Se il dna è quello dei campioni, prima o poi si vede. Un inizio di stagione zoppicante, tanto da aprire le cateratte a fiumi di critiche e di “non sono più quelli di una volta”. Poi, come normale che sia, le misure piano piano si trovano. Soprattutto quando l’head coach ha semplicemente da costruire attorno a giocatore di pallacanestro più forte del mondo: Nikola Jokic. Siamo al 7 di gennaio quando scrivo queste righe e i Denver Nuggets, dopo aver incominciato la stagione 0-2 e 2-3, ora siedono al quarto posto della Western Conference con un record di 20-14.

La prima della classe, quegli OKC Thunder che ormai non sorprendono più nessuno, è distante dieci vittorie. Ma poco importa: ora si tratta di entrare in ritmo, trovare le misure e gli automatismi, magari fare qualche piccolo movimento sul mercato. E arrivare in aprile lanciati per la postseason.

Analisi di squadra

I Denver Nuggets delle prime 34 partite di stagione non raccontano una sola storia. È quasi come trovarsi di fronte Dr. Jekyll e Mr. Hyde, metà campo difensiva e offensiva. Con il pallone in mano sono tra gli attacchi più letali della lega, senza arrancano e inseguono senza – apparentemente – trovare una quadra. Partiamo, allora, proprio da qui:

  • 24esimi in opponent points per game (117.2)
  • 19esimi in defensive rating (114.5)
  • 29esimi – quindi penultimi – in field goals attempts allowed (93.9 a partita)
  • 28esimi in field goals allowed (43.8 a partita)
  • 18esimi in field goal percentage allowed (46.7%)
  • 17esimi in two-point percentage allowed (54.8%)
  • 26esimi in offensive rebounds allowed (11.8 a partita)

Sono solo alcuni dei numeri che certificano la mediocrità – a dir tanto – del reparto difensivo della franchigia del Colorado.

Dall’altra parte, però, è notte e giorno:

  • terzi in points per game (120.8)
  • quarti in offensive rating (117.9)
  • secondi in field goal percentage (49.8%)
  • quarti in three-point field goal percentage (37.9%), pur essendo la squadra che ne tenta di meno a partita (31.1 tentativi da dietro l’arco di media)
  • sesti in two-point field goal percentage (56.0%), essendo la squadra che più ne tenta (59.5 a partita)
  • settimi in rimbalzi a partita (45.4)
  • primi in assist a partita (31.7)
  • secondi per tiri liberi tentati (24.6 a partita)

Una squadra a dir poco dominante sul fronte offensivo – la media di 121 punti a partita è impressionante – pur andando nella direzione opposta rispetto al “nuovo” gioco del basket. Le pepite d’oro di coach Michael Malone rispetto alla passata stagione hanno diminuito il tasso di tiro dalla distanza e elevato quello da dentro l’arco (rispettivamente -0.5% e +3.4%). È schizzato verso l’alto il numero di volte che si trovano a tirare dalla lunetta, +25% rispetto a dodici mesi fa). Il che significa un gioco mobile, dinamico, che cerca sempre l’uomo libero (si guardi la statistica degli assist di squadra sopra citata) e che costringe l’avversario alle cattive maniere. L’inevitabile affanno delle difese, causato soprattutto da trovarsi di fronte il miglior big passatore della NBA, non è certo placato dal ritmo. La squadra di Malone ama giocare veloce, in transizione, e la statistica del pace lo dimostra: i Nuggets sono quinti nella lega con 101.2 possessi giocati in media a partita.

Il rendimento dei giocatori chiave

Se andate nella pagina dei leader di stagione in ogni categoria o statistica possibile e cercate come chiave le lettere “den”, vi uscirà un unico nome: Nikola Jokic. Sempre lui? Ancora lui? Esattamente. Zitto zitto, il tre volte MVP sta registrano la sua migliore stagione di sempre negli Stati Uniti. Eh già:

  • punti a partita: 31.5 (secondo dietro a Shai Gilgeous-Alexander)
  • percentuale da due: 57.6%
  • percentuale da tre: 47.3% (migliore della lega e della sua carriera)
  • effective field goal percentage: 60.5%
  • rimbalzi a partita: 13.0
  • rimbalzi offensivi a partita: 3.5
  • assist a partita: 9.7
  • palloni rubati a partita: 1.7
  • stoppate a partita: 0.6
  • Triple doppie: 14 (primo nella NBA)

Una stagione con un offensive rating oltre il 130 e uno dei defensive rating migliori della franchigia (110). Per capire che Jokic è l’anima, il motore, la mente e il braccio della squadra basta davvero poco. Quando è in campo mette la sua firma sul 38% dei rimbalzi e sul 43.3% degli assist di squadra. Se decide di tirare, la probabilità di muovere la retina quando Jokic tira entro i tre piedi dal canestro è poco più alta di quando tira da oltre 16 piedi.

Tra quando è in campo e quando è seduto sulla panchina, il plus/minus di squadra varia di 25.3 punti: se gioca i Denver Nuggets segnano +11.2 punti rispetto agli avversari, quando non è sul parquet -14.1 punti. È nella top 5 della NBA in punti fatti, punti per partita, rimbalzi totali, rimbalzi a partita, assist, assist a partita e percentuale da tre punti. È nella top 10 in rimbalzi offensivi e palloni rubati. Nikola Jokic è l’incarnazione del MVP, most valuable player, quello che regge la baracca sulle sue spalle come secondo la leggenda faceva Atlante con la volta celeste.

A fare da spalla all’Ercole serbo ci sono i soliti noti, come a dire il vero è quasi tutto il roster a disposizione di coach Malone. A guidare il backcourt c’è Jamal Murray, che quest’anno sta viaggiando a medie buone, che certificano il suo status di guardia solida e affermata nella lega: 19.4 punti, 4.2 rimbalzi, 6.3 assist e 1.6 rubate a partita tirando con il 36.6% dalla lunga distanza e con il 46.9% da dentro l’arco.

Terzo realizzatore di squadra è Michael Porter Jr., il tuttofare di coach Malone. Ha qualche minuto da shooting guard, qualcuno da centro, molti da ala grande e da ala piccola. Un vero e proprio coltellino svizzero che – e non è un caso – sta vivendo la miglior stagione della sua carriera dal punto di vista realizzativo. Per il prodotto di Missouri sono 19.1 punti a partita con il 42.3% da tre e il 52.4% dal campo, accompagnati da 6.5 rimbalzi e 2.6 assist. Il coinvolgimento nella costruzione dell’azione cresce di anno in anno: il suo assist percentage tra 2023 e 2024 è salito dal 6.7% al 10.4%.

A chiudere il quintetto delle meraviglie altri due veterani: Aaron Gordon e Russel Westbrook. L’ex Orlando Magic, nonostante alcuni problemi di infortuni e una stagione non stellare a livello statistico, ha sempre il suo impatto nel ben oliato sistema di Malone. I 13.7 punti di media sono il minimo dal suo primo anno a Denver, nel 2020, così come i 5.8 rimbalzi. Nonostante ciò l’offensive rating è il più alto della sua carriera (127), mentre paga qualche difficoltà nella sua specialità: la difesa. Il tasso di stoppate è crollato dal 20-30% delle passate stagioni al 7%, quello dei palloni rubati dal 16% al 9%. Nessun cambio di sistema, probabilmente l’assenza prolungata dal parquet lo ha leggermente destabilizzato e fatto uscire dagli ingranaggi rodati di squadra.

Per Russel Westbrook, invece, a un inizio zoppicante sono seguite settimane di ottimo rendimento. Da metà novembre in poi Russ viaggia a 12.7 punti, 7.2 assist, 5 rimbalzi e 2 rubate di media a partita. Le cifre non sono ovviamente stratosferiche, ma ala sua 17esima stagione Westbrook sta facendo esattamente quello per cui Denver lo ha portato in Colorado: avere un impatto, in qualunque metà del campo sia, in ogni momento gli sia richiesto.

Oltre a loro, un Christian Braun abbastanza volatile e mai del tutto convincente. I numeri sono ottimi se confrontati ai primi due anni in canotta Nuggets, ma non era difficile dato che gli erano riservati scampoli di partita. La partenza di Kentavious Caldwell-Pope gli ha inevitabilmente aperto il parquet: 13.9 punti, 4.8 rimbalzi, 2.2 assist e 1.2 rubate tirando con il 35.7% da tre. Per dirla con terminologia culinaria: quanto basta. Ma sarà davvero così?

Sei giocatori, e poi il vuoto. I giovani (Peyton Watson, Julian Strawther e Jalen Pickett) non riescono a ricavarsi un ruolo stabile nelle gerarchie. E, se anche lo fanno, quando il gioco si fa duro vengono relegati in panchina. I veterani (Dario Saric e DeAndre Jordan) sono ombre delle ombre di loro stessi. Denver manca di profondità e naviga sulle spalle del suo gigante. Basterà? E quanto a lungo può durare questa strategia? Ma alla fine nello sport è giusto che funzioni un po’ così: finché si vince…

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