Negli Stati Uniti queste trade le chiamano blockbuster, un termine prima militare (bomba che fa saltare in aria un intero isolato) e poi cinematografico (successone al botteghino hollywoodiano). Ecco, riprendendo la seconda sfumatura potremmo tradurlo in italiano con “da popcorn”. Stavolta però c’è qualcosa di diverso.

Perché di blockbuster negli ultimi anni ce ne sono state a valanga. Mai però si erano visti due All-Star scambiati a una settimana dal training camp, quando insomma i meccanismi di squadra iniziano a rodare.

Karl-Anthony Towns è un nuovo membro dei New York Knicks. Ai Minnesota Timberwolves andranno Julius Randle, Donte DiVincenzo e una prima scelta protetta (dei Detroit Pistons, via Knicks). Una trade clamorosa, che ha in sé il germe di quello che sarà negli anni a venire il problema per tutti i front office: il nuovo CBA (Collective Bargaining Agreement).

New York: perché KAT?

La risposta alla domanda è semplice. I Knicks hanno dovuto convivere tutta la passata stagione con un chiaro problema: i lunghi.

Mitchell Robinson di rientro dall’ennesimo infortunio, Isaiah Harteinstein approdato agli Oklahoma City Thunder. Alla posizione 5, insomma, c’era una voragine. Randle, anche lui in procinto di rientrare da un’operazione, non è mai stata un’opzione nel pitturato: a coach Tom Thibodeau piacciono i big man che siano davvero big. E in più c’era anche un tema di roster: OG Anunoby a gennaio, Mikal Bridges in estate. Ala grande e ala piccola sono occupati, e anche in maniera stabile. Per Randle non ci sarebbe stato spazio.

E per KAT? Per lui sì, perché è versatile. Può giocare da 4 con Robinson, o da 5 con Anunoby e Bridges. Non solo. Rispetto a Randle garantisce molta più consistenza al tiro. Sam Quinn, giornalista per CBS, lo ha definito “secondo quasi tutte le statistiche, il più grande tiratore che abbia mai giocato centro“. Parole al miele che Quinn non ha – giustamente – avuto anche per Randle, definito “floor-raiser, not ceiling-raiser“. In poche parole, ti alza il livello medio della squadra ma non ti trascina al titolo.

Certo, ci sono anche non poche problematiche. C’è chi storce il naso di fronte al fit di Towns nella difesa iper-aggressiva e organizzata di coach Thibs. Ma probabilmente la verità è che, Randle o KAT che sia, un anello debole nella catena lo devi comunque mettere in conto. Tanto vale prendere un anello che può fare molto più male in attacco. Contando comunque che in difesa le sue (chiare) lacune saranno schermate da chi si trova affianco: Anunoby, Bridges, Hart, McBride. Non tutti insieme, probabilmente.

C’è anche il tema DiVincenzo. Perdere uno specialista come lui fa male, su questo non ci piove. La panchina si è assottigliata, e Thibs sarà costretto a eleggere McBride al ruolo di sesto uomo. Sarà pronto? Ce lo dirà solo il parquet.

Di certo KAT si inserisce in maniera perfetta nello scacchiere offensivo di New York e li rende sulla carta una delle squadre più devastanti della prossima stagione, anzi delle prossime. Questione soldi permettendo (ma la vedremo in profondità più in basso).

Minnesota: perché Randle?

Più che perché Randle, bisogna prima partire da perché non KAT. La risposta vera sarà nel prossimo paragrafo, ma la si può immaginare: soldi.

Passiamo allora alla questione campo. Towns non è mai stato neanche lui un ceiling-raiser, perlomeno nei Playoff. Ha nove partite sotto i 20 punti nella carriera di postseason, solo sette sopra. Per un giocatore che in stagione regolare è stabilmente sopra la ventina. Ancor più preoccupante è l’impressione che nelle settimane in cui la palla davvero scotta KAT fatichi ad alzare stabilmente il livello di gioco. Qualche semplicissimo numero per paragonare regular e postseason 2024:

  • Punti: 21.8 –> 19.1
  • Percentuale da 3: 41% –> 36.1%
  • Rimbalzi: 8.3 –> 9.0
  • Assist: 3.0 –> 2.6

I T’Wolves arrivano da una stagione incredibile, finita solo nelle Western Conference Finals contro i Dallas Mavericks di Luka Doncic. Le prime tre sconfitte contro i texani, per un totale di 13 punti di scarto, hanno avuto un filo rosso comune: prestazioni di KAT ben al di sotto delle sue possibilità. In quelle tre partite ha tirato con 15/54 (27.7%) dal campo e 3/22 da tre (13.6%). Numeri che giustificano, anche se a mio parere solo in parte, la volontà di andare oltre e salutare uno dei giocatori più emblematici della recente storia dei Lupi.

E ora passiamo a Randle. Perché? Si potrebbe fare lo stesso lavoro statistico fatto sopra:

  • Punti: 24.0
  • Percentuale da 3: 31.1%
  • Rimbalzi: 9.2
  • Assist: 5.0

Migliore in tre statistiche su quattro, ma con meno partite sul groppone a causa dell’infortunio che lo ha costretto ai box. I numeri però rimangono un prodotto sì del giocatore, ma anche dell’ambiente e del sistema in cui è calato. E il sistema di coach Chris Finch potrebbe valorizzare meglio il 29enne rispetto a quello di Thibs. A livello di qualità di tiro e percentuali non c’è paragone, ma a livello di shot creating per i compagni Randle può dire la sua. Anche perché Minnesota si sarebbe trovata a iniziare (di nuovo) la stagione solo con due giocatori che avessero quella spiccata caratteristica: Anthony Edwards e Mike Conley. Non che sia “spiccata” di per sé in Randle, ma è tutto grasso che cola.

E tutto quello che si perde in tiro con Randle, lo si guadagna enormemente con Donte DiVincenzo:

  • Punti: 15.5 –> 17.8
  • Percentuale da 3: 40% –> 42.5%
  • Rimbalzi: 3.7 –> 4.0
  • Assist: 2.7 –> 2.6

Il miglioramento nei Playoff c’è, anche se gonfiato dall’infortunio che ha tenuto fuori Brunson per una manciata di partite. Ma l’abilità di spezzare il polso certo non manca. Un’opzione in più dal perimetro, con per di più doti difensive troppo sottovalutate, non ha mai fatto del male a nessuno.

La questione soldi: cosa c’entra il CBA?

Partirei da un assioma: nella NBA ciò che conta sono i soldi. Il sistema soft capluxury tax e chi più ne ha più ne metta… tutto creato per gli amanti della ginnastica dei numeri e per far girare il dollaro. Niente di male. Qualcosa però è cambiato con il nuovo CBA, il contratto collettivo stretto tra la lega e la NBA Player Association in vigore dall’anno passato.

“Non è mai stato così difficile scambiare un giocatore che si aspetta il massimo salariale ma non gioca al livello dei soldi che richiede”. Sam Quinn ancora una volta è tranchant. Ma nelle sue parole c’è tanta verità.

Cosa è cambiato rispetto all CBA precedente? Dal 2023 è stato aggiunto nel sistema salariale il cosiddetto second apron, fissato 17.5 milioni di dollari sopra il livello della luxury taxIl superamento del second apron farà scattare sanzioni e restrizioni, che diventeranno tanto più dure quanto più una franchigia in ripetute stagioni consecutive non rispetta. Fino ad arrivare all’annullamento di una futura prima scelta al Draft, che viene in automatico spostata in fondo al primo giro a prescindere da come la squadra si sia classificata l’anno precedente.

L’idea di base è di rendere più difficile per big market franchises acquisire dall’esterno giocatori costosissimi a suon di dollari. Una sorta di tentativo per evitare che i ricchi continuino ad arricchirsi, lasciandosi alle spalle i più poveri.

Prima del nuovo accordo, i rinnovi di stelle e mezze stelle al massimo salariale era all’ordine del giorno. Dopo tutto, soprattutto per le proprietà più ricche, cos’era pagare qualche milioncino in più di luxury tax per veder giocare campioni nel proprio palazzetto? E da qui i vari Zach LaVine, Bradley Beal e compagnia cantante hanno ricevuto i loro contrattoni senza che i front office neanche battessero ciglio. Ora?

Ora no. Si pensi a Brandon Ingram dei Pelicans. Il valore di mercato è sui 35 milioni annui, lui ne chiede 50. Due anni fa avrebbe già firmato, oggi è a 12 mesi dalla scadenza e l’accordo non è neanche all’orizzonte. Anzi, è ben più probabile che New Orleans lasci scadere il contratto. Anche perché, se lui chiede quelle cifre, è diventato virtualmente inscambiabile.

E cosa c’entra KAT con tutto questo? Towns è un Ingram al quadrato. Perché lui il supercontratto lo ha già firmato: 4 anni a 220 milioni, con l’ultima stagione una player optionn da 61 milioni. Per liberarsi di un contratto così pesante Minnesota avrebbe dovuto scommettere in prestazioni che giustificassero una spesa tale… e ai Lupi non è piaciuta l’idea di scommettere.

Lasciare che scadesse il contratto nel 2028 non era un’opzione: avrebbe mandato all’aria la finestra di slancio che si sono creati con Anthony Edwards. La soluzione era una sola, ed era un’ora o mai più.

Anche perché la situazione contrattuale in quel di Minnesota è – anzi era – oltre i limiti del drammatico. Il prossimo anno (2025-2026) la dirigenza dovrebbe sborsare 66 milioni di dollari solo come compensazione per aver sforato il tetto salariale. Ed è difficile che le cose migliorino.

Da questa stagione Anthony Edwards entra nel primo anno del suo supermax da 244 milioni in 5 anni. Uno di quei contratti definiti Rose rule: quando, in poche parole, il contratto occupa il 30% (e no il 25) dell’intero spazio salariale. A questo bisogna aggiungere i 130 milioni in 5 anni con cui Minnie ha rinnovato Jaden McDaniels. Per arrivare alle due grane della prossima estate, tutte e due nel reparto dei lunghi.

Rudy Gobert a fine stagione avrà a disposizione una player option da 46 milioni: probabilmente la declinerà per ricevere maggiore sicurezza contrattuale nel lungo termine. Naz Reid è nella stessa identica situazione, ma sicuramente rifiuterà l’opzione da 15 milioni. Il che significa, per Minnesota, due grossi e ricchi rinnovi all’orizzonte. In condizioni de genere, è evidente che il peso del contratto di Towns era insostenibile.

Se avessero scelto di tenere intatto il roster? Quest’anno sono oltre il second apron, l’anno prossimo lo sarebbero stati ancora. Una doppia violazione che, per il nuovo CBA, si può fare solamente una volta nell’arco di cinque stagioni consecutive. Pena il congelamento di future prime scelte, spostate “d’ufficio” al fondo del primo round. Un’eventualità non auspicabile per uno small market spendaccione come Minnie, che ha bisogno come l’aria di contributori giovani e a bassissimo prezzo come i rookie.

La scelta però sarebbe comunque potuta essere differente: non rinnovare Reid? Scambiare McDaniels? Il portafoglio di Towns rimaneva comunque troppo ricco, ed era altissimo il rischio di non riuscire a scambiarlo i prossimi anni.

Anche perché il presidente Tim Connelly, colui che si occupa di tutte le decisioni finanziare, a quanto pare avrebbe un opt-out dal suo contratto per il prossimo anno. Se la situazione finanziaria non fosse delle migliori, può prendere baracca e burattini e salvarsi prima che i Timberwolves calino a picco a suon di multe e scelte congelate. Era necessario, quindi, dargli la possibilità di avere delle carte giocabili in mano. Cosa che con Randle Minnesota ha fatto.

Il contratto dell’ex Knicks è molto più digeribile: due anni a 58 milioni totali, il secondo una player option da 30. Il valore del contratto c’è, soprattutto se confrontato con la lievitazione delle cifre per KAT. Nella NBA di oggi 30 milioni per un’ottima ala non sono un prezzo malvagio da pagare.

Ma soprattutto, la durata dell’accordo permette alla franchigia di disfarsi come meglio vuole di Randle nel caso l’esperimento non funzionasse. Se non funziona, basta lasciare che il contratto espiri oppure usarlo come pedina di scambio, ben più facile da muovere rispetto al contrattone di Towns.

Se funziona, sono liberi di rinnovarlo a cifre più gestibili, evitando di rischiare un nuovo sforamento del second apron. E in tutto questo guadagnano pure un’ottima prima scelta, oro colato per chi sta cercando di abbassare i costi, e un gregario di lusso come Donte DiVincenzo a 11 milioni annui.

Conclusione

Una mossa all-in per i Knicks, una mossa di portafoglio per i Timberwolves. Forse anche solo da qui si può capire l’abisso che separa una franchigia big market da una small. Chi vive nella Grande Mela, o Miami o Los Angeles, si può permettere tutto. Il rischio dei piccoli è la normalità dei grandi, perché le finanze stanno dalla loro parte. Il CBA tenta di porre argine a questa situazione, ma è davvero difficile.

Per intenderci: Phoenix quest’anno spende 220 milioni in stipendi, e 216 milioni in luxury tax. Seguita a stretto giro proprio da Minnie, 77 milioni di multa. E poi Boston, Milwaukee, Los Angeles, Miami, New York, Philadelphia, Golden State. I ricchi non hanno mai avuto paura di spendere. I poveri sì, e pur di non farlo e giocarsi il futuro sono disposti a scambiare i loro giocatori più rappresentativi.

New York fa un ultimo passo in avanti per diventare una contender di quelle serie. Minnie non fa salti di qualità, anzi forse perde qualcosina. Ma ha sacrificato il 2025 per prolungare le sue possibilità future e non collassare sotto il peso del sistema. La rinuncia a Towns è necessaria per garantire a Edwards una squadra di livello a lungo termine. Se sarà così, ne sarà valsa la pena. Anche perché, alla fine della fiera, per ampi tratti della scorsa stagione KAT è stato il terzo miglior giocatore a roster. Non il secondo, non il primo.

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