Tutto è destinato a finire nella vita, bello o brutto che sia. A Golden State però sono almeno tre anni che non mostrano di volerlo capire.
L’anello NBA vinto nel 2022 aveva spinto alcuni appassionati a smentire il fisiologico declino dell’epopea Splash Brothers, una serie di annate fantastiche e irripetibili tra il 2014 e il 2019 per i Golden State Warriors che oltre ad aver portato sul tetto della lega una franchigia che per anni era stata considerata di livello basso ha cambiato il modo di giocare con l’esasperazione del tiro da tre punti volto a riproporre quanto mostrato sul parquet da Steph Curry, Klay Thompson e i loro compagni di squadra.
Tre anelli in quattro anni intervallati dalla vittoria dei Cleveland Cavaliers di un LeBron James in missione nella stagione 2015-16, poi le finals 2019 lasciate ai Toronto Raptors di Kawhi Leonard che si sono presi quello che ad oggi è il loro unico anello e successivamente i tremendi infortuni di Curry e Thompson che sembravano significare la fine del ciclo. Infine il quarto titolo dei Brothers nelle finals 2022 vinte contro i Boston Celtics ancora nella fase di costruzione della squadra che avrebbe a sua volta riportato il Larry O’Brian Trophy in Massachussetts nell’estate 2024.
Da qui, però, i risultati parlano chiaro: il 2022 non era un nuovo inizio ma semplicemente l’ultimo, seppur bellissimo, episodio di un periodo irripetibile per i Warriors e la NBA.
Due stagioni consecutive a cercare di raggiungere i playoff dalle posizioni di fondo, prima evitando il play-in tournament poi inseguendolo disperatamente, nel contesto di un grigio centro classifica di una Western Conference che nel frattempo proponeva franchigie come i Dallas Mavericks attuali campioni dell’Ovest (eliminati in finale di Conference proprio da Golden State nel 2022) i Denver Nuggets spinti dal favoloso Nikola Jokic all’anello 2023, i Minnesota Timberwolves e gli Oklahoma City Thunder pronte ad emergere dal basso per prendersi la gloria presente e futura.
Per tacere dei Los Angeles Clippers prima e dei Phoenix Suns poi che hanno cercato invece di bruciare le tappe d’arrivo alle Finals con parate di stelle e relativi milioni a pioggia di stipendi al seguito; non è andata bene ma hanno rappresentato comunque avversari ostici per dei Golden State Warriors che invece hanno continuato a gestirsi come se Curry, Thompson e Draymond Green non fossero mai usciti dal loro prime.
Il presente vede i Warriors settimi nella Western Conference e quindi nella stessa condizione in cui erano lo scorso anno e l’anno prima: invischiati nel mare magnum di quelle tantissime squadre che a Ovest inseguono le posizioni di testa cercando quello che gli manca per raggiungerle. Hanno iniziato l’anno vincendo 12 partite su 15 e lo hanno proseguito vincendone invece solo tre sulle successive 12, una delle quali è l’ultima giocata contro i Timberwolves già battuti due settimane prima e a loro volta in difficoltà dopo le finali di Conference 2023-24.
Le prospettive per il resto della stagione sembrano quindi ancora una volta la lotta alle ultime posizioni playoff cercando di raggiungerle direttamente e non attraverso il play-in che lo scorso anno ha visto i Warriors cedere ai Sacramento Kings, poi a loro volta eliminati dalla postseason il turno successivo contro i New Orleans Pelicans.
Una lotta niente affatto facile, a Ovest tankano in pochi (sostanzialmente gli Utah Jazz e i Portland Trail Blazers a cui potremmo aggiungere gli stessi Pelicans orfani per l’ennesima volta di Zion Williamson e praticamente di tutto il resto dei giocatori migliori causa infortuni) e la griglia playoff vedrà con molta probabilità piazzamenti decisi da una o due vittorie di differenza.
Non è la situazione ideale per un pubblico ancora restio a disabituarsi alle vittorie come quello dei Warriors. Ma col proverbiale senno di poi è la conseguenza di un roster costruito, quest’anno come gli scorsi, come se le stelle che hanno portato tanti trionfi non fossero mai cambiate.
A comandare in campo infatti sono ancora, come negli ultimi dieci anni, Steph Curry e Draymond Green col figlio di Dell che continua a rimandare prepotentemente la fase finale della sua carriera con prestazioni ancora da pelle d’oca come quella che ha consentito agli Stati Uniti di aggiudicarsi l’oro olimpico contro la Francia padrona di casa e spinta dal pubblico di Parigi.
Gli anni però sono comunque 36 e obiettivamente si sentono col fatturato offensivo di Steph che in questa stagione conta 22.4 punti a gara, il peggiore addirittura dal 2011-12 se si escludono i 20.8 messi su nelle sole cinque gare giocate nel 2019-20 del rientro dal terribile infortunio. Riguardo a Green, l’impatto di colui che da sempre è l’anima difensiva della squadra non può certo essere espresso appieno dai numeri ma anche per lui le primavere sono 34 e l’atletismo viene ovviamente meno.
Per concludere riguardo ai tre uomini di punta dello storico ciclo Warriors, quest’estate Golden State ha salutato Klay Thompson il cui addio è stato legittimamente vissuto come un evento epocale per il quale l’affare ha coinvolto, oltre agli stessi Warriors e ai Mavericks nuova casa di Klay, altre quattro squadre.
Il ruolo che Thompson ricopre a Dallas, però, è un buon modo per capire davvero la situazione attuale dell’ex Splash Brother di Curry nel 2024-25: al di là del fatto che parta in quintetto, ai Mavericks Thompson sostituisce idealmente Tim Hardaway Jr. che nella scalata playoff che ha riportato le Finals in Texas non aveva minimamente inciso.
Thompson non è più una stella (e il fatto che privati di Luka Doncic e Kyrie Irving, quindi con Klay potenziale primo violino, i Mavs abbiano perso malamente contro i Los Angeles Clippers ne è la prova) ma nella sua nuova squadra non ha più bisogno di esserlo e quindi Dallas può prendersi tranquillamente ciò che può ancora dare, poco o tanto che sia.
A Golden State invece Klay Thompson era ancora, a 34 anni e con due terribili infortuni alle spalle, la seconda punta al fianco di Steph Curry. E il risultato è stato lo 0/10 dal campo del losangelino e l’eliminazione dei suoi Warriors nella gara decisiva coi Kings.
Quando sei una squadra il cui ciclo vincente sta sfumando hai sostanzialmente due possibilità: cercare di cedere al massimo del prezzo le tue stelle ricavandone asset futuri, come hanno fatto ad esempio i Thunder una volta accortisi che neanche affiancando Paul George a Russell Westbrook avevano in mano una squadra da titolo, o sviluppare giocatori ancora alle prime armi nel contesto NBA in cui si gioca per vincere. A Golden State non è stato fatto nulla di tutto ciò.
La contropartita per la cessione di Thompson è stata l’arrivo in maglia Warriors di Kyle Anderson, eterno gregario utile per pochi minuti d’esperienza ai Timberwolves ma che a Golden State gioca 14.5 minuti a gara segnando la miseria di 5 punti di media, e di Buddy Hield che non è stato considerato un giocatore su cui puntare nè ai Kings nè agli Indiana Pacers e arriva in California a 32 anni e con un contratto in scadenza nel 2028 (player option sull’ultimo anno)
Davvero si pensava che sostituire Klay Thompson con questo tipo di profilo potesse portare i Warriors a vincere? Se sì è un pensiero quantomeno discutibile e la classifica finora dice ampiamente il contrario così come il rendimento di Hield, in linea con la sua carriera: 42.1% da tre, certo, ma solo 14 punti di media, solo un tiro libero a partita guadagnato e 1.4 assist a testimonianza che come sempre non può definirsi neanche un giocatore in grado di far segnare quando non segna.
A un backcourt costituito soprattutto da ultratrentenni in fase calante la dirigenza ha scelto negli ultimi giorni di aggiungere un nuovo innesto. Ovvero un altro ultratrentenne in fase calante.
Intendiamoci, Dennis Schroder non è affatto un giocatore disprezzabile e a livello FIBA ha vissuto proprio negli ultimi anni il periodo migliore della propria carriera che coincide con la coppa del Mondo vinta dalla nazionale tedesca nel 2023, di cui Schroder è stato l’MVP, e l’ottima Olimpiade giocata a Parigi in cui l’ex Hawks è stato portabandiera del suo Paese, eliminato in semifinale dalla Francia.
In NBA però il nativo di Braunschweig ha cambiato ben 6 squadre dal 2021 ed è tornato sopra i 15 di media solo in un contesto perdente come quello dei Brooklyn Nets da cui proviene e che ha accettato, oltre ai contratti di De’Anthony Melton fuori per la stagione e Reece Beekman (two-way contract) molto volentieri ben 3 seconde scelte future in cambio.
D’accordo, si tratta comunque di scelte al secondo giro, ma Brooklyn ha fatto ciò che una squadra in ricostruzione deve solitamente fare: cedere uno scorer di 31 anni e poche prospettive per prendere quanti più giovani futuribili possibile. A Golden State non solo questo non è stato fatto finora ma non si è neanche mai considerata la possibilità di un rebuilding.
La franchigia ha ancora in mano le proprie prime scelte future ma continuando a giocare per vincere con un roster che obiettivamente non sembra esserne più in grado è difficile che si otterranno scelte alte e soprattutto i Warriors, encomiabili e apprezzati nella costruzione della squadra che ha dominato l’NBA nella seconda metà degli anni Dieci, non hanno finora neanche brillato nello sviluppo dei (pochi) giocatori emergenti che hanno o avevano a disposizione.
Finora il solo Jonathan Kuminga si è in qualche modo distinto per poter diventare un giocatore affidabile ma è ancora chiuso nello starting five da Draymond Green e Andrew Wiggins; si era deciso di farlo partire in quintetto da inizio dicembre a seguito di cinque sconfitte consecutive ma cambiando nuovamente idea nella gara coi Memphis Grizzlies del 19 dicembre.
In quella gara partivano in quintetto Curry, Schroder, Green, Wiggins e Kevon Looney. Risultato: sconfitta di 51 punti (margine più largo nelle partite di questa stagione NBA) e Curry a 0/7 dal campo, Green 0/4 e l’esordiente Schroder a fare poco meglio con 2/12.
The 51 point loss to the Grizzlies is tied for the 4th largest loss in Warriors history.
It’s the 2nd largest victory in Grizzlies history, falling short of their 73 point victory in 2021https://t.co/2HqBMY9axS
— NBA Hoops Online (@NBABoards) December 20, 2024
Chiaro che una sconfitta così pesante non può essere colpa di Kuminga che non parte in quintetto ma altrettanto chiaro che una prestazione come questa non è degna di una squadra competitiva ed è l’ennesima prova che in effetti la Golden State di Curry e Green non lo è più e non c’è attualmente nessuno, nè Kuminga nè Brandin Podziemski (che con Memphis ha salvato la faccia ma resta un sophomore da 8.4 punti a gara, in peggioramento rispetto ai 9.2 dell’anno da rookie, che tira col 27% da tre) che possa affiancarli o tantomeno sostituirli.
E a proposito di mancato sviluppo dei giovani a questo punto non si può prescindere dal ricordare Jordan Poole che nell’anello 2022 fu determinante e apparve pronto a prendere le redini del backcourt di Golden State per poi calare a seguito dell’arcinota lite con Draymond Green ed essere ceduto ai Washington Wizards, una delle squadre peggiori della NBA, dove si è rapidamente trasformato nell’ennesimo realizzatore da squadra in tanking. Contropartita della cessione: un anno del pluricalante Chris Paul.
Che Steph Curry sia uno dei giocatori storici della NBA non si discute. Che i Golden State Warriors di Steve Kerr siano una delle squadre storiche della NBA nemmeno. A questo punto però non è neanche discutibile come il ciclo sia definitivamente finito ed è bene che a San Francisco se ne prenda atto prima che dopo la fine della militanza di Curry e Green, così come è finita quella di Klay Thompson, restino solo macerie.
Sotto la copertura di un tranquillo (si fa per dire) insegnante di matematica si cela un pazzo fanatico di tutto ciò che gira intorno alla spicchia, NBA in testa. Supporter della nazionale di Taiwan prima di scoprire che il videogioco Street Hoop mentiva malamente, in seguito adepto della setta Mavericks Fan For Life.