Dov’è finita la squadra che aveva sfiorato il cielo con un dito solamente la scorsa primavera? Tra i misteri meno risolvibili della nuova stagione Nba, i Wolves occupano senza dubbio una posizione di alto rilievo: in fondo, non è trascorso poi moltissimo quel famoso 20 maggio, oggi ritenuto essere il punto più solenne dei trentacinque anni passati dalla fondazione della franchigia di Minneapolis, ovvero quando Anthony Edwards aveva deciso di emulare MJ per stile di tiro, precisione, cattiveria agonistica e quant’altro gli passasse per la mente, trascinando di forza a una rimonta da annali del basket, contro gli allora campioni in carica Nuggets. Sotto di 20 lunghezze in principio di terzo periodo di una gara-7 che aveva semplicemente imposto il dominio di Jokic e compagnia, i Wolves avevano costruito una vittoria nientemeno che leggendaria, serrando i ranghi difensivi, giocando rapidamente in transizione, nonché affidandosi ai jumper di quel giovanissimo ragazzo pronto per il grande salto tra le indiscusse superstar di lega, qualificandosi per la finale della Western Conference a vent’anni dalla prima gita.
Avrebbero poi ceduto il posto alle Finals all’indomabile Luka e ai suoi Mavericks, ma avevano intanto gettato le basi per un ciclo di successo che, come spesso accade, porta a delle previsioni di ulteriore progresso del risultato già ottenuto, sfruttando l’apertura di una finestra congruamente lunga, se non altro per l’età ancora molto giovane del miglior giocatore di squadra. Quei Wolves avevano reso orgogliosa Minnesota, pareggiando l’avanzata playoff più lunga di sempre dai tempi di Kevin Garnett: la compagine allenata da Chris Finch pareva una polveriera in grado esplodere mettendo in difficoltà chiunque, per quanto fosse lecito chiedersi se, a livello di leadership, Edwards fosse psicologicamente pronto nella stessa misura in cui aveva già provato di esserlo agonisticamente.
THE SHAKE-UP
Parziali indicazioni di ciò, sarebbero dovute pervenire proprio tirando le somme di questo inizio campionato: tuttavia, pur girando e rigirando gli addendi, qualcosa non torna, dato l’attuale record addirittura perdente sinora collezionato. Anzi, molto più di qualcosa, visto il livello di attesa che ha avvolto i T-Wolves sin dal principio della scorsa offseason, finché non è giunta la notizia che, visto il tempismo, ha evidentemente scosso l’ambiente portando a conseguenze che si stanno lentamente comprendendo, man mano che lo svolgimento della stagione potrà fornire indicazioni più precise. A pochissimi giorni dall’inizio del training camp, infatti, la dirigenza aveva deciso di ritentare l’assalto alla finalissima senza Karl Anthony Towns, pilastro storico della franchigia sotto il profilo della militanza e delle statistiche, ma spesso criticato per non essere il cosiddetto generale atto a condurre le truppe al titolo.
L’improvvisa assenza di KAT ha portato a logiche modifiche dell’assetto precedente, sotto molteplici punti d’osservazione. Si è riscontrata una minore continuità offensiva, motivazione che sta in parte dietro ai parziali che Minnesota tende troppo spesso a subire, l’impatto difensivo è letteralmente calato dopo quell’aggressione fisica e pressante cui era sottoposto ogni avversario l’anno passato e che aveva lanciato i Wolves al primo posto Nba per efficienza nello specifico settore. Un altro fattore determinante va a ricadere doppiamente sulle spalle di Ant, conscio di avere oggi il completo carico delle sorti di squadra sulle spalle, essendo venuto a mancare un appoggio che, al di là delle critiche, Towns in ogni caso forniva proprio grazie al suo ampio portafoglio di soluzioni offensive, unito alla capacità di incidere sotto il tabellone, dando luogo a una realtà d’area estremamente ardua da valicare se abbinata alla contemporanea presenza di Rudy Gobert.
Parte delle difficoltà vissute da Finch risiede proprio nell’innesto dei due nuovi elementi del quintetto, viste le differenti caratteristiche apportate da Julius Randle e Donte DiVincenzo. La squadra non possiede più la chimica precedente, i due innesti stanno ancora cercando continuità nell’applicazione delle idee schematiche, e qualche problematica di aggregazione era assolutamente da mettere in previsione. Tuttavia, se Randle è assai poco discutibile a livello di talento offensivo, il medesimo sta alla base delle sofferenze difensive che hanno visto la squadra scendere dal primo al dodicesimo posto nell’apposito rating, causa la generale mancanza d’intensità sinora dimostrata e la lentezza nella contestazione delle triple avversarie, principale lacuna dimostrata fino a questo momento, unitamente a un’energia a rimbalzo che potrebbe essere decisamente più alta.
Ciò ha portato a una discesa generale nel rendimento quando Gobert se n’è andato rifiatare in panchina, se non altro perché, con Randle e Reid sotto canestro, i lunghi avversari hanno letteralmente pasteggiato. Oltre a ciò, la convivenza tra Giulione e il francese non è stata esattamente semplice da gestire, fatto chiaramente nato dai nervi che stanno attraversando la mente di tutto il roster per pura frustrazione di risultato, fatto evidenziato dalla gara persa contro i Raptors, quando l’ex-Knicks si è sostanzialmente rifiutato di servire Gobert in post per quella che sarebbe stata una facile conclusione offensiva. Il centro, quattro volte Mvp difensivo di lega dal carattere a volte assai immaturo, ha spesso assunto atteggiamenti adolescenziale, protestando per la mancanza di coinvolgimento e non ricevere, quindi, un adeguato premio per gli screen, i rimbalzi, e tutto il resto del lavoro sporco, fatto che ha certamente contribuito a creare un clima non esattamente respirabile all’interno dello spogliatoio.
Per DiVincenzo, invece, sostenere che l’inizio di campionato sia stato difficoltoso, non rende nemmeno tanto bene l’idea. Finch si è ovviamente affidato ai veterani per cominciare l’anno, a maggior ragione per dare loro modo di ambientarsi e accumulare minuti di esperienza nel nuovo sistema, ma le percentuali di Donte si sono notevolmente abbassate – e qui viene meno tutta l’utilità da oltre l’arco dimostrata (anche) nei playoff con New York – e il suo utilizzo fuori posizione è stato quantomeno deleterio. Se la preseason, che lo aveva visto sperimentato da playmaker, aveva promesso benino, la stagione regolare ha invece testimoniato passaggi forzati, mancanza di ritmo e precisione, nonché una marea di turnover. Gestito tra quintetto (2 partenze) e subentri a gara in corso (le restanti 16 occasioni) a seconda delle assenze di Mike Conley, l’ex-Villanova sta producendo 8.9 punti con il 31.5% da tre su una media di quasi 7 tentativi per serata, statistiche decisamente non corrispondenti all’investimento eseguito.
THE ADRENALINE RUSH
Se proprio Conley, 37 anni, è l’unico vero generale del parquet a roster, e le alternative sono limitate a DiVincenzo e Alexander-Walker, nessuno dei quali in agio a cominciare l’azione con la palla in mano, ci si chiede se non sia l’ora di levare i freni a quella scatoletta di energia pura rispondente al nome di Rob Dillingham. Il problema semmai riguarda la gestione di questa sottodimensionata scarica di adrenalina, la quale ha dimostrato di essere un ottimo antidoto agli inizi letargici dei compagni nelle occasioni in cui gli è stata data fiducia, ma al contempo un treno impazzito e irrefrenabile, un elemento grezzo, che ha assoluta necessità di una guida ragionata.
Matricola, quindi con esperienza tutta da fare in un nucleo già arrivato in alto, listato a 79 chilogrammi ma solo dopo aver lautamente pranzato, Dillingham non ha comprensibilmente visto molto il campo, in particolare per timore che la sua possibile poca fisicità andasse a incidere troppo sulle già esistenti problematiche difensive. Il boom è parzialmente giunto contro Houston, confronto nel quale sono arrivati ben 24 minuti d’impiego a fronte di 12 punti, 7 assist e 5 rimbalzi e un +26 coinciso in sua presenza, segno vitale di un’attività che quel ritmo mancante è capace di accenderlo in un attimo. A patto di saperlo direzionare a dovere, certo, per via di una selezione di tiro non propriamente eccelsa e la frenesia conducente dritta all’accumulo di turnover, croce e delizia per un giocatore che ha inciso molto positivamente affrontando i Rockets, ma che ha pure perso un possesso decisivo che, alla fine dei conti, ha causato una sconfitta al supplementare anziché la vittoria nei regolamentari.
Se ben coordinata, potrebbe comunque essere questa l’uscita dalla panchina di cui i T-Wolves hanno un disperato bisogno.
WE JUST DON’T PLAY HARD
Se queste possano essere parole da leader o meno, vi applichiamo perlomeno il beneficio del dubbio. Chiaro che Edwards senta di dover in qualche modo scuotere i compagni e, in qualità di star indiscussa dello spogliatoio, dirigerla verso lidi assai migliori di questo. Siamo solo a quota 23 primavere, chiaro, ma è necessaria pure una congrua dose di maturità. Per quanto possa essere frustrante una sconfitta come quella patita contro i Kings, sprecando un vantaggio di 12 punti a 7 minuti dal termine prendendo un parziale assurdo, bisogna fare attenzione a ciò che si lascia uscire in direzione della stampa e del pubblico, e di come questo possa venire abilmente manipolato da chiunque, creando ulteriore malumore.
Poco serve, infatti, criticare apertamente un palazzetto che ha sommerso la squadra di disapprovazione al triplo zero di quella specifica gara, e definire la squadra soft va benissimo, a patto che lo si faccia a porte chiuse, magari evitando di fare la figura di colui che sta andando in cerca di discolparsi per la situazione. Grazie ai commenti pubblici di Ant, del quale è in ogni caso apprezzabile l’onestà, sappiamo che oggi i T-Wolves non sono un gruppo che guarda l’uno le spalle dell’altro, l’esatto contrario di un’entità unica e unita, vivendo un clima divisivo dove ognuno sta per i fatti suoi, arrabbiato per le vittorie che non arrivano, per le contender che scappano nelle posizioni alte della classifica, per l’inettitudine difensiva, e chissà quanti altri aspetti ancora.
Oltre che alle questioni tattiche, Finch deve soprattutto ricostruire la mentalità di gruppo che ha portato Minnesota vicino a un traguardo mai raggiunto prima. E che l’attualità, dipinge come un qualcosa di improvvisamente lontano dalle possibili ambizioni di questa realtà.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.