, vinto giocando su livelli che subitaneamente fecero gridare al paragone jordanesco. E se sei nato a Chicago nel 1982, vissuto a due passi dal vecchio Chicago Stadium e vieni paragonato a MJ: “sei autorizzato ad andartene in solluchero, direbbe Salinger al giovane Wade.”

La seconda parte del titolo  è, in parte, ispirata da tutti i difensori che negli anni hanno dovuto star dietro al numero 3 degli Heat. Una sorta di “in loving memory”. Come si può star dietro a qualcuno che di soprannome fa “Flash”? Semplicemente, non si può.

Ultimamente, per motivi commerciali e logiche di marketing, Dwayne ha provato ad auto-affibbiarsi il soprannome di “WOW”, acronimo di “Way Of Wade”.
Ehi, Lebron che ne pensi? “It’s corny”. Smielato. Ok, cestiniamolo ed andiamo avanti.

L’assunto, però, è un altro. Chiaro e di istantanea comprensione: quando il dottor Wade decide di assumere le sembianze di Mister Flash, la narrazione di qualsiasi partita può cambiare.

E se proprio non volete scomodarvi nella lettura del celeberrimo romanzo di Robert Louis Stevenson, vi basta cercare sul web il video di gara 3 delle Finals 2006. In alternativa o in aggiunta, abbiate pazienza e continuate a leggere queste poche righe.

Iniziamo facendo un piccolo salto nel passato. Maggio scorso, serie play-off contro i Pacers. Miami è sotto 2 a 1 nella serie ed ha appena perso malamente gara 3.

Il progetto Big Three sembra sia sul punto di implodere. Dwayne ha appena giocato la sua peggior gara della carriera: 2/13 al tiro, 5 miseri punti e l’onta dei primi 24 minuti di gioco in bianco, senza canestri dal campo. Ecco, quello era dottor Wade.

Lo era per la dimestichezza con gli infortuni, soprattutto. 17 gare di regular season saltate a causa di problemi fisici vari. L’ombra del giocatore che era, indirizzato dagli infortuni e dall’essere sul lato sbagliato dei 30 anni sul viale del tramonto. Il resto di quella serie è già storia.

Subito dopo aver messo al dito il suo secondo anello, decide di operarsi al ginocchio e di dedicarsi al pieno recupero fisico. Pianifica la sua preparazione con cura maniacale, assume persino un allenatore personale che lo aiuti a ritrovare il suo mid-range jumper( sì, lo stesso che aveva mandato in frantumi le speranze di titolo di WunderDirk nel 2006).

Con l’avvinarsi della stagione, però, ricominciano le litanie di giornalisti ed addetti ai lavori. L’operazione al ginocchio, i 31 anni da compiere, la prospettiva di un ruolo da scudiero di Lebron, sono solo alcune delle frasi utilizzate per riempire giornali e siti internet. I primi mesi di regular season sembrano dare ragione agli scettici. Le cifre messe insieme dal numero 3, potrebbero descrivere lo scenario al quale nessun tifosi degli Heat avrebbe mai voluto credere. L’idea di un Wade non più in grado di essere  “Mr Flash”.

Come in ogni favola che si rispetti, ad un certo punto l’eroe ha bisogno di un aiutante. No, non LBj, che pur non ha mai fatto mancare il suo appoggio al compagno. In questo racconto, l’aiutante ha le sembianze di coach Spoelstra, lo stesso che, durante la serie contro Indiana, era stato invitato da Dwayne, al netto dell’edulcorazione, a spostare la sua poco gradevole faccia della sua vista.

“We roll our eyes when people are criticizing him. His game has evolved, it’s change. He’s scoring in different ways than he did for seven years” sono state le sue dichiarazioni indirizzate alla stampa.

Il vero capolavoro, però, coach “Spo” lo ha fatto sul campo, gestendo in maniera oculata il minutaggio di un Wade non ancora pienamente ristabilito: 33.6 minuti in Dicembre e 32.9 di media in Gennaio, fino ai 35.5 minuti a partita concessi nel mese di Febbraio.

Mese nel quale, finalmente, si è rimaterializzato “Mr Flash” e gli Heat hanno incominciato a vincere non fermandosi più, inanellando una striscia di 13 vittorie in fila tuttora aperta. Coincidenza?

Difficile chiamare coincidenza i i 15 punti messi a referto nell’ultimo quarto contro Cleveland, difficile non restare ammaliati dai 39 punti nella vittoria contro Sacramento, e scanditi dalla poesia del jumper  del “kid from Robbins”, annoverato ormai come patrimonio dell’Unesco.

Impossibile chiamare coincidenza, poi, i 25. 1 punti, i 5.7 assist ed altrettanti rimbalzi più le 2. 6 rubate di media nelle ultime 10 uscite in maglia Heat.

A South Beach alle coincidenze non ci hanno mai creduto. Tanto meno quando si parla del loro capitano. Soprattutto, quando si considera il talento di un ragazzo capace di segnare più di 16.000 punti in carriera (indossando sempre e solo una maglia), e in grado di regalare il primo titolo della storia della franchigia della Florida. Senza dimenticare il sacrificio in termini di testa e di cuore e a volte, anche di caviglie, ginocchia e polsi tributato alla causa comune.

Ed anche se, quando giungerà il momento in cui quel ragazzo deciderà di appendere le scarpette al chiodo, non dovessero essere  “not three” “not four” “not five”, sotto il soffitto dell’ American Airlines Arena potrete veder sventolare in bella mostra una canottiera con il numero 3.

Perché, l’altro potrà essere uno dei più grandi interpreti della storia di questo sport, ma “Mr Flash”, per i cuori dei tifosi Heat è e resterà sempre unico.

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